Il secolo di Eric Hobsbawm
Eric Hobsbawm ha attraversato nella sua non breve ed intensa vita tutti gli snodi e i luoghi più importanti di quel secolo complicato il cui studio, un giorno, gli avrebbe dato notorietà anche al di là della cerchia strettamente accademica: aveva radici nell’impero asburgico, dal quale proveniva la madre viennese, e in quello russo, nel quale era nato il padre polacco; deve i natali nella Alessandria d’Egitto del 1917 al colonialismo britannico e ha conosciuto poi l’Austria e la Germania alla vigilia della grande crisi del 1929; per passare infine – provvidenzialmente, date le sue origini ebraiche – da Berlino a Londra all’avvento del nazismo. Qui, dopo la guerra, si svolgerà il suo impegno politico nel Partito comunista britannico e più avanti nella sinistra radicale inglese e da qui matureranno intensi rapporti con i settori più avanzati del mondo universitario statunitense e un legame privilegiato con l’Italia e il Pci della tradizione storicistica e gramsciana, un interlocutore che poteva comprenderne l’attitudine in misura certamente maggiore di quanto avvenisse nel mondo anglosassone. A Londra, soprattutto, si realizzerà un’ammirevole attività di ricerca che ne ha fatto uno dei maggiori storici contemporanei, come dovranno riconoscere anche quegli intellettuali che da lui erano più distanti sul piano politico e ideologico ma che non potranno fare a meno di studiarne i lavori e di utilizzarne le categorie interpretative...
L'opera/ COMUNISTA ATIPICO NEL SEGNO DELLA TRADIZIONE
La scoperta di Gramsci, la difesa del «Manifesto del partito comunista» perché anticipatore della globalizzazione
ARTICOLO il manifesto 2012.10.02 - 10 CULTURA da micciacorta
Il secolo lungo di Hobsbawm
È scomparso a Londra il grande storico inglese Produzione
sterminata e vita avventurosa dello studioso nato in Egitto nel 1917 e
divenuto uno dei massimi storici britannici e mondiali. Al centro dei
suoi interessi la storia delle classi subalterne e Marx E un legame tutto particolare con Gramsci e l’Italia
di Bruno Gravagnuolo l’Unità 2.10.12
NOVANTACINQUE ANNI E UNA MOLE STERMINATA DI OPERE. CON DUE CHIODI FISSI:
MARX E LE CLASSI SUBALTERNE. A volerlo raccontare «solo» in due righe,
posto che sia possibile, era questo Eric Hobsbawm, il più grande
storico marxista del dopoguerra. Senza dubbio uno dei più grandi
storici del Novecento. È scomparso ieri mattina a Londra al Royal Free
Hospital, dove era ricoverato per una malattia che non lo aveva più
abbandonato. E ne ha dato la notizia al Guardian la figlia Julia, quella
avuta dalla seconda moglie Marlene Schawrz, sposata in seconde nozze e
dalla quale ebbe anche un altro figlio, Joshua (in prime nozze aveva
sposato Muriel Seaman). Una biografia a suo modo fascinosa. Che comincia
nel 1917 ad Alessandria d’Egitto, dove nasce da una famiglia ebraica, e
si conclude nella capitale londinese, nella Gran Bretagna dove era
approdato negli anni trenta, in fuga prima da Vienna e poi da Berlino,
dopo essere rimasto orfano prima del padre e poi della madre, tra il
1929 e il 1931.
Furono lo zio paterno e la zia materna a mettere in
salvo con sé medesimi Hobsbawm e la sorella, trasferendosi a Londra,
dalla Berlino in mano nazista. Particolare curioso: Hobsbawm si chiamava
«Obstbaum». Ma l’amministrazione inglese in Egitto sbagliò il nome, e i
fedeli sudditi britannici Obstbaum si tennero l’errore. Per dire quanto
intrinseco fosse, alla cultura britannica e dall’inizio, l’ebreo laico
cosmopolita e poi comunista Eric Hobsbawm. A Cambridge studia storia e
viene ammesso nell’esclusivo circolo intellettuale degli «Apostoli». Lì
conseguirà il dottorato, con una tesi sulla Fabian Society. In seguito
presta servizio nel genio militare britannico e nel 1947 ottiene
l’incarico di lettore al Birbeck College di Londra. Nel dopoguerra
Hobsbawm è già entrato nell’empireo degli storici marxisti di Past and
Present, con i grandissimi: Cristopher Hill, storico della rivoluzione
inglese, E. P. Thompson, storico sociale e della classe operaia, Victor
Kierman, storico dell’imperalismo. Nel 1970 è professore ordinario, nel
1978 entra a far parte della British Academy dove insegna fino al 1982.
