venerdì 2 dicembre 2011

La Cina, il congresso, la crisi economica

Rampolli cinesi
I principini comunisti nuova generazione di fenomeni
di Simone Pieranni il Fatto 2.12.11 da Segnalazioni

Pechino Il Partito comunista ha resistito all’avvento dei contemporanei strumenti di comunicazione, mantenendo uno stretto riserbo sulle proprie dinamiche, scelte e lotte, anche alla vigilia del delicato passaggio di leadership che verrà effettuato nel 2012. Cambieranno il segretario del partito, il presidente, il primo ministro e vari membri dell'attuale Politburo, dando vita alla nuova generazione dei leader cinesi. Andranno al potere i principi rossi ovvero i figli dei padri della Rivoluzione, ormai esperti abbastanza e in grado di tenere le briglie del business cinese. Xi Jinping, che salvo sorprese sarà prossimo segretario e presidente, è figlio di un eroe della rivoluzione poi caduto in disgrazia durante la Rivoluzione Culturale. Sarà il primo del taizidang, il partito dei principi all'interno del Partito comunista, ad arrivare al gradino più alto. Un altro principe rosso è Bo Xilai, figlio di un altro vecchio rivoluzionario, che probabilmente entrerà tra i nove del comitato centrale del Partito comunista: Bo Xilai si è distinto per il suo “ritorno al maoismo” attraverso la rieducazione dei giovani nelle campagne e concorsi canori con canti rivoluzionari.
E QUI SI FERMA il rigoroso segreto, perché i figli dei principi, nipoti dei padri della rivoluzione, chiamati i principini, sono invece personaggi spesso noti, presenti tra le cronache mondane, talvolta arroganti e viziati e cresciuti nel lusso e nell'adrenalina del potere. La loro vita pubblica ormai non è più avvolta nel mistero e le loro avventure creano spesso malumore tra i cittadini cinesi. Un nervosismo che si esprime su Internet e che denuncia una realtà evidente: la maggior parte dei cinesi che gestisce i business più lucrosi del paese, è figlia di vecchie o attuali glorie della politica cinese.
Le famiglie di Xi Jinping e di Bo Xilai, ad esempio, sono molto legate. C'è una nota amicizia dei figli e diramazioni economiche che coinvolgono altri principini. Non mancano i legami “rosa”: il figlio di Bo Xilai pare sia legato sentimentalmente a Chen Xiaodan, che si fa chiamare Sabrina, nipote di Chen Yun, “compagno” fedelissimo di Mao: durante una loro visita in Tibet i due giovani furono scortati dalla polizia, creando numerose polemiche tra il pubblico cinese. Non solo, perché il figlio del “comunistissimo” Bo Xilai, Bo Guagua, classe ‘87, è stato pizzicato in Ferrari di fronte all'ambasciata americana prima di un ricevimento ed è un noto frequentatore della movida pechinese. Discrepanze rispetto alle prediche maoiste del padre che hanno innervosito molti cinesi, anche se il giovane pare avere il carisma del genitore: alle critiche sulla sua presenza a una festa mondana ha risposto con una frase di Mao, “si dovrebbe sempre avere un lato serio e un lato divertente”.
Qualche mese fa, in alcuni cablogrammi rivelati da Wikileaks erano emersi due grandi gruppi all'interno del Partito comunista cinese: i principi, capitanati da Xi Jinping, un figlioccio politico di Jiang Zemin e considerato agganciato al carrozzone degli shanghaiesi e quelli che i principi chiamano con ironia bottegai, ovvero i politici di carriera e non di eredità, tra le cui file sono da inserire l'attuale presidente Hu Jintao e il prossimo primo ministro, nel 2012, Li Keqiang.
In vista del prossimo cambio politico sono stati i principini a uscire allo scoperto, battendo un colpo politico oltre che mondano: il 6 ottobre nell'anniversario della cattura della Banda dei Quattro (1976), molti dei principini si sono incontrati a Pechino, lanciando diversi messaggi politici. Secondo le frammentarie cronache, sarebbe emerso un quadro di solidarietà economica e morale, di affari gestiti insieme e una supposta unità politica. Ma Xiaoli, figlia di un ex capo della scuola del partito, pare sia stata la grande protagonista: “Il Partito comunista è come un medico con il cancro – avrebbe affermato – non può rimuoverlo da solo, ha bisogno di altri”. Ovvero di loro, il partito dei principini: ricchi, politicamente nobili e desiderosi di comandare.

