domenica 1 aprile 2012
Le origini del concetto di "barbaro"
“Nelle commedie di Plauto ambientate in Grecia e i loro personaggi chiamano barbarica lex il diritto romano"
"La cittadinanza dell’Urbe poteva essere concessa ai vinti beneducati e collaborativi"
Oggi a Genova Al festival «La storia in piazza», che si conclude oggi a Genova, interviene tra gli altri, alle 15 presso l’Archivio Storico del Comune, lo storico e scrittore Alessandro Barbero. Anticipiamo una sintesi della sua lezione
Ognuno è barbaro di qualcun altroFurono i Greci a inventare questa categoria per indicare i Persiani e poi i Romani: che a loro volta la applicarono ai popoli sottomessi
di Alessandro Barbero La Stampa 1.4.12 da Seegnalazioni
La visione d’un mondo diviso tra civiltà e barbarie è uno dei lasciti più ingombranti dei greci. Probabilmente gli esseri umani hanno una tendenza congenita a pensare che chi è diverso è anche inferiore, ma i greci sono i primi che hanno teorizzato questa contrapposizione e hanno inventato un vocabolario per esprimerla: chi non è greco non è civile, e la prova è che non si capisce quando parla. Pare che balbettino tutti quanti: barbarbar, dunque «barbari». I nemici storici dei greci, i persiani, tendevano anch’essi a dividere il mondo tra «noi» e «gli altri»: il Gran Re si proclamava signore di tutta la Terra, «Iran e non-Iran». Ma l’impero persiano si gloriava di permettere a ogni popolo, dentro i suoi confini, di sviluppare in pace la propria cultura; per i greci, invece, convivere con i barbari era indegno di un uomo civile, a meno di ridurli in schiavitù.
Sull’opposizione fra Grecia e barbari il mondo ellenico costruì la propria identità. Le guerre persiane vennero esaltate come lotta per la civiltà e contro la barbarie, generando miti che non hanno ancora perduto il loro fascino, come sa chiunque abbia visto il film 300. I greci si battevano per la libertà, i barbari, invece, erano abituati a vivere sotto la tirannide: di lì il passo era breve per sostenere che i barbari erano nati per essere schiavi, e che quindi la natura stessa autorizzava i greci a ridurre in schiavitù le razze inferiori, come afferma Aristotele.
Sennonché, un bel giorno altri barbari, provenienti stavolta da Occidente, minacciarono la libertà della Grecia; l’esercito delle poleis greche si radunò per fermarli, ma anziché stravincere come a Maratona o a Salamina venne sbaragliato, e la Grecia cadde in potere dei barbari vittoriosi. Quei barbari, il lettore lo indovina, erano i romani. Per noi italiani è dura ammettere che gli antichi romani sono stati anch’essi barbari agli occhi dei greci, ma le prove sono lì a testimoniarlo, perfino nella letteratura latina. Le commedie di Plauto sono ambientate in Grecia, e i loro personaggi, greci, chiamano «barbarica lex» il diritto romano, e «mangiare alla barbara» l’uso romano di banchettare sdraiati nel triclinio. Un passo di Plinio ricorda che Catone il Censore era solito inveire contro i greci: li abbiamo vinti e sottomessi, diceva, ma io so che quando sono soli «continuano a chiamarci barbari».
Il tacito compromesso per cui i greci ammisero che anche i romani erano civili è uno dei segreti meglio custoditi dagli Antichi, che non ne parlavano volentieri, dato che nessuno ci faceva bella figura. I romani adoravano la cultura greca, compravano schiavi greci istruiti per educare i loro figli, riempivano le case di copie di statue greche e andavano a teatro a vedere imitazioni della commedia greca; ed erano abbastanza riconoscenti ai greci per tutto questo da consentire alle poleis elleniche di conservare una parvenza di autonomia. In cambio di questa concessione, non irrilevante dal punto di vista pratico e importantissima per l’orgoglio nazionale, i greci smisero un po’ per volta di chiamare barbari i romani, e la parola barbaro cambiò significato: ora non indicava più chiunque non fosse greco, ma chi non era né greco né romano.
Di questi barbari l’impero era pieno, perché gli abitanti dei paesi conquistati dai romani continuavano a essere considerati barbari fino a nuovo ordine. Come nelle colonie europee dell’Otto-Novecento, le province dell’impero erano abitate da indigeni con pochi diritti, e governate dai membri del popolo conquistatore. C’era però una differenza cruciale, di cui i romani erano giustamente orgogliosi, e che permetteva loro di sentirsi superiori perfino ai greci. A Roma la cittadinanza non si trasmetteva soltanto col sangue, ma poteva essere concessa ai barbari beneducati e collaborativi, anzi la linea ufficiale era di concederla il più largamente possibile.
Forse proprio perché ricordavano d’essere stati anche loro i barbari di qualcun altro, i romani sapevano, come scrisse nel IV secolo un Padre della Chiesa, «che essere greco o barbaro è una differenza dei corpi, non delle anime; la distanza sta nei luoghi di origine, non nei costumi o nella volontà». Chiunque voleva poteva essere romano, e questo ci ricorda che da Roma abbiamo ancora molto da imparare.
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