lunedì 7 maggio 2012
L'edizione Valla del Periphyseon di Giovanni Scoto Eriugena
Giovanni Scoto Eriugena: Sulle nature dell'universo, primo volume, introduzione e il commento sono di Peter Dronke, traduzione italiana di Manuela Pereira, Fondazione Valla, pagine LXXXVIII-303, 30
II Periphyseon, un dialogo in cinque libri tra un insegnante e il suo
arguto allievo, è forse l'opera più grande e originale del pensiero
medievale prima della Summa di Tommaso d'Aquino. Scritto in un latino
straordinario da uno dei pochissimi filosofi del Medioevo che
conoscessero il greco, e profondamente influenzato dal pensiero di Padri
greci quali Basilio, Massimo il Confessore, Gregorio di Nissa e
Gregorio di Nazianzo, Sulle nature dell'universo è una vibrante
testimonianza personale che si presenta come "racconto immaginario di
un'immagine". Ma è anche una discussione serrata e razionalmente
argomentata alla ricerca del Primo Principio, che fonda l'Essere e sta
al di sopra dell'Essere. Natura è dunque il nome generale di tutte le
cose che sono e di tutte quelle che non sono", scrive Giovanni
all'inizio della sua opera. Essa comprende sia Dio sia il creato, ed è
divisa in quattro specie: ciò che crea e non è creato, Dio; ciò che crea
ed è creato, le Cause Prime o Idee; ciò che è creato e non crea, gli
effetti temporali, le cose create; e infine ciò che non è creato e non
crea, il non essere, il nulla. Tutto il Libro I del Periphyseon è
dedicato alla Creazione dell'universo da parte di Dio.
Giovanni Scoto. Il filosofo che illuminò i secoli bui
Fu il più grande pensatore medievale e mise l'uomo al centro dell'universo
di Pietro Citati
Corriere 7.5.12 da Segnalazioni
Con
ogni probabilità, Giovanni — il più grande filosofo del Medioevo latino
— nacque in Irlanda attorno all'815. La tradizione gli attribuisce due
nomi: Giovanni Scoto e Giovanni Eriugena, cioè Giovanni l'Irlandese. Lo
circondava una specie di leggenda: vir barbarus in finibus mundi
positus, come scrisse Anastasio il Bibliotecario. Abbiamo pochissime
notizie sulla sua vita. Tutto lascia credere che, carico di un'immensa
erudizione, abbia insegnato nella giovinezza in Irlanda; e che il re di
Francia Carlo il Calvo lo abbia invitato, attorno all'840, alla sua
corte, affidandogli il compito di insegnare arti liberali alla scuola
palatina di Parigi.
Divenuto re nell'843, Carlo il Calvo esercitò un
grande fascino sui letterati del suo tempo. Giovane, abile parlatore,
dotato sia di urbanitas sia di dulcedo, aveva costruito in numerosi anni
una corte molto più brillante, viva e originale di quella di Carlo
Magno. Moltiplicava le biblioteche e gli scriptores, che ricopiavano
manoscritti italiani, inglesi e irlandesi; ispirava meravigliose
miniature; leggeva tutti i testi latini che aveva a disposizione, e
possedeva una conoscenza sia pure superficiale del greco. Il Libro era
il cuore mobile e vibrante della sua vita. Giovanni Scoto e Carlo
nutrivano, l'uno verso l'altro, sentimenti di ammirazione e di
venerazione; e giocavano con il greco, il latino, le idee, le immagini,
come se la cultura fosse una specie di spettacolo inesauribile.
A
Parigi Giovanni Scoto aveva conosciuto dei professori provenienti da
Costantinopoli, che gli avevano insegnato un greco quasi perfetto, in
tutta la ricchezza delle sue sfumature. D'allora in poi si abbeverò a
quella abbondantissima fonte: tradusse Prisciano di Lidia, Gregorio di
Nissa, Massimo il Confessore e, sopratutto, l'immenso Corpus dello
Pseudo Dionigi, che accreditò in Occidente. Scrisse il De
praedestinatione, un commento a Dionigi, una mirabile Omelia sul prologo
di Giovanni (a cura di Marta Cristiani, edito da Mondadori-Fondazione
Lorenzo Valla), un commento incompiuto al Vangelo di Giovanni. Prima
dell'866 compose l'immenso Periphyseon, ovvero Sulle nature
dell'universo: in questi giorni esce il primo volume di una bellissima
edizione commentata, che comprenderà sei volumi della Fondazione Valla
(primo volume: pagine LXXXVIII-303, 30). L'introduzione e il commento
sono di Peter Dronke, uno dei più eccellenti e famosi medioevalisti e
comparatisti di lingua inglese: la traduzione italiana di una elegante
studiosa, Manuela Pereira, che negli anni scorsi ha curato per i
Meridiani Mondadori un volume sull'Alchimia e Il libro delle opere
divine di Ildegarda di Bingen.
