venerdì 23 marzo 2012

La proposta neokeynesiana di Giorgio Lunghini

Giorgio Lunghini: Conflitto crisi incertezza. La teoria economica dominante e le teorie alternative, Bollati Boringhieri

"Vuoi dirmi che strada dovrei prendere per uscire di qui?", chiede Alice al gatto acquattato sull'albero. "Dipende molto da dove vuoi andare", è la risposta. Nell'urgenza di trovare una via di uscita dalla drammatica situazione odierna sarebbe poco sensato imboccare di nuovo, e circolarmente, la strada che ci ha condotti al punto in cui siamo. In termini economici significa riconoscere come sia ormai inservibile la teoria che finora ha prevalso, quella neoclassica secondo cui il mercato, lasciato a se stesso, è fattore di equilibrio. Massiccia disoccupazione e bisogni sociali insoddisfatti costituiscono le più eloquenti smentite di tale principio di autoregolazione. Uno dei maggiori economisti italiani riparte dagli "eretici" che, prima e dopo i neoclassici, hanno formulato teorie alternative. Al di qua dei tecnicismi, affidandosi solo alla potenza del linguaggio comune, Giorgio Lunghini recupera attraverso tre parole tuttora emblematiche - conflitto, crisi e incertezza - la riflessione critica di coloro che per primi le hanno poste al centro di un'analisi economica lungimirante e attualissima: Ricardo, Marx, Keynes e Sraffa. Senza di loro, ammonisce Lunghini, continueremmo a credere che la crisi sia soltanto un perturbamento casuale, e che conoscenza storica e dimensione politica interferiscano come elementi spuri nella purezza delle cifre. 


Troppe merci, poco lavoro: ci vuole un altro codice etico

Superare la crisi si può. I presupposti economici e tecnologici ci sono, quelle che mancano sono le premesse politiche

di Giorgio Lunghini  l’Unità 23.3.12 da Segnalazioni

In una conferenza sulle Prospettive economiche per i nostri nipoti, tenuta a Madrid nel 1930, Keynes affermava che entrambi i contrapposti pessimismi si sarebbero dimostrati erronei nel corso di quella stessa generazione: il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento, e il pessimismo dei reazionari, i quali ritengono che l’equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti. La malattia della disoccupazione tecnologica, sosteneva Keynes, sarebbe stata soltanto una fase di squilibrio transitorio e nell’arco di cento anni l’umanità avrebbe risolto il suo problema economico. Lord Keynes non era un pazzo che ode le voci. Il paradiso che prefigurava è realizzabile in terra, ma non così presto e così facilmente. Negli ottant’anni passati da allora l’umanità non si è mossa nella direzione della libertà dal bisogno. L’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni è oggi ancora più grave di allora. La teoria economica e l’arte del governo non sanno spiegare né vogliono risolvere il problema economico-politico più grave: troppe merci, poco lavoro.
LE PREMESSE
Eppure le premesse tecnologiche ed economiche per una soluzione del problema ci sono, e da tempo; quelle che mancano sono le premesse politiche. Ne è prova il fatto stesso che il lavoro socialmente necessario per produrre una data quantità di merci è diminuito e continua a diminuire, ne è prova la crescita stessa della disoccupazione. Si apre dunque la prospettiva di sfruttare la tecnologia disponibile al fine di risparmiare lavoro anziché lavoratori, di rovesciare il rapporto tra macchine e lavoro vivo. È la prospettiva delineata da P. Lafargue, il genero odiosamato di Marx, poi dal Keynes di Bloomsbury. Non è detto che sia questo il destino dell’umanità, così come è prefigurato da Lafargue e da Keynes. È un esito tecnicamente possibile, tuttavia è una strada lunga e difficile per molte ragioni, soprattutto politiche, alcune delle quali indicate dallo stesso Keynes. Dovrà esserci un elevato tasso di accumulazione del capitale. Non dovranno esserci conflitti civili, guerre e incrementi demografici eccezionali. Non devono crescere oltre misura i bisogni relativi, quei bisogni che esistono soltanto in quanto la loro soddisfazione ci fa sentire superiori ai nostri simili. Bisogna saper cantare e volere partecipare al canto, desiderare di fare cose diverse da quelle che fanno di solito i ricchi di oggi, essere disposti a dividere il «pane», considerare spregevole l’amore per il denaro. Occorrono profondi mutamenti nel codice morale, dunque una determinata, paziente, lunga azione culturale e politica. Niente di automatico e tanto meno di imminente, tuttavia ci sono ragioni per pensare che questa sia la direzione.
L’aveva già detto A. Smith: «In ogni società progredita e incivilita, questa è la condizione in cui i poveri che lavorano, cioè la gran massa della popolazione, devono necessariamente cadere a meno che il governo non si prenda cura di impedirlo».
© 2012 Bollati Boringhieri editore Gruppo editoriale Mauri Spagnol

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