lunedì 26 marzo 2012

Ricordo di Fosco Maraini

Gli dei senza dio di Fosco Maraini

La "scoperta" dei Kafiri nell’Hindu-Kush, lo spirito dello Shinto giapponese, il bosco sacro di Diana sui colli Albani Le avventure nei mondi distanti ma uniti da quella "religione naturale" che il grande etnologo italiano, celebrato a cent’anni dalla nascita, studiò per tutta la vita

di Franco Marcoaldi  Repubblica 25.3.12 da Segnalazioni


Dopo aver partecipato nel 1958 alla conquista del Gasherbrum IV, l´anno successivo Fosco Maraini compie la seconda impresa alpinistica himalayana della sua vita. Adesso è capo spedizione nell´ascesa al picco Saraghrar (7.349 metri), una cima ancora inviolata dell´Hindu-Kush, al confine tra Pakistan e Afghanistan. Anche stavolta l´impresa andrà a buon fine, offrendo il destro alla scrittura di un libro dal titolo singolare, Paropàmiso, riferito al nome che gli uomini di Alessandro Magno diedero ventitré secoli addietro a quelle montagne: «Il nome mi piacque: augusto, sibillino, marmoreo. Ma il pubblico lo trovò ostico, impronunciabile, stopposo. E il libro andò al macero…I titoli vanno soppesati con gran cura. Guai a sbagliarsi».
Paropàmiso è un testo centrale nella vastissima bibliografia di questo grande italiano del ´900, di cui ricorrono quest´anno i cento anni dalla nascita. Etnologo, fotografo, orientalista, poeta, alpinista, scrittore, documentarista, professore universitario, viaggiatore, Maraini - paradossale a dirsi - ha finito per pagare un prezzo salato a causa di questa straordinaria varietà di interessi: il nostro paese non ha mai prediletto i "grandi dilettanti" e difatti la sua fama non è paragonabile a quella degli altri due fiorentini che gli sono stati coevi, Tiziano Terzani e Oriana Fallaci. Eppure proprio Paropàmiso (ripubblicato da Mondadori nel 2003 in una edizione ampliata), ci indica tutta l´originalità del pensiero di Fosco. Al racconto della scalata, nel libro si accompagna una meditazione sul tema del viaggio come chiave di volta per superare «i muri di idee» che separano le diverse civiltà, e infine un´accurata indagine antropologica sulla vicenda dei Kafiri, l´unica popolazione non islamizzata della regione. Dopo gli Ainu e le Ama (comunità marginali giapponesi), l´incontro con i Kafiri completa il trittico dei piccoli gruppi di «ultimi pagani» (titolo di un altro libro, accompagnato da un´intervista di Francesco Paolo Campione) con cui Maraini viene a contatto e verso i quali prova un´immediata attrazione, perché riflettono un genere di vita condotto «in stupenda pace ecologica con gli ambienti circostanti, e, simbolicamente, col mondo».
Sul finire degli anni Cinquanta, i Kafiri del Chitral erano poco meno di tremila. "Gli infedeli che non sono del Libro" (questo vuol dire kafir) si erano ritirati in luoghi pressoché inaccessibili, vivendo in vallate segrete e selvagge. Al gruppo degli alpinisti occidentali, si presentarono uomini e donne dall´aria faunesca, con grandi secchi pieni d´uva. La produzione di vino (per quanto pessimo), offriva il primo, sorprendente segnale di costumi «sopravvissuti alla frana del tempo». Le prescrizioni islamiche qui non si erano imposte e la presenza «del tralcio sacro a Dioniso» dava da pensare. Chi aveva insegnato ai Kafiri a fare il vino? «Che fosse davvero un ricordo lasciato dal dio ellenico nella sua spedizione alle terre dell´India?». E davanti a tutti quei noci, platani, gelsi, lecci, ginepri, albicocchi, chissà che entusiasmo dovevano aver provato le truppe di Alessandro, arrivate fino alle soglie di un ignoto favoloso che tanto assomigliava agli scenari domestici. Ecco perché, anche adesso, l´atmosfera, «più che d´esotico, sapeva d´antico».
