Nel dibattito sulla crisi emergono con chiarezza i due principali fattori che l’hanno determinata, gli eccessi della finanza che hanno drogato un’economia basata su consumi e debiti, un calo della domanda da grandi diseguaglianze.
domenica 22 gennaio 2012
Intuizioni, crampi e timidezze nel dibattito italiano sulla crisi del capitalismo
di Luciano Gallino Repubblica 22.1.12
Capitalismo in crisi /1
Parla lo storico dell’industria: «Ovunque si discute di intervento pubblico Pure Marchionne senza i soldi della Casa Bianca avrebbe potuto ben poco»
di Rinaldo Gianola l’Unità 22.1.12
Capitalismo in crisi /2
Turbo-liberisti senza benzina
Ormai c’è evidenza statistica: i sei Paesi europei con il Pil più alto sono quelli dove c’è più equità
di Nicola Cacace l’Unità 22.1.12
Nel dibattito sulla crisi emergono con chiarezza i due principali fattori che l’hanno determinata, gli eccessi della finanza che hanno drogato un’economia basata su consumi e debiti, un calo della domanda da grandi diseguaglianze.
La svolta della crisi è datata anni 80, con la vittoria della filosofia iperliberista avviata da Reagan e Thatcher. Tra i primi a denunciare i pericoli del nuovo corso va ricordato uno studioso non di sinistra, Edward Luttwak, che nel suo Turbo-Capitalism (1998) avvertiva: «Lo chiamano libero mercato ma io lo definisco turbo capitalismo perché del tutto diverso dal capitalismo controllato che ha prosperato sino agli anni Ottanta... Ciò che i profeti del turbocapitalismo predicano è che l’impresa privata sia completamente liberata da regolamentazioni governative, senza intromissioni da parte dei sindacati e senza precisare nulla sulla distribuzione della ricchezza. Permettere al turbo capitalismo di avanzare senza ostacoli significa disintegrare la società in piccole élite di vincitori e masse di perdenti». E oggi, quando tutti parlano di crescita oltre al rigore, dobbiamo ripensare una crescita ispirata alla qualità più che alla quantità, perché «crescere diversamente significa tentare di creare nuove condizioni ispirate a nuovi valori, in cui l’acquisizione quantitativa non esaurisce l’intera esperienza umana» (Mauro Magatti).
Per uscire dalla teoria, faccio alcuni casi concreti: l’eguaglianza, la produttività, la centralità del valore lavoro, i tempi di lavoro e di vita, le delocalizzazioni. C’è evidenza statistica che l’eguaglianza è anche fattore di crescita. I sei Paesi europei a minor diseguaglianza, Germania, Olanda e i quattro Paesi scandinavi, sono i Paesi europei a più alto Pil procapite. Da anni la produttività in Italia non cresce (al pari del Pil), rispetto al 2 per cento l’anno medio di crescita in Europa. Come dimostrato anche dai ricalcoli Istat sull’export, la produttività cresce quando la qualità migliora. E più qualità si ottiene con più formazione da lavoro stabile, più istruzione, ricerca e sviluppo e soprattutto con misure di politica economica che stimolino l’innovazione. Nel periodo della ricostruzione post-bellica il valore è stato riconosciuto nell’obiettivo ricostruzione e nella centralità del lavoro. Chi non ricorda il Piano del lavoro Cgil di Di Vittorio?
A partire dagli anni 80 il consumo e l’arricchimento individuale hanno dominato, e ciò è dimostrato anche dai diversi andamenti dei tempi di lavoro e di vita. Mentre prima la settimana lavorativa si era accorciata da 48 a 40 ore, successivamente il trend si è invertito, gli orari sono aumentati. Grazie (purtroppo) alla defiscalizzazione degli straordinari oggi in Europa l’Italia è, con la Grecia, il paese col tasso di occupazione più basso e gli orari più lunghi. A differenza di Germania ed Olanda orari più corti e occupazione massima che, giocando su riduzioni di orario e contratti di solidarietà, hanno aumentato l’occupazione anche in presenza di Pil negativo.
Le delocalizzazioni non sono sempre da condannare, la «distruzione creatrice» è necessaria in periodi di veloci cambiamenti. Sono però da condannare le delocalizzazioni decise non per perdite di bilancio ma per puro obiettivo di massimizzazione dei profitti, come hanno fatto Omsa e molte altre imprese. Un capitalismo moderno è anche quello dove le imprese tengono conto degli interessi di tutti gli stakeholder. Perciò il nuovo modello di sviluppo deve puntare sulla qualità, non solo dei prodotti e dei servizi ma anche delle imprese e favorire quelle che, al pari delle cooperative, sono attente agli interessi intergenerazionali di tutti i fattori, lavoratori, azionisti, territorio, ambiente.
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