La Cina tira il freno. Produttività ai minimi
Pechino rilancia il credito e mette sul piatto 63 miliardi di dollari
di Ilaria Maria Sala La Stampa 2.12.11 da Segnalazioni

L’ economia cinese sta rallentando a un ritmo molto più sostenuto del desiderabile, dietro pressioni tanto interne che esterne, e le autorità del Paese hanno reagito per il momento con una drastica e inaspettata inversione di rotta, rilanciando il credito – cioè, diminuendo le riserve di credito obbligatorie delle banche di mezzo punto percentuale, e rendendo disponibili circa 63 miliardi di dollari.
Ieri, l’atteso dato sulla produttività cinese è giunto come una doccia fredda, mostrando la maggior contrazione degli ultimi 33 mesi – ovvero, da quando la Cina era stata colpita dall’ondata negativa della crisi statunitense del 2008. All’epoca, Pechino aveva reagito allo scossone con un’iniezione di contante che aveva rilanciato l’economia favorendo grossi investimenti interni, grandi opere e infrastrutture. Lo stimolo, del valore di 4 trilioni di yuan (586 miliardi di dollari), era servito sia a finanziare la ricostruzione in Sichuan dopo il terremoto del maggio 2008, che per progetti locali di varia natura ed entità – che nel corso degli ultimi due anni avevano contribuito al crearsi di una bolla speculativa, in particolare nel settore dell’immobiliare, che le autorità cinesi volevano affrontare in modo graduale. Già dalla fine dell’anno scorso, le priorità ribadite dal governo cinese erano l’inflazione (che ha raggiunto nel corso di quest’anno punte del 6,5%) e l’evitare dell’accrescersi delle tensioni interne davanti alle forti disparità. Ma la situazione internazionale non sta assistendo in questa difficile transizione, e il crollo degli ordini da Europa e Usa stanno portando la Cina a diminuire la produzione e a cancellare a sua volta alcuni ordini dall’estero.
Resta ancora da affrontare il debito dei governi locali, venuto a galla nei mesi scorsi e stimato a 1,12 trilioni di euro – un prodotto diretto dell’iniezione di liquidità iniziata nel 2008, e che sta pesando in modo notevole sulla percezione dei mercati e degli investitori internazionali rispetto alla salute economica cinese a breve e medio termine. Il quadro che esce dalla Cina è di una certa complessità, caratterizzato da una serie di tensioni contraddittorie che vedono da un lato un’inflazione scottante (oggi al 5,5%) e una serie di aumenti degli stipendi degli operai nelle aziende manifatturiere (in seguito a una serie di scioperi lo scorso anno), dall’altro un esteso debito locale a cui si era cercato di ovviare scoraggiando nuovi prestiti, e una pericolosa bolla speculativa immobiliare che potrebbe continuare a dare problemi negli anni a venire.
Già da quest’estate le banche cinesi avevano ricevuto l’ordine di rallentare i prestiti ai privati (continuando però a finanziare l’enorme settore statale), portando a una crisi di liquidità in particolare nei centri economici più dinamici come il Zhejiang e il Jiangsu (le regioni costiere intorno alla città di Shanghai). Questo, a sua volta, ha dato il via ad alcuni clamorosi casi di chiusure improvvise di aziende troppo indebitate, e al fiorire di istituti di prestiti clandestini per far fronte all’imprevista mancanza di liquidità, e a misure regionali straordinarie. Continuano però anche gli scioperi di lavoratori, privati delle ore di straordinario in vista della diminuzione degli ordini, che si ritrovano così a contare solo su stipendi base di 130 euro mensili.
La scorsa settimana il vicepremier cinese Wang Qishan aveva dichiarato che una recessione globale è ormai “cosa certa”, mentre la Banca Mondiale ha previsto questo martedì una crescita cinese dell’8.4% per il 2012 - una percentuale considerata rischiosa vista la dipendenza cinese alla crescita, e la possibilità di uno scoppio rapido della bolla.
In una congiuntura così inusuale, Pechino si ritrova alle prese con un’economia interna drogata dal massiccio stimolo ma dove i consumi faticano a partire, e arrestata all’esterno dalla testarda crisi delle economie sviluppate, da cui la Cina è tuttora dipendente sia per l’esportazione (già in diminuzione anche per le spinte inflazionarie) che per gli investimenti.

