martedì 2 ottobre 2012

Ancora Hobsbawm






Il secolo di Eric Hobsbawm
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di Stefano G. Azzarà, MicroMega on line, 2 ottobre 2012
Eric Hobsbawm ha attraversato nella sua non breve ed intensa vita tutti gli snodi e i luoghi più importanti di quel secolo complicato il cui studio, un giorno, gli avrebbe dato notorietà anche al di là della cerchia strettamente accademica: aveva radici nell’impero asburgico, dal quale proveniva la madre viennese, e in quello russo, nel quale era nato il padre polacco; deve i natali nella Alessandria d’Egitto del 1917 al colonialismo britannico e ha conosciuto poi l’Austria e la Germania alla vigilia della grande crisi del 1929; per passare infine – provvidenzialmente, date le sue origini ebraiche – da Berlino a Londra all’avvento del nazismo. Qui, dopo la guerra, si svolgerà il suo impegno politico nel Partito comunista britannico e più avanti nella sinistra radicale inglese e da qui matureranno intensi rapporti con i settori più avanzati del mondo universitario statunitense e un legame privilegiato con l’Italia e il Pci della tradizione storicistica e gramsciana, un interlocutore che poteva comprenderne l’attitudine in misura certamente maggiore di quanto avvenisse nel mondo anglosassone. A Londra, soprattutto, si realizzerà un’ammirevole attività di ricerca che ne ha fatto uno dei maggiori storici contemporanei, come dovranno riconoscere anche quegli intellettuali che da lui erano più distanti sul piano politico e ideologico ma che non potranno fare a meno di studiarne i lavori e di utilizzarne le categorie interpretative...


Gianpasquale Santomassimo, il manifesto | 02 Ottobre 2012  da dirittiglobali



L'opera/ COMUNISTA ATIPICO NEL SEGNO DELLA TRADIZIONE
La scoperta di Gramsci, la difesa del «Manifesto del partito comunista» perché anticipatore della globalizzazione

ARTICOLO il manifesto 2012.10.02 - 10 CULTURA da micciacorta


Il secolo lungo di Hobsbawm

È scomparso a Londra il grande storico inglese Produzione sterminata e vita avventurosa dello studioso nato in Egitto nel 1917 e divenuto uno dei massimi storici britannici e mondiali. Al centro dei suoi interessi la storia delle classi subalterne e Marx E un legame tutto particolare con Gramsci e l’Italia

di Bruno Gravagnuolo l’Unità 2.10.12

NOVANTACINQUE ANNI E UNA MOLE STERMINATA DI OPERE. CON DUE CHIODI FISSI: MARX E LE CLASSI SUBALTERNE. A volerlo raccontare «solo» in due righe, posto che sia possibile, era questo Eric Hobsbawm, il più grande storico marxista del dopoguerra. Senza dubbio uno dei più grandi storici del Novecento. È scomparso ieri mattina a Londra al Royal Free Hospital, dove era ricoverato per una malattia che non lo aveva più abbandonato. E ne ha dato la notizia al Guardian la figlia Julia, quella avuta dalla seconda moglie Marlene Schawrz, sposata in seconde nozze e dalla quale ebbe anche un altro figlio, Joshua (in prime nozze aveva sposato Muriel Seaman). Una biografia a suo modo fascinosa. Che comincia nel 1917 ad Alessandria d’Egitto, dove nasce da una famiglia ebraica, e si conclude nella capitale londinese, nella Gran Bretagna dove era approdato negli anni trenta, in fuga prima da Vienna e poi da Berlino, dopo essere rimasto orfano prima del padre e poi della madre, tra il 1929 e il 1931.

Furono lo zio paterno e la zia materna a mettere in salvo con sé medesimi Hobsbawm e la sorella, trasferendosi a Londra, dalla Berlino in mano nazista. Particolare curioso: Hobsbawm si chiamava «Obstbaum». Ma l’amministrazione inglese in Egitto sbagliò il nome, e i fedeli sudditi britannici Obstbaum si tennero l’errore. Per dire quanto intrinseco fosse, alla cultura britannica e dall’inizio, l’ebreo laico cosmopolita e poi comunista Eric Hobsbawm. A Cambridge studia storia e viene ammesso nell’esclusivo circolo intellettuale degli «Apostoli». Lì conseguirà il dottorato, con una tesi sulla Fabian Society. In seguito presta servizio nel genio militare britannico e nel 1947 ottiene l’incarico di lettore al Birbeck College di Londra. Nel dopoguerra Hobsbawm è già entrato nell’empireo degli storici marxisti di Past and Present, con i grandissimi: Cristopher Hill, storico della rivoluzione inglese, E. P. Thompson, storico sociale e della classe operaia, Victor Kierman, storico dell’imperalismo. Nel 1970 è professore ordinario, nel 1978 entra a far parte della British Academy dove insegna fino al 1982. E tra le varie infinite nomine provvisorie c’è anche quella alla Nuova Scuola per le Ricerche Sociali di Manhattan. Conclude la sua carriera da professore emerito proprio a Manhattan, dopo essere diventato Presidente del Birbeck dove ebbe il primo incarico.

