giovedì 22 marzo 2012

Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Il PD al crocevia tra approdo alla destra liberista e scissione

Il Pd chiede modifiche a Monti D'Alema: testo pericoloso e confuso
Bersani: non si può dire prendere o lasciare. Elettori in rivolta sul web
di Monica Guerzoni  Corriere della Sera 22.3.12 da Segnalazioni


ROMA — «Attenzione, Monti non può dire al Pd di prendere o lasciare. Non si può fare... Non lo ha mai fatto e io credo che non lo farà».
Alle nove e trenta della sera, in diretta da Porta a Porta, un Pier Luigi Bersani bellicoso come mai prima scandisce il suo ultimatum sull'articolo 18. Il leader del Pd chiede al governo di «correggere» il testo guardando al modello tedesco e quando Bruno Vespa gli domanda se i democratici voteranno contro, qualora il premier dovesse tirare dritto, il segretario gioca il tutto per tutto: «Mi sono spiegato? Prendere o lasciare no, noi non ci stiamo. Voteremo quando saremo convinti».
È il finale di una giornata tesissima, scandita dal rullar dei tamburi degli elettori che sul web riversano paura e rabbia e vogliono che Bersani stacchi «la spina» al governo. E lui, dagli schermi di Rai1, prova a placare la base: «La pancia deve essere tranquilla. Siamo gente solida noi, non accetteremo che venga ribaltato il rapporto di forza tra lavoro e impresa». Al tramonto, rompendo il riserbo degli ultimi tempi, al Tg3 Massimo D'Alema aveva spostato il suo peso dalla parte della Cgil. Il presidente del Copasir definisce il testo della riforma «pericoloso e confuso» e chiede che sia «migliorato in Parlamento». E quando Bianca Berlinguer ricorda all'ex premier che il vicesegretario Enrico Letta e Beppe Fioroni hanno già dato il via libera, D'Alema li ammonisce: «Ai dirigenti del mio partito, specie in passaggi delicati e importanti come questo, consiglierei maggiore cautela nel rilasciare dichiarazioni». È altissimo il livello di tensione nel Pd, la forza di maggioranza che più subisce, sulla sua pelle, la forza d'urto della rivoluzione in arrivo.
A Montecitorio si votano le liberalizzazioni, ma si parla di licenziamenti. E più d'uno, tra i deputati del Pd, confessa che non riuscirà a «ingoiare il rospo». Bersani sa che il partito può spaccarsi in Aula con conseguenze imprevedibili, ha lasciato trapelare irritazione per il metodo di Monti e sfoga (quasi) pubblicamente la sua delusione. Parla in Transatlantico con l'ex ministro Cesare Damiano e non si cura dei cronisti che lo ascoltano: «Non morirò dando il via libera alla monetizzazione del lavoro! Per me è una roba inconcepibile». Il conflitto tra l'ala sinistra che guarda alla Cgil e quella moderata e riformista, più sensibile alle sirene del governo dei tecnici, appare difficilmente sanabile. I deputati-operai Lucia Codurelli e Antonio Boccuzzi annunciano il loro no e il senatore Vincenzo Vita sprona a schierarsi con la Cgil, «costi quel che costi».
Che accadrebbe se il Pd finisse per dividersi al momento del voto? C'è chi dice che quel giorno segnerebbe il fallimento del partito ed è per questo che Bersani e D'Alema alzano i toni. D'altronde senza il sostegno del Pd l'esecutivo andrebbe a casa e Rosy Bindi lo dice senza concessioni alla diplomazia: «Questo governo può andare avanti se rispetta la dignità di tutte le forze che lo sostengono». E quando la Cgil scenderà in piazza, è pronta alle barricate la Bindi, il Pd sarà «al fianco dei lavoratori».
Il pressing della base è fortissimo, la pagina Facebook di Bersani è zeppa di appelli alla rottura: «Non votate questa vergogna!», «Via da questo governo»... E il segretario, pur convinto che la riforma contenga «delle cose buone che vanno preservate», è costretto a forzare nella speranza di ottenere qualche modifica in extremis: «L'accordo? Se di accordo si può parlare...». E poiché per il segretario un decreto legge «non esiste in natura», Dario Franceschini chiede che si proceda «con un disegno di legge perché il Parlamento possa discutere». Da Vespa, poi, Bersani ha parlato anche di Viale Mazzini: «Se non si fa la riforma della Rai e vanno avanti io non ci sto comunque».
Nella partita sul lavoro, dentro il Pd anche le tecnicalità sono importanti, ma è il merito a disegnare le squadre in campo. Pietro Ichino, il senatore che teorizza la flexicurity, sostiene che Monti abbia attinto al materiale programmatico del partito e sferza i compagni: «Vivere questo progetto di riforma come una medicina amara e indigesta, da ingerire col naso tappato, a me sembra molto fuori luogo». Sul fronte opposto Stefano Fassina chiede che non sia posta la fiducia, per non «esasperare ulteriormente il rapporto con un partito importante che lo sostiene».



