giovedì 15 settembre 2011

Il Viaggio in Mongolia di Guglielmo di Rubruk

Guglielmo di Rubruk: Viaggio in Mongolia, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 2011

1253: è passato pochissimo tempo da quando il terrore di un'invasione mongola ha preso l'Europa alla gola. I Tartari - come i Mongoli venivano chiamati - sono giunti, invincibili, in Polonia, Boemia, Ungheria, sino alle coste dell'Adriatico, seminando distruzione ovunque e facendo prigionieri i cristiani di mezzo continente. Poi, sono svaniti. Forse è il caso di conoscerli meglio, di stabilire relazioni diplomatiche e commerciali, di tentare di convertirli. Preceduto e seguito da vari «esploratori » come Giovanni di Pian del Carpine e Marco Polo, nel 1253 il francescano Guglielmo di Rubruk, che ha accompagnato Luigi IX di Francia alla settima Crociata, riceve dal re l'ordine di partire verso oriente da Costantinopoli per convertire i Tartari. Per due anni il frate fiammingo percorre, con velocità spesso incredibile per i suoi tempi, i territori dell'Asia Centrale, attraversa la regione del Volga e raggiunge Karakorum, la capitale del Gran Khan Mangu. Rientrato, Guglielmo stila una relazione affascinante che sfata le leggende diffuse in Occidente sui mostri che popolerebbero le regioni misteriose dell'Asia, sul Prete Gianni, sul Paradiso Terrestre. È un uomo pesante, colto, infaticabile, aperto. A lui interessano gli usi e i costumi dei Mongoli, le persone che incontra, le discussioni che tiene con loro, il conforto che può arrecare ai prigionieri cristiani. Così, eccolo dibattere di religione con un monaco buddista; oppure venire a contatto con un orafo francese che, catturato, si è guadagnato il rispetto dei nuovi padroni con le sue opere strabilianti; o infine assaggiare disgustato, poi con sempre maggior gusto, il comos, la bevanda di latte di cavalla fermentato che costituisce parte importante del nutrimento dei Mongoli. Rimane colpito dal loro perenne vagare di nomadi, turbato dall'assenza di città villaggi case, spaesato negli orizzonti senza fine delle steppe: «Tutto ciò che vedevamo era cielo e terra», scrive: «da quando eravamo usciti dalla Gasaria ci dirigevamo dritto verso oriente, lasciando a sud il mare e a nord una grande prateria deserta, che si stende in certi punti per venti giorni di cammino; per tutto quello spazio non ci sono né boschi, né alture, né pietre, ma solo ottima erba».
PIETRO CITATI, CORRIERE DELLA SERA del 13/9/2011 a pag. 40/1

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