E tra le varie infinite nomine provvisorie c’è anche quella alla Nuova
Scuola per le Ricerche Sociali di Manhattan. Conclude la sua carriera
da professore emerito proprio a Manhattan, dopo essere diventato
Presidente del Birbeck dove ebbe il primo incarico.
Fin qui le tappe
biografiche, con tre segni forti che tornano anche nelle pagine
autobiografiche: la tragedia europea degli anni trenta, l’Inghilterra e
il comunismo, e poi l’Italia. Sì, l’Italia dove approda negli anni 50
con un biglietto di presentazione al Pci di Sraffa, per studiare il
contado e uno strano personaggio: Davide Lazzaretti. Mistico ribelle del
Monte Amiata il cui nome Hobsbawm ritroverà nelle pagine di un autore
che muterà la sua visione del mondo: Antonio Gramsci. Frattanto però
è già partito il ciclo delle sue grandi opere, dissodati i cantieri
d’archivio tra i quali era di casa. Eccone quattro decisive: Le
rivoluzioni borghesi 1789-1848 (Il Saggiatore, 1963), Il trionfo della
borghesia 1848-1875 (Laterza 1976), L’età degli imperi 1875-1914
(Laterza 1987), Il secolo breve (Rizzoli 2005). Formano una tetralogia
che abbraccia tutta la storia contemporanea, dalla rivoluzione francese
ad oggi. Ad essa vanno aggiunti i libri su banditi e ribelli, sulle
forme pre-capitalistiche entro cui andavano còlte le rivolte contadine
dei ceti trascinati dalla forza del modo di produzione capitalista,
«forma» globale. Perciò, rivolte contadine e operaie, in un contesto
mondiale ineguale, che Hobsbawm, sulla scia anche di Lenin, insegue con
sguardo d’insieme. Attento a vita materiale e quotidianità. E scrisse
anche una storia del Jazz, musica nera dei subalterni, firmata Frank
Newton, tromba di Billie Holiday.
Ma è proprio Gramsci (anche lui
cita il Jazz) che «sposta» il suo marxismo, predisposto ad assumere un
certo punto di vista. Di lì viene ad Hobsbawm l’idea delle rivoluzioni
come processi chimici, fluidi, variegati. Fatti di forze che si
compongono e si rifrangono. Sotto onde d’urto internazionali, che si
riversano nei contesti nazionali. Sotto forma di rivoluzioni «attive» e
«passive». E con arretramenti, esplosioni, e avanzamenti sotterranei o
improvvisi.
E qui c’è l’Hobsbawm «italiano», comunista britannico
che sposa la «linea» del Pci e il suo metodo politico. Per Einaudi
infatti diresse una Storia del Marxismo dove parla di «marxismi» e dove
il marxismo italiano brilla per originalità e anti-fatalismo. E anche
per «revisionismo». Benché, prima dell’89, Hobbsbawm «revisionista» non
sia mai stato. L’ultima sua grande opera, Il Secolo breve, in questa
chiave (gramsciana) è esemplare. Il sottotitolo recita: «Età degli
estremi». Tra massacri di massa, tecnica, e benessere e diritti. Tra
barbarie ed emancipazioni collettive. Con in mezzo «l’età d’oro» del
Welfare, aiutato per Hobsbawm dal comunismo. Secolo culminato con il
crollo del socialismo reale. «Breve» è il secolo, perché va dalla
catastrofe imperialista del 1914 generativa dell’«Ottobre» fino
all’ammaina-bandiera al Cremlino. E però l’ultimo Hobsbawm che passa da
Kinnock a Blair per ripudiarli entrambi recupera in extremis la
«lunghezza» del 900. Che si protrae e si riallunga ai suoi occhi. Con le
guerre americane, i conflitti inter-etnici e le esplosioni
generazionali arabe. Con il fondamentalismo e il trionfo del capitalismo
finanziario. Le ultime parole chiave di Hobsbawm stanno nell’ultima
pagina del suo ultimo libro del 2001: Come cambiare il mondo (Rizzoli).