Fin qui le tappe biografiche, con tre segni forti che tornano anche nelle pagine autobiografiche: la tragedia europea degli anni trenta, l’Inghilterra e il comunismo, e poi l’Italia. Sì, l’Italia dove approda negli anni 50 con un biglietto di presentazione al Pci di Sraffa, per studiare il contado e uno strano personaggio: Davide Lazzaretti. Mistico ribelle del Monte Amiata il cui nome Hobsbawm ritroverà nelle pagine di un autore che muterà la sua visione del mondo: Antonio Gramsci. Frattanto però è già partito il ciclo delle sue grandi opere, dissodati i cantieri d’archivio tra i quali era di casa. Eccone quattro decisive: Le rivoluzioni borghesi 1789-1848 (Il Saggiatore, 1963), Il trionfo della borghesia 1848-1875 (Laterza 1976), L’età degli imperi 1875-1914 (Laterza 1987), Il secolo breve (Rizzoli 2005). Formano una tetralogia che abbraccia tutta la storia contemporanea, dalla rivoluzione francese ad oggi. Ad essa vanno aggiunti i libri su banditi e ribelli, sulle forme pre-capitalistiche entro cui andavano còlte le rivolte contadine dei ceti trascinati dalla forza del modo di produzione capitalista, «forma» globale. Perciò, rivolte contadine e operaie, in un contesto mondiale ineguale, che Hobsbawm, sulla scia anche di Lenin, insegue con sguardo d’insieme. Attento a vita materiale e quotidianità. E scrisse anche una storia del Jazz, musica nera dei subalterni, firmata Frank Newton, tromba di Billie Holiday.

Ma è proprio Gramsci (anche lui cita il Jazz) che «sposta» il suo marxismo, predisposto ad assumere un certo punto di vista. Di lì viene ad Hobsbawm l’idea delle rivoluzioni come processi chimici, fluidi, variegati. Fatti di forze che si compongono e si rifrangono. Sotto onde d’urto internazionali, che si riversano nei contesti nazionali. Sotto forma di rivoluzioni «attive» e «passive». E con arretramenti, esplosioni, e avanzamenti sotterranei o improvvisi.

E qui c’è l’Hobsbawm «italiano», comunista britannico che sposa la «linea» del Pci e il suo metodo politico. Per Einaudi infatti diresse una Storia del Marxismo dove parla di «marxismi» e dove il marxismo italiano brilla per originalità e anti-fatalismo. E anche per «revisionismo». Benché, prima dell’89, Hobbsbawm «revisionista» non sia mai stato. L’ultima sua grande opera, Il Secolo breve, in questa chiave (gramsciana) è esemplare. Il sottotitolo recita: «Età degli estremi». Tra massacri di massa, tecnica, e benessere e diritti. Tra barbarie ed emancipazioni collettive. Con in mezzo «l’età d’oro» del Welfare, aiutato per Hobsbawm dal comunismo. Secolo culminato con il crollo del socialismo reale. «Breve» è il secolo, perché va dalla catastrofe imperialista del 1914 generativa dell’«Ottobre» fino all’ammaina-bandiera al Cremlino. E però l’ultimo Hobsbawm che passa da Kinnock a Blair per ripudiarli entrambi recupera in extremis la «lunghezza» del 900. Che si protrae e si riallunga ai suoi occhi. Con le guerre americane, i conflitti inter-etnici e le esplosioni generazionali arabe. Con il fondamentalismo e il trionfo del capitalismo finanziario. Le ultime parole chiave di Hobsbawm stanno nell’ultima pagina del suo ultimo libro del 2001: Come cambiare il mondo (Rizzoli). Eccole: «È ora di prendere di nuovo Marx sul serio».