Mentre Giovanni Scoto traduceva il
Corpus dello Pseudo Dionigi, i Normanni scendevano in Francia:
incendiarono e distrussero tre volte Parigi; attaccarono Nantes,
sgozzarono il vescovo, arsero la cattedrale; bande di mori penetrarono a
Arles e a Nîmes; altre flotte normanne assediavano Bordeaux; risalirono
la Senna, la Loira, raggiunsero Tours, Orléans, Amiens, devastando
case, chiese, palazzi reali, abbazie. Dopo qualche anno di pausa, le
navi normanne riportarono dovunque desolazione e distruzione: tornò a
diffondersi un'atmosfera da fine del mondo. Ma Giovanni Scoto non
desisteva: lui doveva indagare le vere nature dell'universo, i
principii, le entità angeliche, le teofanie; non i casuali disastri che
la follia degli uomini produce sulla superficie del mondo.
Tornato
alla luce dopo un lungo periodo di silenzio e di incomprensione, Sulle
nature dell'universo è, per un lettore moderno, il libro filosofico più
affascinante del Medioevo. La Summa di san Tommaso pretende di
insegnarci una verità stabile e immobile; Sulle nature dell'universo
commenta ogni idea, immagine, sensazione, intuizione che siano discese
dai grandi testi della filosofia greca e latina; e non fa che inseguire
ipotesi che si sciolgono e si dissolvono in altre ipotesi e congetture,
culminando in una sovracongettura che appartiene, come diceva Borges, al
genere della letteratura fantastica. Scoto corteggia qualsiasi
suggestione culturale, ma non è vincolato a nessuna di esse. Non è
platonico, né aristotelico, né stoico, né agostiniano, e tantomeno
panteista. Mentre insegue i segreti dell'universo e di Dio, gioca,
ironizza, dissemina false citazioni: il maestro del dialogo
interminabile deride l'alunno, l'alunno deride il maestro; e non
sappiamo mai chi dei due abbia veramente ragione. Analizza ogni
possibile complessità logica; glossa le categorie; nessuno sembra più
minuzioso e razionale di lui; e alla fine prorompe in grandi sintesi
mistiche su Dio e la natura originaria dell'universo.
Il Nuovo
Testamento contiene due testi fondamentali. «Quando Dio si sarà
manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli
è», dice Giovanni. «Ora vediamo attraverso uno specchio in maniera
enigmatica: ma allora vedremo faccia a faccia», dice Paolo. Quando
leggeva queste frasi, il fedele cristiano era certo non solo di
conoscere ma di vedere Dio, come egli è, faccia a faccia. Era la
certezza, la grazia, la visione assoluta. Con un ardire straordinario,
che ha qualcosa di inesorabilmente drammatico, Giovanni Scoto rifiutò o
eluse le grandi frasi di Giovanni e di Paolo: abolì le fondamenta
mistiche del Nuovo Testamento; e insistè sull'assoluto fallimento del
linguaggio umano nel suo tentativo di comprendere il mondo divino.
Giovanni
Scoto seguì una strada completamente opposta a quella di Giovanni e di
Paolo. Nel Corpus dello Pseudo Dionigi aveva letto una frase, che
trasformò nel fondamento del suo paradossale sistema filosofico:
«L'essere di tutte le cose è la divinità al di sopra dell'essere». Così
possiamo, anzi dobbiamo dire, che Dio è più che Dio; più che essenza;
più che bontà; più che eternità; più che sapienza; più che amore; più
che visione; più che movimento. Ma possiamo esprimere la stessa verità
in un modo opposto, che ci porta più vicini a cogliere l'immenso segreto
negativo di Dio. Ecco, dunque: Dio non è Dio; Dio non è Essenza; Dio
non è bontà; Dio non è eternità; Dio non è sapienza; Dio non è amore;
Dio non è visione; Dio non è movimento. Il risultato di questo doppio
movimento, che afferma e cancella nel medesimo istante, è lo stesso. Per
quanto noi ci sforziamo di capire e di vedere, ripetendo le parole di
Giovanni e di Paolo, Dio è incomprensibile. Noi non possiamo conoscere
Dio; e non possono conoscerlo nemmeno le entità angeliche, le quali sono
dotate delle supreme qualità intellettive. Tra noi e Dio, tra gli
angeli e Dio, regna una profondissima zona di cecità e di silenzio, la
quale è la nostra unica strada d'accesso.