Eccole: «È ora di prendere di nuovo Marx sul serio».
Comunista a vita
L’autobiografia, la sua ultima impresa intellettuale Lo studioso ci ha consegnato un racconto vivo e lucido degli intrecci del Novecento, tra vicende personali e grande politica
di Silvio Pons l’Unità 2.10.12
ROMA L’AUTOBIOGRAFIA CHE HA COSTITUITO L’ULTIMA IMPORTANTE IMPRESA
INTELLETTUALE DI ERIC HOBSBAWM («INTERESTING TIMES») È PROBABILMENTE
DESTINATA, NEGLI ANNI CHE VERRANNO, AD ATTRARRE PIÙ LETTORI DELLA SUA
CELEBRE NARRAZIONE DEL «SECOLO BREVE». Perché Hobsbawm ci ha consegnato
un racconto vivo e lucido degli intrecci tra vicenda personale e grande
politica, tra elaborazione della memoria e visione storica, che contiene
una chiave di accesso al Novecento più sfaccettata e multidimensionale
di una sintesi storiografica. Il suo sguardo retrospettivo può essere
talvolta troppo coerente e persino indulgente, ma permette di capire
motivi e implicazioni dell’appartenenza marxista e comunista anche a
generazioni la cui esperienza è estranea alle passioni politiche e
intellettuali del secolo scorso. Generazioni che potranno valutare quei
motivi, come è giusto che sia, con un necessario distacco e forse con
minore indulgenza.
Divenuto comunista nella Germania del 1932, pochi
mesi prima dell’avvento di Hitler al potere, all’età di soli quindici
anni, Hobsbawm rievoca un clima storico, quello dell’Europa tra le due
guerre vissuto nell’epicentro della sua tragedia, e un orizzonte
esistenziale segnati a fuoco dall’invasività della politica e
dell’ideologia. Un nesso inscindibile che alimenta le scelte estreme
compiute allora come scelte di vita, per lui come per molti altri.
Impensabile l’opzione nazionalista per un giovane impregnato di identità
ebraica, britannica e cosmopolita, Hobsbawm diviene «un comunista a
vita» e riconosce che senza quell’identità la sua stessa narrazione
autobiografica perderebbe ogni significato. È a partire da qui che il
racconto di Hobsbawm si articola e si arricchisce in una lunga
declinazione politica e intellettuale dell’identità comunista e
marxista, una tradizione rivoluzionaria rivolta alla conquista del
potere e dotata di una visione totalizzante della politica.
È
costante in Hobsbawm l’accento sulla peculiarità della soggettività
comunista, rispetto ad altre esperienze che si sono rappresentate come
rivoluzionarie e sovversive, soprattutto quelle del ’68. Organizzazione,
antiretorica, etica del sacrificio, fede nella scientificità del
marxismo, internazionalismo sono, nel suo ricordo, gli ingredienti
veramente essenziali dell’esperienza comunista, il suo nocciolo duro
forgiato dal bolscevismo ed elevato a canone dallo stalinismo. I tratti
di una setta religiosa tenuti insieme da una psicologia collettiva
fondamentale: quella costituita dall’idea di combattere «una guerra
onnipresente». Un’etica della durezza che comportò colpevole cecità
dinanzi ai crimini di Stalin, spiegabile ma non giustificabile con
l’impressione che il capitalismo liberale avesse storicamente fallito.