Comunista a vita

L’autobiografia, la sua ultima impresa intellettuale Lo studioso ci ha consegnato un racconto vivo e lucido degli intrecci del Novecento, tra vicende personali e grande politica

di Silvio Pons l’Unità 2.10.12


ROMA L’AUTOBIOGRAFIA CHE HA COSTITUITO L’ULTIMA IMPORTANTE IMPRESA INTELLETTUALE DI ERIC HOBSBAWM («INTERESTING TIMES») È PROBABILMENTE DESTINATA, NEGLI ANNI CHE VERRANNO, AD ATTRARRE PIÙ LETTORI DELLA SUA CELEBRE NARRAZIONE DEL «SECOLO BREVE». Perché Hobsbawm ci ha consegnato un racconto vivo e lucido degli intrecci tra vicenda personale e grande politica, tra elaborazione della memoria e visione storica, che contiene una chiave di accesso al Novecento più sfaccettata e multidimensionale di una sintesi storiografica. Il suo sguardo retrospettivo può essere talvolta troppo coerente e persino indulgente, ma permette di capire motivi e implicazioni dell’appartenenza marxista e comunista anche a generazioni la cui esperienza è estranea alle passioni politiche e intellettuali del secolo scorso. Generazioni che potranno valutare quei motivi, come è giusto che sia, con un necessario distacco e forse con minore indulgenza.

Divenuto comunista nella Germania del 1932, pochi mesi prima dell’avvento di Hitler al potere, all’età di soli quindici anni, Hobsbawm rievoca un clima storico, quello dell’Europa tra le due guerre vissuto nell’epicentro della sua tragedia, e un orizzonte esistenziale segnati a fuoco dall’invasività della politica e dell’ideologia. Un nesso inscindibile che alimenta le scelte estreme compiute allora come scelte di vita, per lui come per molti altri. Impensabile l’opzione nazionalista per un giovane impregnato di identità ebraica, britannica e cosmopolita, Hobsbawm diviene «un comunista a vita» e riconosce che senza quell’identità la sua stessa narrazione autobiografica perderebbe ogni significato. È a partire da qui che il racconto di Hobsbawm si articola e si arricchisce in una lunga declinazione politica e intellettuale dell’identità comunista e marxista, una tradizione rivoluzionaria rivolta alla conquista del potere e dotata di una visione totalizzante della politica.

È costante in Hobsbawm l’accento sulla peculiarità della soggettività comunista, rispetto ad altre esperienze che si sono rappresentate come rivoluzionarie e sovversive, soprattutto quelle del ’68. Organizzazione, antiretorica, etica del sacrificio, fede nella scientificità del marxismo, internazionalismo sono, nel suo ricordo, gli ingredienti veramente essenziali dell’esperienza comunista, il suo nocciolo duro forgiato dal bolscevismo ed elevato a canone dallo stalinismo. I tratti di una setta religiosa tenuti insieme da una psicologia collettiva fondamentale: quella costituita dall’idea di combattere «una guerra onnipresente». Un’etica della durezza che comportò colpevole cecità dinanzi ai crimini di Stalin, spiegabile ma non giustificabile con l’impressione che il capitalismo liberale avesse storicamente fallito.

La maturazione intellettuale di Hobsbawm, avvenuta in prevalenza a Cambridge, non è mai slegata dalla passione politica. Anzi, l’identità antifascista gioca un ruolo decisivo negli anni della seconda guerra mondiale e del dopoguerra, anche per consolidare la lealtà all’Urss. Ma è soprattutto il peso specifico della guerra fredda ad acquistare centralità, sebbene non sempre in forma diretta. Con un caratteristico understatement, egli sostiene che la guerra fredda non interferì più di tanto nel lavoro degli storici, ma riconosce di aver operato una forma di autocensura evitando di affrontare la storia del Novecento, perché ciò lo avrebbe posto dinanzi a temi scomodi, a cominciare dalla storia dell’Urss (un’autocensura destinata a durare a lungo, e liquidata soltanto dopo la fine dell’Urss). Inevitabile osservare che la presenza dell’Urss resta ai margini dello stesso racconto autobiografico, pur incombendo in gran parte del libro. Quasi che Hobsbawm abbia trasferito nelle pagine dell’autobiografia una rimozione che caratterizzò i comunisti europei, anche se non tutti gli intellettuali marxisti, una volta cadute le mitologie sovietiche.

