sabato 14 gennaio 2012
Morte e filosofia nel libro di Umberto Curi
Umberto Curi: VIA DI QUA, Bollati Boringhieri pp. 236, 16,50
«Via di qua; ecco la mia meta». Nell'annuncio del protagonista del racconto di Kafka La partenza risuona l'universale della condizione umana, quell'andar via a cui non occorre una destinazione, poiché è già meta in sé: la morte, ineluttabile, inconcepibile, inconoscibile, eppure evento-limite che conferisce alla vita il senso più autentico. Nella sua vicenda millenaria, talvolta la filosofia si è incaricata di strappare alla morte l'aculeo velenoso, ossia di liberare l'uomo dal timore della morte, riducendola a puro nulla, quindi espungendola dall'orizzonte dell'esistenza. Una strategia che il filosofo Umberto Curi non condivide affatto. Come il principe di Danimarca, è convinto da tempo che i contenuti di pensiero abitino anche al di fuori della disciplina che ne è ufficialmente titolare, e li va a cercare con mano sapiente nella tragedia e nel mito dell'antica Grecia, nella poesia e nella narrazione contemporanee. Lì incontra ricchissime testimonianze che, da prospettive diverse, recuperano la morte alla pienezza della vita, senza per questo disinnescare in modo consolatorio il potenziale angoscioso della fine. Sfuggono infatti a intenti edificanti, e non potrebbero mai essere rifuse in un eserciziario della buona morte, simile a quelli diffusi in Occidente secoli fa. Ci possono solo suggerire con Rilke - ed è suggerimento prezioso - che «bisogna imparare a morire: ecco in che cosa consiste tutto il vivere».
Mito Le strategie che l’uomo ha elaborato via via per sottrarsi al timore della sparizione
Verrà la morte, nessuno si illuda
Un viaggio nel tempo con il filosofo Curi, da Prometeo a Kafka, da Eschilo a Rilke, da Euridice a Machado
di Augusto Romano La Stampa TuttoLibri 14.1.12
Non siamo più abituati a parlare della morte. La società attuale l’ha resa indecente. Pensare che F. Kafka scrisse: «Uno dei primi segni che cominciamo a capire è che non ci vergogniamo più di dover morire». Invece oggi moribondi e morti sono tenuti nascosti. Giovinezza, salute, bellezza, seduzione vengono esaltati come valori assoluti, ma nessuno pensa che la morte e il suo alleato, il tempo, li ha in suo potere e lentamente li consuma. Il punto è che la cultura corrente ha operato una netta divaricazione tra morte e vita, considerandoli come termini opposti e inconciliabili, non diversamente da come tradizionalmente si dice del bene e del male. Cosicché sembra davvero che pochi si rendano conto di ciò che pure è sotto gli occhi di tutti: che vita e morte sono stretti in un unico plesso e che, senza la morte, la vita stessa sarebbe inconcepibile.
In questo libro denso e affascinante ma di grande chiarezza il filosofo Umberto Curi esplora l’universo mitico (fra i mitografi porremo anche filosofi e poeti) per illustrare le strategie che sin dall’antichità l'uomo ha elaborato per sottrarsi al timore della morte, mostrando come esse siano destinate all'insuccesso. Il mito di Prometeo è quello che meglio ci persuade dell’esito tragico di ogni progetto negazionista. Acclamato come promotore dello sviluppo della civiltà, in realtà il senso dell’azione prometeica è svelato da lui stesso quando, nella tragedia di Eschilo, afferma: «Ho posto in loro [negli uomini, nda] cieche speranze». Le cieche speranze riguardano il progresso generato dalla tecnica che, inducendo gli uomini a distrarsi volgendo altrove lo sguardo, promette a «queste larve di sogni» che noi siamo di dimenticare la morte. Prometeo sarà punito per il suo progetto eversore dell’ordine del cosmo, e soltanto dopo una lunga sofferenza imparerà ad amare la morte, che pone fine alle umane sciagure.
Spostarsi da un atteggiamento dissociativo a uno comprensivo significa accedere al modo simbolico, cioè a quel dispositivo psichico che permette di tenere insieme gli opposti. Così è dell’unità di morte e vita. La produzione di simboli potrebbe essere definita come il risultato, o la prefigurazione, di una ambivalenza vissuta e accettata, e il simbolo stesso come l'immagine di una pienezza non placata. Il simbolo non dà ricette, non prescrive, non significa niente se non la propria scandalosa paradossalità, e così istituisce una tensione in cui trovano posto la sua capacità di stimolare interpretazioniinesauribili e profonde emozioni, e il suo additare un'oscura verità non altrimenti dicibile. I sogni dei moribondi sono popolati di figure che nella loro irriducibile ambiguità sono fortemente simboliche. Immaginate la vecchia con la falce che improvvisamente si trasforma in una fanciulla misteriosa, con gli occhi colore del cielo, che procede danzando. I poeti non si stupirebbero. Rilke, che più di ogni altro ha messo in evidenza il legame organico di morte e vita («… potremmo mai essere noi, senza i morti? »), popola i suoi versi di serene figure di donne conquistate dalla morte. Euridice, che segue a malincuore Orfeo nell’impossibile ritorno alla luce. Non vi è in lei più alcun attaccamento alla vita: «il suo essere morta la riempiva come una pienezza», come un grembo che prepari la nascita. Euridice finalmente sa osserva Curi - «che la morte può donare una pienezza che neppure la vita è in grado di conferire».
Machado cantava: «…Nulla giammai sapremo / da arcano mar veniamo, a ignoto mare andremo…». Noi non sapremo mai se la morte è una fine o un transito. E naturalmente gli spiriti forti diranno che ogni elaborazione mitica non è altro che una fantasia di compensazione. Cosa importa? Il mito è qui con noi, e continua a commuoverci, senza per questo annullare la nostra umana sofferenza. Ha scritto Kafka: «Tutte queste similitudini dicono soltanto che l'Inconcepibile è inconcepibile». E' però anche vero che talvolta «la retorica persuade la necessità». Attraverso gli innumerevoli discorsi, i sogni, le metafore, i miti, i versi dei poeti noi ci prendiamo cura pazientemente, senza eroiche (o vili) illusioni, della nostra morte, ci familiarizziamo (mai abbastanza) con questa sconosciuta che continuamente ci viene incontro.
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