La fantasia di Maraini subito si accende, rafforzata dalle continue spie di un mondo in cui imperano leggende, magie, superstizioni, fate, santi, sacrifici animali. Ma è soprattutto la presenza di vecchie immagini divine intagliate nel legno a mostrargli l´assoluta anomalia di questa comunità in terra musulmana. Senza contare che qui le donne non solo non hanno il viso coperto, ma danzano sensualmente e suonano il flauto, mentre gli uomini, davanti a imponenti statue mortuarie, fanno da corolla al rebun, l´ultimo degli sciamani: un uomo sulla cinquantina, dagli occhi spiritati e l´aria nervosa, che racconta storie incredibili, governate da potenze occulte.
Il sacrificio cruento dell´ennesima capra per ingraziarsi la benevolenza delle divinità, con relativo collasso e perdita dei sensi dello sciamano, lascia Maraini di stucco. Gli pare di rivivere in diretta le pagine del Ramo d´oro di James Frazer. Sa bene che la comunità kafira è agli sgoccioli, sa che la complessità della loro religione si sta progressivamente trasformando in un fenomeno penoso, miserevole. Però è altrettanto consapevole dell´eccezionalità dell´evento: questi potrebbero davvero essere gli "ultimi pagani" del mondo. Gli eredi inconsapevoli dei culti «professati dai nostri lontanissimi cugini dei tempi vedici in India». Forse i pronipoti dei nostri stessi antenati italici.
Fosco però non si accontenta di assaporare questo inatteso regalo del destino. Ama pensare e per pensare bisogna connettere fenomeni in apparenza distanti tra loro. Da sempre la religione, per lui, è un autentico cruccio: rappresenta un intimo bisogno dell´uomo, eppure è come se all´individuo contemporaneo fossero stati tagliati i ponti con «il Grande Mistero che tutti ci avvolge». A causa del conflitto insanabile tra la pretesa di una verità rivelata e la razionalità critico-scientifica propria della modernità. È inevitabile. Le tre grandi religioni monoteistiche (artefici della "Rivelazione Puntuale") si dichiarano ciascuna in possesso dell´unica verità, che si è manifestata in un preciso momento storico, in un preciso spazio geografico e che dunque concerne soltanto alcuni precisi individui, lasciando tutti gli altri "al buio della fede". Da qui inspiegabili privilegi, attriti, diffidenze reciproche, montanti fondamentalismi. Se al contrario cominciassimo a pensare che le vere, Sacre scritture «sono il cielo, la terra, il cuore dell´uomo», scopriremmo l´universalità del sentimento religioso. Un sentimento che coinvolge tutti in eguale maniera: «dal più umile nativo dell´isola più remota, ai massimi luminari del sapere, nei centri più prestigiosi delle civiltà più avanzate». Ecco cosa ci insegna la Rivelazione Perenne, di cui si può trovare traccia tanto nel paganesimo residuale degli ultimi Kafiri, quanto nell´avanzatissimo Shinto giapponese. L´intero universo è pervaso dalla divinità, la rivelazione non è patrimonio esclusivo di nessun Libro. Ce l´hai sempre lì, a portata di mano. Tutto è sacro: la poesia, la natura, la scienza. Su questo riflette Maraini di fronte alle moribonde divinità kafire, a quei «sottodei, dei da strapazzo, dei fatti a mano», incrostati del sangue delle capre sacrificate e dell´odore di ginepro. D´ora in avanti, ogni qualvolta si troverà sui colli Albani, sa che non potrà non provare una stretta al cuore attraversando il bosco sacro di Diana Nemorensis. Lo sa perché il filo sotterraneo dell´antico paganesimo, malgrado tutto, non si è mai definitivamente interrotto. E difatti si ripresenta, sotto forma di «un politeismo polverizzato, nebulizzato in miriadi di segrete presenze», nello stesso Shinto giapponese, da lui tanto amato: «l´immersione totale dell´uomo nella natura, così caratteristica dello Shinto, non porta con sé un abbassamento dello spirito al materialismo, quanto il suo contrario. Non è lo spirito che cala nelle cose e vi perisce, sono piuttosto le cose che si animano e si illuminano di spirito». Questa è la "religione naturale" vagheggiata dal laico Maraini, in cui può riconoscersi qualunque individuo che non intenda rinunciare a interrogarsi sul mistero insondabile dell´esistenza: al di là di dogmi, chiese e verità rivelate.

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