Come per molti altri comunisti, anche per Hobsbawm i nodi vennero al pettine nel 1956, un anno vissuto «sull’orlo dell’equivalente politico di un esaurimento nervoso collettivo». Tuttavia, né il «rapporto segreto» di Chruscev né l’invasione sovietica dell’Ungheria lo indussero ad abbandonare il partito, una scelta diversa da quella di altri intellettuali, che egli spiega alla luce della guerra fredda e del suo specifico legame generazionale con l’Urss. Di qui un’evoluzione intellettuale e politica disincantata rispetto alle nuove infatuazioni e alle mobilitazioni degli anni Sessanta, viste come un ribellismo culturale di stampo individualistico. Ma anche, si direbbe, una difficoltà a narrare la disgregazione dell’identità comunista, che proprio il ’68 doveva mettere a nudo.

Nella percezione di Hobsbawm, il collasso dell’Urss e del comunismo europeo non appare un evento liberatorio ma una componente decisiva della generale «frana» della civilizzazione.
Sarebbe davvero troppo chiedergli un punto di vista diverso. È lui stesso ad ammettere che, pur avendo abbandonato «il sogno della rivoluzione d’ottobre» dopo il 1989, non è mai stato capace di obliterarlo. In queste parole traspare un senso critico e una dignità intellettuale che costituiscono parte essenziale della sua eredità di storico.

«Il suo sogno? Fare una Storia totale»

Parla Rosario Villari suo amico per sessant’anni: «Aveva una visione universale. Nella biblioteca ho visto i suoi libri tradotti in tante lingue»

di Umberto De Giovannangeli l’Unità 2.10.12



UN’AMICIZIA DURATA OLTRE SESSANT’ANNI. Fatta di una reciproca stima professionale, di lunghe e appassionate conversazioni che spaziavano dalla cultura alla politica; un’amicizia cementata dalla condivisione di una visione «universalistica» della Storia: Eric Hobsbawm visto dal suo amico: lo storico Rosario Villari.

Professor Villari quali ricordi ha di Eric Hobsbawm?

«Lo conoscevo dal 1950. Quando mi trovavo per lavoro a Londra spesso ero suo ospite. L’ho rivisto recentemente, il suo fisico era provato, ma fino all’ultimo ha mantenuto una grande lucidità ed è sempre stato aperto alle cose del mondo. Fino all’ultimo. S’interessava molto alle cose italiane, era informato, attento, curioso, stimolante.

Vede, in Eric ho sempre apprezzato il suo modo di pensare la Storia in termini mondiali. Il suo quadro di riferimento nella riflessione storica era il mondo. Da questo punto di vista era davvero eccezionale».

Qual è, dal punto di vista una storiografia sociale, un tratto distintivo della straordinaria produzione di Eric Hobsbawm?
«Il suo interesse, sempre vivido, alla storia delle classi popolari. Più in generale, la sua caratteristica peculiare era quella di analizzare i singoli avvenimenti, le questioni particolari, in un orizzonte sempre molto ampio. In questo senso, Hobsbawm si può definire lo storico del Novecento che ha dato una impronta universale al suo lavoro. E questa universalità della sua visione ha ricevuto un riconoscimento generale: dal presidente del Brasile a Giorgio Napolitano, che è stato un suo amico personale: ovunque Hobsbawm ha ricevuto un’accoglienza culturale e civile veramente straordinaria. Credo che sia stato l’autore più tradotto tra gli storici del Novecento. Nel suo studio, a casa sua, ho visto una quantità eccezionale di suoi libri tradotti nelle lingue più diverse». Tra le sue opere più conosciute al mondo c’è la «Storia del marxismo», da lui diretta. Cosa resta di questa storia nel Terzo millennio?
«Hobsbawm ha sempre concepito la storia in primo luogo come storia sociale, il che vuol dire che aveva interessi molto vari che spaziavano dall’economia alla sociologia, e ha investito campi amplissimi delle attività umane. La sua curiosità umana e intellettuale era “insaziabile”. Tra l’altro, ha scritto anche un libro sulla storia del jazz. Spesso avevamo parlato di quanto sarebbe stato importante fare una “Storia totale”. Ma questa discussione finiva sempre con la constatazione dell’impossibilità di una impresa del genere. Ma questa esigenza resta viva per la ricerca. Un “sogno” che Eric ha accarezzato e che spero un giorno possa essere realizzato anche in sua memoria».
Eric Hobsbawm e la sinistra. Se dovesse sintetizzare in un concetto, in una parola chiave, l’essere di sinistra di Hobsbawm...
«È un discorso molto complesso, dalle varie sfaccettature...Quello che posso dire è che per lui l’idea fondamentale, sul piano politico, era la conquista dell’eguaglianza in senso generale, a cominciare dai diritti sociali».
Questa nostra conversazione ha intrecciato un piano «professionale» alla testimonianza personale. E in ultimo vorrei che tornassimo su questo secondo aspetto. Cosa ricorda di questa amicizia, professor Villari?
«I ricordi si accavallano in questo momento di dolore. Ricordo l’ultima volta che ci siamo incontrati, nel maggio scorso a Londra. Eric voleva sapere della situazione in Italia, e non solo nei suoi complessi aspetti politici. Poi abbiamo parlato del mio lavoro, era da poco uscito il mio ultimo libro sul ‘600. Poi mi ha chiesto quali progetti avevo. Allora, gli confidai che avrei voluto raccogliere in un libro la mia esperienza culturale, un percorso di vita. Gli dissi che c’era la possibilità di farlo attraverso un libro-intervista con un giovane ricercatore. Gli chiesi un consiglio. Lui, come al solito, non si sotrasse. E sorridendo mi ha detto: “Rosario, o lo fai così o non lo farai”. Quelle parole furono il nostro commiato».