Poi, all'improvviso, Sulle
nature dell'universo ruota su se stesso e si capovolge, e noi
comprendiamo che, malgrado tutto, possiamo conoscere Dio, o almeno una
parte di lui. Sebbene gli angeli non possano vedere in viso Dio, essi
possono scorgere «le manifestazioni divine comprensibili alla natura
intellettuale». Sono quelle che Giovanni Scoto chiama illuminazioni,
apparizioni, rispecchiamenti, teofanie: fenomeni che noi, esseri umani,
possiamo cogliere soltanto attraverso la mediazione angelica. In questo
momento avviene ciò che noi non avremmo mai creduto possibile: la
deificazione dell'uomo. Il Verbo divino, che continua a restare se
stesso, discende per gradi verso il basso, verso la natura umana; e la
natura umana, pur restando esclusivamente se stessa, ascende verso il
Verbo, per opera e grazia dell'amore divino. Così l'anima è purificata,
illuminata e perfetta, sebbene non si sciolga affatto nella cecità e nel
silenzio dell'immenso nulla divino. Non esiste — Giovanni Scoto non
potrebbe essere più chiaro — nemmeno una traccia di panteismo. Sulle
nature dell'universo viene percorso e attraversato da un paragone
bellissimo: «Come l'aria, illuminata dal sole, sembra non essere altro
che luce, non perché perda la propria natura, ma perché la luce prende
in essa il sopravvento, sicché essa stessa sembra essere parte della
luce, così la natura umana unita a Dio è detta essere Dio sotto tutti
gli aspetti, non perché la sua natura abbia cessato di esistere, ma
perché è divenuta partecipe della Divinità, al punto che in essa sembra
esserci solo Dio».
Gli ultimi libri di Sulle nature dell'universo
raccontano grandiosamente il ritorno di tutte le cose nel grembo del
Signore: l'apocatastasis. Allora, il corpo verrà tramutato in spirito.
Lo spirito, o per essere più chiari, l'intera natura umana sarà
restituita alle cause primordiali che esistono per sempre in Dio. La
natura si trasformerà in Dio, come l'aria si trasforma in luce. L'essere
umano si riunificherà, superando la divisione dei sessi. L'orbe
terrestre sarà riunito al paradiso, e non vi sarà altro che paradiso. Il
cielo e la terra torneranno uniti, e non vi sarà altro che cielo. Alla
fine dell'apocatastasis il bene otterrà la sua vittoria definitiva sul
male. Non vi sarà più nessun luogo per porvi un inferno, nessun fuoco
per bruciarlo, nessun tempo per supplizi corporei. Anche il nemico
supremo, il diavolo, verrà cancellato: continuerà a esistere, non
perderà la sua natura demoniaca, ma non sarà più causa né di inimicizia
né di morte. «Forse — conclude Scoto — l'ultima fiamma che riempirà e
consumerà il mondo intero sarà l'apparizione visibile del Verbo di Dio
in tutte le creature»: quella fiamma che ora lo riempie in modo
invisibile.
Verso la fine della vita di Giovanni Scoto, le sue tracce
si smarriscono. Sappiamo che prima il libro giovanile sulla
Predestinazione poi Sulle nature dell'universo furono aspramente
criticati dai dotti cattolici, specialmente per la violenta
grecizzazione della cultura latina. Né il Dio-Nulla né la divinizzazione
dell'uomo potevano piacere a chi si era nutrito di Agostino. Poi
Giovanni Scoto scomparve. Di solito si sostiene che si nascose in un
monastero nello stesso anno, l'877, in cui il suo imperatore, Carlo il
Calvo, moriva ritornando da Roma in quella che sarebbe divenuta la
Francia. Ma, nella recentissima edizione, Peter Dronke avanza un'ipotesi
molto suggestiva. Il biografo di Alfredo il Grande, re d'Inghilterra,
racconta che il re aveva invitato dalla Francia due studiosi, uno dei
quali di nome Giovanni, «un uomo di intelletto acutissimo, coltissimo in
tutti i campi della letteratura ed esperto in molte altre arti
liberali». Proprio in quegli anni, Alfredo il Grande sviluppò in alcuni
testi il grande motivo eriugeniano del ritorno di tutte le cose nel
grembo di Dio. Non possediamo nessuna certezza assoluta. Ma non può
essere escluso che l'ignoto Giovanni, l'uomo «di intelletto acutissimo»,
non sia stato altri che Giovanni Scoto, venuto in Inghilterra a
diffondere drammaticamente le grandi visioni della sua vita.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
2 commenti:
Da par suo Citati ci introduce nel pensiero dell'Eriugena sottolineandone il taglio creativo della ricerca di fede. Notevole però la svista circa Tommaso d'Aquino quando Citati scrive che l'Aquinate "pretende di insegnarci una verità stabile e immobile". In realtà Dalle opere giovanili ai Quodlibetales e al Compendio di Teologia l'approccio ai temi complessi della scienza,della filosofia e della teologia,si dipanano alla luce della dinamica di partecipazione;tutt'altro che obsoleta come si ricava dal saggio di Mauro La Spisa "T.D'Aq. per il xxi secolo" sul sito de "ilmiolibro.it".
Grazie per la segnalazione. SGA
Posta un commento