La crisi occidentale manda in affanno la locomotiva cinese
di Marco Del Corona Corriere della Sera 2.12.11 da Segnalazioni

PECHINO — I primi a non essere sorpresi sono anche coloro che sono i più preoccupati. La leadership cinese sta monitorando i segni della crisi che cominciano a intaccare anche la seconda economia del mondo, uscita praticamente intatta dalla tempesta del 2008-2009. L'ultimo segnale è arrivato ieri, quando dati ufficiali hanno segnalato la prima contrazione della produzione manifatturiera in 33 mesi, con l'indice Pmi che è sceso sotto lo spartiacque dei 50 punti, che separa espansione (sopra) da riduzione (sotto). Il valore di novembre è 49 e arriva una settimana dopo una valutazione analoga della banca Hsbc, che stimava un Pmi a 47,7.
Il malessere cinese ha molti sintomi, alcuni dei quali risentono delle convulsioni dell'eurozona, che colpiscono l'export cinese. Mercoledì la banca centrale aveva ridotto per la prima volta in tre anni le riserve obbligatorie degli istituti di credito, uno 0,5% in meno che significa nuova liquidità e nuove risorse sul mercato. Una svolta dopo una fase in cui l'intervento centrale si era orientato a contenere l'inflazione, ora sotto la soglia del 6%. La mossa della banca centrale dovrebbe mettere in circolazione fra i 350 e i 400 miliardi di renminbi (tra i 40 e i 45 miliardi di euro).
Il rallentamento dell'economia cinese però è inesorabile. Il Pil è calato dal 10,4% dell'anno scorso al 9,7% del primo trimestre, al 9,5% del secondo e al 9,1% del terzo. Un raffreddamento dell'economia era stato auspicato a più livelli, in Cina, tuttavia tutto sembra accadere con troppa fretta. Giù anche il mercato immobiliare, che secondo l'indice Creis in novembre è sceso per il terzo mese consecutivo (meno 0,3%), una dinamica collegata ai flussi del credito. Sono segnali che hanno contribuito a modellare l'atteggiamento di preoccupata prudenza di Pechino rispetto alla crisi dell'euro. Invocato in Europa, l'intervento cinese sotto forma di acquisti massicci di bond non si è verificato e anzi sia la Repubblica Popolare sia l'Unione Europea sembrano più concentrate ciascuna sui propri problemi che sull'ansia di sedersi a un tavolo. Il vertice sino-europeo previsto a Tianjin a fine ottobre e rinviato non è stato ancora riprogrammato.
Il momento politico drammatizza i crudi dati numerici, perché mancano 10 mesi al congresso del Partito comunista che avvierà il ricambio della leadership. Occorre arrivarci con una situazione economica quantomeno sotto controllo, anche perché un incremento del Pil sotto la soglia-feticcio dell'8% potrebbe stravolgere i meccanismi occupazionali, già ora in fase di trasformazione. Cambia la geografia del lavoro, cambiano i costi. Esempio: Shenzhen, che per attrarre manodopera alzerà a gennaio il salario minimo del 15%, dopo averlo già incrementato del 20% in aprile.

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