Nessuna salvezza al di fuori della Politica

Come costruire una società giusta prescindendo dalla natura e da Dio

di Giovanni De Luna La Stampa 2.10.12



«Invenzione della tradizione», «gente che lavora», «gente non comune«, «secolo breve»; sono titoli di alcuni libri di Hobsbawm, ma soprattutto sono concetti diventati pilastri della storiografia contemporanea. Tutti insieme ci aiutano a capire i tratti profondi del nostro tempo. Perché questa è la grandezza di Hobsbawm: con il suo lavoro ha disegnato una sorta di mappa che ci consente di percorrere gli intricati itinerari della storia dell’umanità negli ultimi due secoli.

Prendiamo L’invenzione della tradizione. Nel libro del 1983, curato insieme con Terence Ranger, Hobsbawm si confrontava con la «nazione», un tema ritornato di grande attualità in questi anni di declino della sovranità degli Stati nazionali. «Per ”tradizione inventata”», scriveva nell’introduzione, «si intende un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità con il passato». Dietro questa definizione c’è la negazione di ogni fondamento etnico o biologico come base dell’esistenza della nazione, insistendo, piuttosto, su un fondo comune di uniformità di comportamenti e di valori, su una omogeneità di rivendicazioni e di interessi su cui si innestano le appartenenze simboliche e l’intero repertorio culturale (inni, bandiere, cerimonie pubbliche, eroi e monumenti) che confluisce, appunto, nell’«invenzione della tradizione».

La nazione è in questo senso una costruzione concettuale, una incessante invenzione di simboli e di memorie, e lo Stato ha continuamente bisogno di strumenti e metodi autocelebrativi per darsi significato e per diffondere nella società il senso di appartenenza caratterizzato dalla selezione di quanto si eredita dal patrimonio politico e culturale precedente e dall’invenzione di nuovi miti che devono essere immediatamente riconoscibili dalla maggioranza della popolazione, la quale deve essere coinvolta nel nuovo «sentimento nazionale».

Inventate, e quindi false, artificiose, cariche di incongruenze (che è compito degli storici smascherare), le «tradizioni» a cui si riferisce Hobsbawm sono tuttavia dinamiche, costruite attraverso un meccanismo creativo che restituisce interamente alla Politica e alle istituzioni la capacità di proporre riti e simboli che diventano un potente fattore spirituale di integrazione sociale. Una Politica che non è in grado di produrre simboli si riduce alla semplice amministrazione tecnica dell’esistente; è una Politica esangue, senza anima, destinata a soccombere soprattutto in quelle fasi di discontinuità e di rottura in cui si è sollecitati non a gestire le vecchie tradizioni inventate da altri, ma a produrne di nuove, in grado di confrontarsi efficacemente con le rotture che attraversano il sistema politico, garantendo la continuità dei legami sociali.

