giovedì 29 settembre 2011
Un'antologia di Adam Smith
Adam Smith: Economia dei sentimenti, Donzelli, Roma 2011, pp. 160, € 9,50
È possibile una società armoniosa basata sulla libertà individuale, i cui appartenenti non siano già tutti saggi? Quale potrebbe essere l’origine di questa armonia? Ecco il nocciolo della questione che affrontò Adam Smith con le sue due opere, La ricchezza delle nazioni e la Teoria dei sentimenti morali, sopravvissute alla mummificazione degli storici grazie al dibattito che seppero suscitare. Oggi, però, il suo pensiero è ostaggio di un’ideologia che oblitera le sue domande e trasforma le sue battute in sentenze. Sottrarlo a letture avventate o volutamente parziali significa riprendere in mano i suoi testi, così tanto citati quanto poco letti. Egli è noto per aver focalizzato l’attenzione sulla produttività del lavoro, piuttosto che sull’oro o sulla produttività della terra, mediante l’astrazione del lavoro in quantità di tempo, sulla quale Marx costruì la sua teoria dello sfruttamento eclissando la questione della morale individuale. Attenzione poco gradita ai neoliberali, che si sono assunti l’onere di condurre Smith nel Terzo millennio, preferendo rappresentarlo come colui che ha mostrato la possibilità di un ordine sociale meccanicistico, basato sull’isolamento egoistico, e quindi di uno svincolamento dell’economia dalla morale. Ma è possibile leggere Smith attraverso Marx o fermarsi alla sua lettura? Siamo inoltre sicuri che Smith parlasse di individui egoisti? La Teoria dei sentimenti morali e La ricchezza delle nazioni sono realmente in contraddizione come si è lungamente sostenuto? Nel caso contrario, cosa potrebbe davvero significare? Il rapporto tra economia e morale non è chiuso ma fruttuosamente problematico: la possibilità di un accordo tra uomini nel pensiero di Smith ruota intorno a un equilibrio interiore, che ciascuno può guadagnare nel commercio dei sentimenti quotidiani e che costituisce il perno – anzi, i perni, per quanti sono gli uomini – di un equilibrio economico. C’è forse uno Smith tutto ancora da scoprire? C’è forse un abisso tra il liberalismo smithiano e la sua versione ipermoderna? L’ultima parola non spetta né a Marx né ai neoliberali, ma all’attento e libero lettore, che potrà giudicare cosa sia propriamente in gioco nel pensiero di Smith.
Adam Smith morì a Edimburgo il 17 luglio del 1790, all’età di 67 anni, dando alle fiamme i sedici volumi dei suoi manoscritti. «Io sono un lavoratore lento, molto lento», disse il promotore della produttività al suo editore, in occasione dell’ennesima riedizione e revisione di un suo testo. Così, forse per eccesso di zelo, forse per portare con sé i ricordi personali, ha lasciato a bocca asciutta generazioni di accademici. Non si ha alcuna notizia di sue relazioni sentimentali, ma solo di intime amicizie, come quella con David Hume, suo grande sostenitore e interlocutore. Che tipo di zingaro sarebbe stato non possiamo saperlo. Ma se è vero, come lui stesso scrisse, che filosofi si diventa e non si nasce, probabilmente lui non lo sarebbe diventato se suo zio non lo avesse recuperato nel bosco all’età di tre anni dove lo aveva tratto con sé un gruppo di gitani. Chissà se avrebbe conservato la sua nota compostezza. È però probabile che non staremmo qui a scrivere la sua biografia e di certo l’economia moderna sarebbe stata decisamente diversa, compreso il pensiero di Marx, quello dei suoi antagonisti e tutto ciò che ne è seguito. Ma la storia non si fa con i se e Smith andò a Glasgow all’università, dove seguì i corsi di Francis Hutcheson, suo maestro elettivo. Proseguì gli studi nell’austera Oxford, dalla quale rischiò l’espulsione perché trovato in possesso di un libro di Hume. Nel 1752 prese il posto di Hutcheson a Glasgow, insegnando filosofia morale e nel 1759 diede alle stampe il suo primo libro, la Teoria dei sentimenti morali. Accolse negli spazi dell’università, contro la corporazione dei fabbri di Glasgow che lo osteggiava, l’inventore di macchine James Watt. Dopo una rapida carriera, sostenuta dal plauso di tanti studenti, divenne vicerettore dell’università. Ma nel 1764 l’abbandonò, accettando un ingente vitalizio in cambio di un giro per l’Europa come precettore di un giovane duca. A Tolosa iniziò a scrivere il suo libro più famoso, La ricchezza delle nazioni, «per passare il tempo». A Ginevra incontrò Voltaire e a Parigi frequentò i salotti del tempo, dove conobbe D’Alembert, Helvétius, Franklin, Turgot e Quesnay, al quale pensò di dedicare il libro in scrittura. Questi, però, morì prima del tempo, perché ci vollero dieci anni di intenso lavoro affinché Smith fosse soddisfatto e pubblicasse il volume nel 1776. Il successo, però, fu immediato e gli procurò notorietà in tutta Europa. Dal 1778 fino alla morte fu commissario per le dogane della Scozia, incarico speciale per chi come lui spese una vita in nome del libero commercio, ed era figlio di un controllore della dogana, morto quattro mesi prima che venisse al mondo il suo unico figlio, del quale non è nota con esattezza la data di nascita, ma solo che fu battezzato il 5 giugno del 1723.
PANARARI MASSIMILIANO, LA STAMPA del 28/9/2011 a pag. 43
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