lunedì 6 aprile 2020

"Arricchimento": Bolstanski, Esquerre e la critica della merce

Copertina Arricchimento
Luc Boltanski e Arnaud Esquerre: Arricchimento. Una critica della merce, Traduzione di Andrea De Ritis rivista da Tommaso Vitale, il Mulino, Bologna, pagg. 584, € 38


Sua maestà, la merce!
Tra mercato e profitto. Boltanski ed Esquerre esplorano l’idea di prodotto e del suo valore sino alla commercializzazione, oggi più che mai spinta dalle narrazioni dei creativi
Ermanno Bencivenga Domenicale 5 4 2020
«Una cosa si trasforma in merce» scrivono in Arricchimento Luc Boltanski e Arnaud Esquerre, sociologi francesi qui in trasferta in ambito economico «quando in una situazione di scambio le viene attribuito un prezzo.» Che cosa permette di stabilire il prezzo?
Due sono le risposte principali. La prima, suggerita da Tommaso d’Aquino e Locke, sviluppata da Adam Smith e Ricardo e culminata in Marx, con cui viene di solito identificata, è che il prezzo sia fondato sul valore, a sua volta determinato dal lavoro impiegato nel produrre la merce. La seconda ha origine in Aristotele, per cui una merce vale in base al bisogno che se ne ha; a lungo in difficoltà perché ciò di cui abbiamo più bisogno, come aria e acqua, sembrava non valere nulla, fu riabilitata a fine Ottocento dai teorici del bisogno (o utilità) marginale, dando luogo all’economia neoclassica (non è la prima boccata d’aria a determinare il valore dell’aria, ma l’ultima; quindi preparatevi a quando ogni boccata d’aria potrebbe essere l’ultima disponibile; allora capirete il valore dell’aria). Entrambe le teorie hanno pretese universalistiche: forniscono una visione atemporale (l’economia neoclassica) o escatologica (Marx). Boltanski ed Esquerre scelgono un approccio più sensibile a variazioni e differenze.
Rimanendo inteso che la logica del capitalismo «è di perseguire l’accumulazione illimitata del capitale» e portare «a una mercificazione illimitata della realtà», le forme di valorizzazione (cioè di conversione di cose in merci) usate «sono storiche e non destinate a rimanere immutabili». Invece di un percorso provvidenziale del genere agostiniano o hegeliano, o di un mondo umano dominato da leggi tanto inderogabili quanto quelle fisiche, ci aspetta una molteplicità kuhniana o foucauldiana, per la quale gli autori evocano anche la geometria dei frattali.
Tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, la forma dominante di valorizzazione era quella standard, basata «sulla riproduzione di un prototipo in un numero a priori illimitato di esemplari»: gli innumerevoli frigoriferi, lavatrici e automobili che uscivano dalle fabbriche. Le concezioni rivali marxista e neoclassica potevano renderne conto con facilità: il padrone detiene il possesso degli strumenti di produzione e guadagna un profitto comprando a una frazione del suo valore la forza-lavoro dei dipendenti, che a sua volta valorizza le merci; oppure le merci stesse (sostenute dalla grancassa pubblicitaria) vanno a soddisfare l’utilità, quindi la domanda, dei consumatori. Negli anni Settanta, la saturazione della domanda da un lato e l’irrequietezza dei lavoratori dall’altro mettono in crisi questo modello. Così, mentre la produzione standard viene sempre più esportata in Paesi con bassi salari, il capitalismo deve trovare qualcosa di nuovo. Subentra l’economia dell’arricchimento.
Un senso ovvio del termine è che si tratta di un’economia rivolta ai ricchi, i quali sono aumentati in modo tanto cospicuo da giustificare un sistema di scambi rivolto soprattutto a loro. Nel 2015 c’erano al mondo diciotto milioni e mezzo di milionari di dollari (intesi come famiglie) e questo 1% della popolazione globale disponeva del 47% della ricchezza finanziaria. Un altro senso del termine, meno ovvio ma più rivelatore di quel che sta accadendo, è che, nel rivolgersi ai ricchi, le merci devono essere arricchite, cioè valorizzate oltre misura. Lo sono in uscita (dal mercato), puntando «sull’aumento del margine di profitto prodotto dalla vendita di ogni unità rispetto alla vendita di un gran numero di unità dotate di un basso margine di profitto». E, per garantire profitti così elevati, poco comprensibili in termini sia marxisti sia neoclassici, lo sono anche in entrata (nel mercato): orientandosi verso «lo sfruttamento sistematico di ricchezze che si basano sul ricorso al passato» (un passato, varrà la pena di aggiungere, spesso fittizio), il capitalismo contemporaneo riesce a valorizzare all’estremo siti, pratiche artigianali e oggetti «che in linea di massima non vengono comprati per servire a qualcosa».
Per dare un’idea, i profitti nel 2013 dei gruppi francesi Lmvh (che comprende Louis Vuitton) e Kering (che comprende Gucci) sono stati intorno al 33 per cento. E, per mettere in giusta luce il dato, un altro aspetto dell’economia dell’arricchimento è «la maggiore importanza attribuita nella formazione del profitto alla commercializzazione rispetto alla produzione». La produzione costa relativamente poco; si scommette invece sulle «narrazioni» dei «creativi», per riscoprire (o inventare) una «tradizione» che conferisca lustro agli acquirenti e li distingua da chi può solo permettersi prodotti standard; senza questo story-telling, si cercherebbero altrove gioielli, capi firmati, itinerari «culturali», ricercatezze enogastronomiche, automobili di lusso. Una volta che un marchio ha acquisito una «rendita di differenza», poi, si moltiplicano coloro che, come mi è spesso capitato di dire, comprano un prezzo: «il prezzo diventa un argomento per giustificare il prezzo», «il prezzo della cosa fa parte delle qualità che stimolano la domanda».
L’economia dell’arricchimento trae vantaggio dall’assumere in qualità di precari giovani dotati di un buon livello d’istruzione, spesso umanistica (il che funziona bene con le narrazioni), ricattati dalla disoccupazione imperante e tesi a vedere i compagni come concorrenti invece che come partecipi di un medesimo sfruttamento, quindi a non impegnarsi in rivendicazioni sindacali. Si lega a star del cinema e della canzone cui offre gratis i propri prodotti perché vengano associati a immagini vincenti. E, sia detto in mesto commiato, inquina i luoghi che dovrebbero essere deputati alla trasmissione imparziale di notizie: «Questa operazione non avrebbe potuto avere una portata così vasta e così rapida se non avesse approfittato della crisi economica dei media. Utilizzando parte dei profitti eccezionali ottenuti, l’industria del lusso ha cominciato a sostenere i media, cioè a sfruttarli. Queste manovre hanno avuto il risultato non solo di rendere la pubblicità per i beni di lusso indispensabile alla sopravvivenza delle testate giornalistiche, ma anche di spostare i contenuti verso quel punto indistinto in cui si confondono lavoro redazionale e spazi pubblicitari, come si vede chiaramente nei supplementi dedicati all’“arte del vivere” senza i quali i principali media non potrebbero esistere».
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