C’è una forte passione civile dietro queste pagine. Molte tradizioni inventate sono patacche: si pensi al caso italiano della Lega Nord e alla sua «invenzione» delle ampolle, di Pontida, delle ascendenze celtiche; un’accozzaglia di simboli raccolta saccheggiando le guide turistiche delle Pro Loco prealpine. Ma tutto questo non esime una classe politica dalla necessità di legittimarsi anche sul piano simbolico, proponendo nello spazio pubblico della cittadinanza valori e appartenenze non legate al solo fatto di condividere tutti gli stessi interessi.
Hobsbawm credeva molto nella politica. Il suo marxismo, ribadito fino all’ultimo ( Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, Rizzoli, 2011) era in fondo questo: una grande fiducia nella capacità della politica e delle sue istituzioni di costruire una società più giusta prescindendo dalla natura e da Dio, proponendo all’uomo un nuovo ordine artificiale in cui riassorbire le ferite delle contese religiose e quelle della sua ferinità «naturale». Scrivendo del Novecento, il suo «secolo breve» ( Il secolo breve, Rizzoli, 1995), Hobsbawm ha scritto essenzialmente di questa grande illusione e soprattutto di se stesso.

di Guido Crainz Repubblica 2.10.12 da dirittiglobali

L’intervista inedita

“Perché essere obiettivi è una utopia”

di Enrico Franceschini  Repubblica 2.10.12

In questo colloquio, il pensatore spiegava le difficoltà del mestiere e di come fosse arduo fare il punto sul concetto di Europa: siamo tutti condizionati



Professor Eric Hobsbawm, pensa sia possibile scrivere una storia comune dell’Europa del ventesimo secolo, non dal punto di vista di una nazione o di uno storico, bensì quale storia

«Innanzi tutto siamo troppo vicini al ventesimo secolo per poter avere un accordo generale fra i paesi europei sugli avvenimenti che lo hanno caratterizzato. L’Europa del Novecento è stata in larga misura un continente così diviso, politicamente ed ideologicamente, che sarebbe molto difficile trovare un terreno comune per raccontarla. Ma non dico che ciò sarebbe impossibile. Dico che non sarebbe affatto semplice».

È stato Günter Grass a proporre qualche anno fa agli storici un progetto di questo genere. A dispetto delle difficoltà, lei sarebbe d’accordo con l’idea?

«Sì, sono d’accordo, simpatizzo con la sua esortazione e credo di capire cosa intendesse. Penso che Grass abbia voluto esortare a dare un taglio netto alle ricostruzioni storiche interamente nazionalistiche, oppure interamente occidentali

od orientali. L’esigenza di superare questa divisione tra la storia vista da est e la storia vista da ovest è legittima, realistica, e io la appoggio in pieno. Però non sono sicuro che sia possibile tradurla nella pratica in un libro di storia».
Dove comincia e dove finisce, il concetto di Europa?
«Il concetto odierno di Europa è più vasto dei paesi che costituivano l’Europa nel 1914. Più vasto, anche, dei paesi che oggi sono membri dell’Unione europea. La Russia, naturalmente, dovrebbe farne parte. Qualche storico, d’altra parte, potrebbe obiettare che un simile concetto è ingannevole, e che l’Europa è soltanto un’espressione geografica».
Lei ha sottolineato le differenze ideologiche che sopravvivono nel continente. Ma quali sono invece i legami più stretti, le caratteristiche più comuni della storia
«La cultura, la scienza, la tecnologia, sono tutti campi in cui è esistito un senso comune di appartenenza. Ma anche in questo campo possono nascere divergenze. Anni fa l’Unesco provò a compilare una storia comune del mondo: fu un fiasco totale, perché ogni nazione della terra pretendeva di avere uguale spazio, uguali meriti, uguali riconoscimenti».
Ma uno storico non dovrebbe raccontare la storia in modo obiettivo?
«In teoria sì, ma esistono innegabili condizionamenti. Perciò dico che l’idea di una storia comune mi piace. Ma se si può scrivere davvero, una simile storia d’Europa, non lo so».
Anche lei pensa di aver subito “innegabili condizionamenti”?
«Sono stato condizionato dall’epoca in cui ho vissuto, segnata dalla Seconda guerra mondiale, dalle grandi rivoluzioni, da un mondo diviso dalla guerra fredda, dalle lotte operaie e sindacali per rendere più umano il lavoro, tutti fattori che hanno inevitabilmente influito sul mio pensiero e sulle mie opere».
Hanno condizionato anche il suo giudizio positivo del comunismo?
«È inevitabile. Lo storico totalmente obiettivo è un’utopia, è sempre condizionato nei suoi giudizi, sia che riguardino un passato lontano, sia che tocchino un passato più vicino».



Addio Hobsbawm, il marxista che si batté per la libertà intellettuale
Massimiliano Panarari  Europa 2 ottobre 2012

AVEVA 95 ANNI. L'ANNUNCIO DELLA FIGLIA JULIA 


È morto a Londra dopo una lunga malattia





Divenne famoso per l’efficacia della formula con cui descrisse il ’900. Importanti anche le opere sul banditismo 

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