La
maturazione intellettuale di Hobsbawm, avvenuta in prevalenza a
Cambridge, non è mai slegata dalla passione politica. Anzi, l’identità
antifascista gioca un ruolo decisivo negli anni della seconda guerra
mondiale e del dopoguerra, anche per consolidare la lealtà all’Urss. Ma è
soprattutto il peso specifico della guerra fredda ad acquistare
centralità, sebbene non sempre in forma diretta. Con un caratteristico
understatement, egli sostiene che la guerra fredda non interferì più di
tanto nel lavoro degli storici, ma riconosce di aver operato una forma
di autocensura evitando di affrontare la storia del Novecento, perché
ciò lo avrebbe posto dinanzi a temi scomodi, a cominciare dalla storia
dell’Urss (un’autocensura destinata a durare a lungo, e liquidata
soltanto dopo la fine dell’Urss). Inevitabile osservare che la presenza
dell’Urss resta ai margini dello stesso racconto autobiografico, pur
incombendo in gran parte del libro. Quasi che Hobsbawm abbia trasferito
nelle pagine dell’autobiografia una rimozione che caratterizzò i
comunisti europei, anche se non tutti gli intellettuali marxisti, una
volta cadute le mitologie sovietiche.
Come per molti altri comunisti,
anche per Hobsbawm i nodi vennero al pettine nel 1956, un anno vissuto
«sull’orlo dell’equivalente politico di un esaurimento nervoso
collettivo». Tuttavia, né il «rapporto segreto» di Chruscev né
l’invasione sovietica dell’Ungheria lo indussero ad abbandonare il
partito, una scelta diversa da quella di altri intellettuali, che egli
spiega alla luce della guerra fredda e del suo specifico legame
generazionale con l’Urss. Di qui un’evoluzione intellettuale e politica
disincantata rispetto alle nuove infatuazioni e alle mobilitazioni degli
anni Sessanta, viste come un ribellismo culturale di stampo
individualistico. Ma anche, si direbbe, una difficoltà a narrare la
disgregazione dell’identità comunista, che proprio il ’68 doveva mettere
a nudo.
Nella percezione di Hobsbawm, il collasso dell’Urss e del
comunismo europeo non appare un evento liberatorio ma una componente
decisiva della generale «frana» della civilizzazione.
Sarebbe davvero
troppo chiedergli un punto di vista diverso. È lui stesso ad ammettere
che, pur avendo abbandonato «il sogno della rivoluzione d’ottobre» dopo
il 1989, non è mai stato capace di obliterarlo. In queste parole
traspare un senso critico e una dignità intellettuale che costituiscono
parte essenziale della sua eredità di storico.
«Il suo sogno? Fare una Storia totale»
Parla
Rosario Villari suo amico per sessant’anni: «Aveva una visione
universale. Nella biblioteca ho visto i suoi libri tradotti in tante
lingue»
di Umberto De Giovannangeli l’Unità 2.10.12
UN’AMICIZIA DURATA OLTRE SESSANT’ANNI. Fatta di una reciproca stima
professionale, di lunghe e appassionate conversazioni che spaziavano
dalla cultura alla politica; un’amicizia cementata dalla condivisione di
una visione «universalistica» della Storia: Eric Hobsbawm visto dal suo
amico: lo storico Rosario Villari.
Professor Villari quali ricordi ha di Eric Hobsbawm?
«Lo
conoscevo dal 1950. Quando mi trovavo per lavoro a Londra spesso ero
suo ospite. L’ho rivisto recentemente, il suo fisico era provato, ma
fino all’ultimo ha mantenuto una grande lucidità ed è sempre stato
aperto alle cose del mondo. Fino all’ultimo. S’interessava molto alle
cose italiane, era informato, attento, curioso, stimolante.
Vede, in
Eric ho sempre apprezzato il suo modo di pensare la Storia in termini
mondiali. Il suo quadro di riferimento nella riflessione storica era il
mondo. Da questo punto di vista era davvero eccezionale».
Qual è, dal punto di vista una storiografia sociale, un tratto distintivo della straordinaria produzione di Eric Hobsbawm?
