venerdì 13 gennaio 2012
Ancora gli scritti psichiatrici di Frantz Fanon
Fanon e la follia coloniale
di Marco Filoni il Fatto Saturno 13.1.12 da Segnalazioni
RACCONTA lo scrittore Tahar Ben Jelloun di una straordinaria insegnante che, nel suo liceo di Tangeri, un giorno portò in classe un libro destinato a diventare il manifesto di tutta la sua generazione. Il libro era I dannati della terra di Frantz Fanon, e si inseriva in un clima rovente nel Nord-Africa. Il volume compariva poche settimane prima della morte del suo autore, nel ’61, con una lunga prefazione di Jean-Paul Sartre. Lo psichiatra Fanon diveniva così un autore feticcio per Ben Jelloun e tutti quelli che come lui sentivano il bisogno di confrontarsi con il razzismo, l’uso della violenza per la liberazione, la lotta per la dignità dei popoli colonizzati. E con questi temi, dei quali era divenuto indiscusso portavoce, Fanon conobbe la popolarità e si trovò nel bel mezzo di accesi dibattiti: per alcuni era un anti-europeista e apologeta della violenza; per altri un classico della decolonizzazione e dell’autodeterminazione dei popoli – tanto che fu coniato il termine fanonisme come sinonimo della rivolta spontanea delle masse oppresse. Non durò a lungo. Morto a soli 36 anni di leucemia, nel 1961, il suo nome cadde presto nel dimenticatoio. Così come i suoi scritti: svanirono tanto velocemente quanto veloce fu il processo di pulitura delle coscienze occidentali dalle nefandezze coloniali. E a nulla è servito sapere che negli Stati Uniti il pensiero di Fanon è stato uno dei maggiori riferimenti della riflessione teorica che va sotto il nome di «post-colonial studies». Ancora qualche settimana fa, in occasione del cinquantenario della sua morte, di Fanon non si è parlato (salvo rarissime eccezioni). Va dunque salutata con molto interesse sia la raccolta Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale (ombre corte 2011), curata da Roberto Beneduce, sia l’inedito Introduzione ai disturbi della sessualità nei nordafricani pubblicato nel numero di dicembre della rivista «Alfabeta2» (accompagnato da un ineccepibile saggio di Cesare Bermani). Qui emerge una chiave interpretativa che rende inscindibile la lettura psichiatrica da quella politica. Quando nel 1953 arrivò all’ospedale di Blida, in Algeria, il giovane psichiatra si scontrò con una dura realtà. Anzitutto il “primitivismo”, la dottrina regnante in psicopatologia. Poi la guerra d’Algeria, con il clima di atroci violenze e torture. Fanon iniziò così a studiare e concepire gli effetti prodotti sulle coscienze dalla situazione coloniale, individuando una sorta di “depersonalizzazione” che questa realtà causava. Nel farlo rivoluzionò la pratica medica, andando all’ascolto dei malati e interessandosi alle «soggettività sofferenti». Rivendicando tutta una serie di diritti dei popoli nordafricani: un impegno che gli costerà la censura dei suoi libri in Francia e l’espulsione dall’Algeria. Rileggerlo oggi significa comprendere quelle istanze politico-sociali ricondotte alla psichiatria e al suo esercizio in Nordafrica negli anni Cinquanta. È passato molto tempo da allora. Ma se ai termini della realtà di Fanon, «oppressione coloniale», «terzo-mondo», «autodeterminazione dei popoli», sostituiamo «frattura sociale», «esclusione», «scarto fra Nord e Sud del mondo», riusciremo a intravedere un’attualità ancora viva: un bagliore delle nostre coscienze.
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