martedì 19 luglio 2011
Sergio Romano, la Siria e Israele
Credo fermamente che questo mondo sarebbe molto migliore se esistesse una maggiore imparzialità. Mi riferisco, nel caso specifico, alle vicende del Vicino Oriente e vorrei chiedere un suo parere. Il regime siriano massacra ormai da mesi la propria popolazione civile, che manifesta pacificamente, uccidendo oltre mille persone. Ebbene, non c’è minima traccia in Italia di manifestazioni di piazza, solidarietà incendio di bandiere siriane, ecc. Se viceversa si verifica qualcosa da parte Israeliana— di proporzioni infinitamente minori— la piazza si scatena con manifestazioni violente, accuse infamanti, ecc. ecc. Saprebbe spiegare questa preoccupante sperequazione?
Franco Cohen
DUE PESI, DUE MISURE ISRAELE E LA CRISI SIRIANA
Sergio Romano, Corriere della Sera, Lunedì 18 luglio 2011Caro Cohen,
Quando la bandiera israeliana è stata bruciata, all’epoca della guerra di Gaza o dopo il cruento arrembaggio della flottiglia proveniente dalla Turchia, vi fu nell’opinione pubblica occidentale un coro di proteste indignate. Israele gode di molte simpatie e può contare su numerosi sostenitori. Non credo ai boicottaggi e fra questi a quelli promossi contro Israele perché, come le sanzioni, colpiscono anzitutto imprenditori e lavoratori; ma la campagna per il boicottaggio dei prodotti agricoli provenienti dai territori occupati appartiene all’arsenale delle proteste democratiche e non può essere definita un’azione violenta.
Aggiungo che fra la questione palestinese e la questione siriana esiste una importante differenza. Ciò che accade in Siria è condannabile ed è stato condannato dalla maggior parte dei Paesi democratici con espressioni particolarmente severe. Ma è pur sempre una questione interna dello Stato siriano. Il concetto di ingerenza umanitaria sembra essere entrato nella cultura politica della democrazia occidentale da qualche anno, ma nessuno può dire con precisione se e quanto i dimostranti di Aleppo, Hama e altre città siriane siano rappresentativi dei sentimenti della maggioranza della popolazione. Si può scendere in piazza, naturalmente, per denunciare le repressioni poliziesche del regime di Bashar al Assad, ma i nostri governi, soprattutto dopo gli infelici risultati della guerra libica, si accontenteranno di qualche condanna verbale e staranno a guardare.
La questione palestinese è alquanto diversa. Lo Stato d’Israele è stato costituito, grazie a una risoluzione della maggiore organizzazione internazionale su un territorio che è stato lungamente abitato da una popolazione indigena non ebraica. Quando gli Stati arabi rifiutarono la spartizione e cercarono di cancellare dalla carta geografica lo Stato appena costituito, Israele si difese, vinse e riuscì a occupare nuove terre; e così accadde nelle guerre successive. Sul piano politico, nulla da obiettare. Uno Stato ha il diritto di difendersi e di mettere il proprio territorio al sicuro, per quanto possibile, da altre minacce. Ma nei territori occupati esiste una popolazione che ha il diritto morale di considerare quella terra come la sua casa. Nella storia europea molti Stati si sono ingranditi occupando province abitate da popolazioni straniere, ma l’occupazione è diventata legittima e duratura soltanto quando il conquistatore ha trattato gli abitanti dei territori conquistati come cittadini.
Lo Stato ebraico invece non può trattare i palestinesi dei territori occupati (e per molti aspetti neppure quelli del proprio territorio nazionale) nel modo in cui la Francia, per fare un esempio, ha trattato gli alsaziani. E i palestinesi, dal canto loro, hanno più volte dimostrato, con l’Intifada e con il voto, di volere l’indipendenza. Non è sorprendente che essi hanno abbiano suscitato la simpatia delle opinioni pubbliche occidentali.
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