«Il
suo interesse, sempre vivido, alla storia delle classi popolari. Più in
generale, la sua caratteristica peculiare era quella di analizzare i
singoli avvenimenti, le questioni particolari, in un orizzonte sempre
molto ampio. In questo senso, Hobsbawm si può definire lo storico del
Novecento che ha dato una impronta universale al suo lavoro. E questa
universalità della sua visione ha ricevuto un riconoscimento generale:
dal presidente del Brasile a Giorgio Napolitano, che è stato un suo
amico personale: ovunque Hobsbawm ha ricevuto un’accoglienza culturale e
civile veramente straordinaria. Credo che sia stato l’autore più
tradotto tra gli storici del Novecento. Nel suo studio, a casa sua, ho
visto una quantità eccezionale di suoi libri tradotti nelle lingue più
diverse». Tra le sue opere più conosciute al mondo c’è la «Storia del
marxismo», da lui diretta. Cosa resta di questa storia nel Terzo
millennio?
«Hobsbawm ha sempre concepito la storia in primo luogo
come storia sociale, il che vuol dire che aveva interessi molto vari che
spaziavano dall’economia alla sociologia, e ha investito campi
amplissimi delle attività umane. La sua curiosità umana e intellettuale
era “insaziabile”. Tra l’altro, ha scritto anche un libro sulla storia
del jazz. Spesso avevamo parlato di quanto sarebbe stato importante fare
una “Storia totale”. Ma questa discussione finiva sempre con la
constatazione dell’impossibilità di una impresa del genere. Ma questa
esigenza resta viva per la ricerca. Un “sogno” che Eric ha accarezzato e
che spero un giorno possa essere realizzato anche in sua memoria».
Eric Hobsbawm e la sinistra. Se dovesse sintetizzare in un concetto, in una parola chiave, l’essere di sinistra di Hobsbawm...
«È
un discorso molto complesso, dalle varie sfaccettature...Quello che
posso dire è che per lui l’idea fondamentale, sul piano politico, era la
conquista dell’eguaglianza in senso generale, a cominciare dai diritti
sociali».
Questa nostra conversazione ha intrecciato un piano
«professionale» alla testimonianza personale. E in ultimo vorrei che
tornassimo su questo secondo aspetto. Cosa ricorda di questa amicizia,
professor Villari?
«I ricordi si accavallano in questo momento di
dolore. Ricordo l’ultima volta che ci siamo incontrati, nel maggio
scorso a Londra. Eric voleva sapere della situazione in Italia, e non
solo nei suoi complessi aspetti politici. Poi abbiamo parlato del mio
lavoro, era da poco uscito il mio ultimo libro sul ‘600. Poi mi ha
chiesto quali progetti avevo. Allora, gli confidai che avrei voluto
raccogliere in un libro la mia esperienza culturale, un percorso di
vita. Gli dissi che c’era la possibilità di farlo attraverso un
libro-intervista con un giovane ricercatore. Gli chiesi un consiglio.
Lui, come al solito, non si sotrasse. E sorridendo mi ha detto:
“Rosario, o lo fai così o non lo farai”. Quelle parole furono il nostro
commiato».
Nessuna salvezza al di fuori della Politica
Come costruire una società giusta prescindendo dalla natura e da Dio
di Giovanni De Luna La Stampa 2.10.12
«Invenzione della tradizione», «gente che lavora», «gente non comune«,
«secolo breve»; sono titoli di alcuni libri di Hobsbawm, ma soprattutto
sono concetti diventati pilastri della storiografia contemporanea. Tutti
insieme ci aiutano a capire i tratti profondi del nostro tempo. Perché
questa è la grandezza di Hobsbawm: con il suo lavoro ha disegnato una
sorta di mappa che ci consente di percorrere gli intricati itinerari
della storia dell’umanità negli ultimi due secoli.
Prendiamo
L’invenzione della tradizione. Nel libro del 1983, curato insieme con
Terence Ranger, Hobsbawm si confrontava con la «nazione», un tema
ritornato di grande attualità in questi anni di declino della sovranità
degli Stati nazionali. «Per ”tradizione inventata”», scriveva
nell’introduzione, «si intende un insieme di pratiche, in genere
regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una
natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati
valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente
implicita la continuità con il passato». Dietro questa definizione c’è
la negazione di ogni fondamento etnico o biologico come base
dell’esistenza della nazione, insistendo, piuttosto, su un fondo comune
di uniformità di comportamenti e di valori, su una omogeneità di
rivendicazioni e di interessi su cui si innestano le appartenenze
simboliche e l’intero repertorio culturale (inni, bandiere, cerimonie
pubbliche, eroi e monumenti) che confluisce, appunto, nell’«invenzione
della tradizione».
