giovedì 3 novembre 2011

Borgna ricorda Lucio Colletti

Dieci anni senza lo spirito critico di Lucio Colletti
La parabola del filosofo dal marxismo eterodosso all’approdo in Forza Italia. L’ultima produzione segnata dal disincanto
di Gianni Borgna l’Unità 3.11.11
Dieci anni fa moriva Lucio Colletti. Allievo di Galvano Della Volpe, aveva ereditato dal maestro il rifiuto di ogni provvidenzialismo. Anche il suo era un marxismo eterodosso, depurato da ogni idealismo e riconciliato con la scienza. L’esatto contrario di quello fin lì prevalente nella tradizione italiana (riassumibile nel famoso asse De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci). Fondamentali, al riguardo, restano opere come Il marxismo e Hegel (1969) e Ideologia e società (1969), quest’ultima contenente tra l’altro una confutazione radicale del pensiero di Herbert Marcuse, allora mito indiscusso di quel movimento del ’68 che egli non amò e da cui non fu amato.

Quando però Colletti si accorse che la dialettica, hegeliana come marxiana, si fondava non già su quelle che Kant aveva definito «opposizioni reali» (e ancor prima Aristotele «contrarietà») quanto sulle «contraddizioni» (che dovrebbero appartenere alla sola sfera della logica), anche il «suo» marxismo entrò in crisi. Fu nel saggio su Marxismo e dialettica che Colletti giunse a queste conclusioni, che mostravano come anche in Marx convivessero un lato scientifico e uno filosofico e speculativo. Detto altrimenti, anche il socialismo di Marx era tutt’altro che rigorosamente «scientifico». Il saggio uscì nel 1974 come appendice all’edizione italiana della celebre Intervista politico-filosofica, con la quale Laterza diede avvio a una fortunata collana editoriale. Le reazioni a sinistra non si fecero attendere.

INTELLETTUALI IN ITALIA

Il libro oltretutto usciva in un momento in cui, particolarmente in Italia, il marxismo manteneva una forte presa sugli intellettuali e il Partito Comunista (in cui lui aveva militato fino al 1964) era in grande ascesa. Ma Colletti aveva dalla sua più d’una ragione. Semmai si potrebbe affermare che la sua caratteristica, e forse paradossalmente il suo limite, fu di prendere Marx fin troppo alla lettera. Marx si riprometteva di far passare il socialismo dall’utopia alla scienza in polemica con i socialisti «utopisti», ma la sua era più che altro una dichiarazione programmatica. Colletti invece lavorò a espungere dal marxismo ogni tratto non scientifico, ma presto si avvide che anche in Marx convivevano scienza (le analisi di molte parti del Capitale) e ideologia (la previsione della fine del capitalismo e dell’avvento della società senza classi). Fu così che, come ha osservato Mario Tronti, il fallimento del «suo» marxismo portò Colletti a abbandonare anche il socialismo e a cambiare parte politica, fino all’approdo finale in Forza Italia.

IL RAPPORTO CON GRAMSCI

Ma il problema non era che Marx auspicasse la fine dello sfruttamento capitalistico, quanto che pensasse che si trattava di un obiettivo ineluttabile. Chi più di tutti lo aveva lucidamente compreso fu Antonio Gramsci, il Gramsci ancora imbevuto di filosofia idealistica che nel 1917 parlò della rivoluzione russa come di una rivoluzione contro il Capitale di Marx; la quale, contrariamente alle previsioni e agli auspici dei marxisti, aveva vinto proprio nel Paese europeo meno capitalisticamente sviluppato. Questo perché, come sempre Gramsci chiarì, in politica non si può prevedere «scientificamente» nulla, l’unica cosa che si può prevedere è la lotta, l’azione orientata a realizzare determinati fini.

L’attività rivoluzionaria non può pretendere di appoggiarsi alla scienza, così come nei conflitti di classe non è iscritto a priori alcun esito positivo. I comportamenti umani, aggiungo, sono imprevedibili e largamente irrazionali: l’uomo, prima e più che «faber» e «sapiens», è «demens» (nel senso che produce fantasmi, miti, credenze, ideologie, e vive largamente di questo).

Tronti, però, sbagliava ad affermare che «Lucio Colletti è stato un filosofo marxista, e poi più niente». In realtà Colletti continuò a scrivere e a produrre molti studi importanti, fino a quel Fine della filosofia (1996) che parve preludere a una nuova stagione del suo pensiero incentrata su Popper e sugli studi di filosofia della scienza e improntata a un lucido disincanto, che molto doveva a due autori da lui particolarmente amati, David Hume e Giacomo Leopardi














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