I timori dei leader: «Così non reggiamo» E qualcuno pensa alla piazza con la Cgil

di Maria Teresa Meli  Corriere della Sera 22.3.12 da Segnalazioni


ROMA — «Così non reggiamo»: è preoccupato, il segretario del Pd. E sospettoso. Non ha capito a che gioco stia giocando il governo: «Vogliono lo scalpo dell'articolo 18 per mettere all'angolo la Cgil? O siamo noi l'obiettivo?».
Già, i vertici del Partito democratico temono di essere loro stessi il bersaglio di questa operazione. Sono convinti che si stia puntando a neutralizzare il Pd e a consegnarlo alla logica della grande coalizione chiudendogli ogni spazio di agibilità politica. Per questa ragione Massimo D'Alema usa parole dure, per questo motivo Rosy Bindi non esclude che il partito possa scendere in piazza con la Cgil: «Noi siamo sempre al fianco dei lavoratori».
La verità è che il Pd rischia di spaccarsi: ieri, alla Camera, metà gruppo era contrario alla riforma. E tra questi anche parlamentari moderati, come i «franceschiniani» Antonello Giacomelli e Saverio Garofani. Del resto lo stesso capogruppo Dario Franceschini è più che perplesso nei confronti di questa riforma. Non è sicuramente il caso di Veltroni. Il suo plenipotenziario Walter Verini, in Transatlantico, ieri pomeriggio ha accolto con queste parole il ministro Fornero: «Noi siamo con te». E nemmeno la minoranza dei Modem, o il responsabile del Welfare Beppe Fioroni e il vicesegretario Enrico Letta hanno dei problemi su questa riforma. Ma il resto del partito è in subbuglio.
Al telefono con Mario Monti, Bersani ha insistito su una modifica dell'articolo 18: se i motivi economici dei licenziamenti sono fraudolenti il lavoratore può rivolgersi al giudice che deciderà per il reintegro o l'indennizzo. In cambio il Pd offriva al presidente del Consiglio la possibilità di blindare il testo, anche con un decreto. Ma il governo ancora ieri sera non si spostava di un millimetro. Anzi. Il ministro Fornero ha cercato di convincere i deputati del Pd. Prima impietosendoli: «Lo vedete che ha fatto Diliberto? Ha abbracciato una donna con una maglietta su cui campeggiava la scritta: Fornero al cimitero». Poi cercando di farli ragionare su un altro aspetto: «Non dovete focalizzarvi sull'articolo 18, dovete pubblicizzare tutte le cose che vanno bene anche a voi e su cui invece il centrodestra è contrario».
Se l'ipotesi del ritocco della norma che modifica l'articolo 18 è impossibile, come pare, al Pd resta solo un'altra linea Maginot su cui assestarsi. Ossia quella di rinviare i nodi di questa riforma del mercato del lavoro a una legge delega, in modo da mandare per le lunghe tutta la vicenda ed evitare di andare alle elezioni con un provvedimento impopolare. Anche perché i sondaggi, dopo che si è aperto il caso dell'articolo 18, non sono poi così favorevoli. Infatti il 60 per cento degli elettori del Partito democratico è contrario a questa modifica. Bersani, quindi, è sulle spine: «Non posso concludere la mia vita dando la monetizzazione del lavoro, per me è una cosa inconcepibile». E di nuovo, in serata, prima di andare a Porta a Porta, nella mente del segretario si affollavano i sospetti: «A che gioco sta giocando il governo? Ci vogliono dividere? Vogliono che rompiamo con la Cgil e con le forze alla nostra sinistra? Io stimo Monti, e lo giudico una persona perbene, ma il presidente del Consiglio ci deve dare una dimostrazione del fatto che da parte dell'esecutivo non ci sono retropensieri».
Non è una situazione facile, quella del segretario del Partito democratico. Anche perché all'interno del Pd cominciano a levarsi le critiche per come il leader ha gestito questa trattativa: «Prima aveva dato il via libera nel corso del vertice con gli altri segretari, poi ha fatto retromarcia». E qualche veltroniano mette in discussione un altro aspetto di questa vicenda: «Il segretario l'ha fatta troppo facile e ci ha fatto pensare che Susanna Camusso avrebbe detto di sì». Ed effettivamente Bersani una decina di giorni fa era riuscito a convincere la segretaria della Cgil ad addivenire a più miti consigli. Poi una consultazione interna con le Camere del Lavoro, i sindacati più forti (pensionati, scuola, ecc.) aveva fatto registrare la svolta di Camusso. I «no» alla riforma dell'articolo 18 erano la maggioranza, troppi per non prenderli in considerazione. Bersani a quel punto ha sperato in Monti. Non c'è stato niente da fare. E ora al leader del Pd non resta che dire ai fedelissimi: «Non posso essere io il segretario che cancella la concertazione ed emargina la Cgil».

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