La nazione è in questo senso una costruzione
concettuale, una incessante invenzione di simboli e di memorie, e lo
Stato ha continuamente bisogno di strumenti e metodi autocelebrativi per
darsi significato e per diffondere nella società il senso di
appartenenza caratterizzato dalla selezione di quanto si eredita dal
patrimonio politico e culturale precedente e dall’invenzione di nuovi
miti che devono essere immediatamente riconoscibili dalla maggioranza
della popolazione, la quale deve essere coinvolta nel nuovo «sentimento
nazionale».
Inventate, e quindi false, artificiose, cariche di
incongruenze (che è compito degli storici smascherare), le «tradizioni» a
cui si riferisce Hobsbawm sono tuttavia dinamiche, costruite attraverso
un meccanismo creativo che restituisce interamente alla Politica e alle
istituzioni la capacità di proporre riti e simboli che diventano un
potente fattore spirituale di integrazione sociale. Una Politica che non
è in grado di produrre simboli si riduce alla semplice amministrazione
tecnica dell’esistente; è una Politica esangue, senza anima, destinata a
soccombere soprattutto in quelle fasi di discontinuità e di rottura in
cui si è sollecitati non a gestire le vecchie tradizioni inventate da
altri, ma a produrne di nuove, in grado di confrontarsi efficacemente
con le rotture che attraversano il sistema politico, garantendo la
continuità dei legami sociali.
C’è una forte passione civile dietro
queste pagine. Molte tradizioni inventate sono patacche: si pensi al
caso italiano della Lega Nord e alla sua «invenzione» delle ampolle, di
Pontida, delle ascendenze celtiche; un’accozzaglia di simboli raccolta
saccheggiando le guide turistiche delle Pro Loco prealpine. Ma tutto
questo non esime una classe politica dalla necessità di legittimarsi
anche sul piano simbolico, proponendo nello spazio pubblico della
cittadinanza valori e appartenenze non legate al solo fatto di
condividere tutti gli stessi interessi.
Hobsbawm credeva molto nella
politica. Il suo marxismo, ribadito fino all’ultimo ( Come cambiare il
mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, Rizzoli, 2011) era in
fondo questo: una grande fiducia nella capacità della politica e delle
sue istituzioni di costruire una società più giusta prescindendo dalla
natura e da Dio, proponendo all’uomo un nuovo ordine artificiale in cui
riassorbire le ferite delle contese religiose e quelle della sua
ferinità «naturale». Scrivendo del Novecento, il suo «secolo breve» ( Il
secolo breve, Rizzoli, 1995), Hobsbawm ha scritto essenzialmente di
questa grande illusione e soprattutto di se stesso.
di Guido Crainz Repubblica 2.10.12 da dirittiglobali
L’intervista inedita
“Perché essere obiettivi è una utopia”
di Enrico Franceschini Repubblica 2.10.12
In questo colloquio, il pensatore spiegava le difficoltà del mestiere e
di come fosse arduo fare il punto sul concetto di Europa: siamo tutti
condizionati
Professor Eric Hobsbawm, pensa sia possibile
scrivere una storia comune dell’Europa del ventesimo secolo, non dal
punto di vista di una nazione o di uno storico, bensì quale storia
«Innanzi
tutto siamo troppo vicini al ventesimo secolo per poter avere un
accordo generale fra i paesi europei sugli avvenimenti che lo hanno
caratterizzato. L’Europa del Novecento è stata in larga misura un
continente così diviso, politicamente ed ideologicamente, che sarebbe
molto difficile trovare un terreno comune per raccontarla. Ma non dico
che ciò sarebbe impossibile. Dico che non sarebbe affatto semplice».
È
stato Günter Grass a proporre qualche anno fa agli storici un progetto
di questo genere. A dispetto delle difficoltà, lei sarebbe d’accordo con
l’idea?
«Sì, sono d’accordo, simpatizzo con la sua esortazione e
credo di capire cosa intendesse. Penso che Grass abbia voluto esortare a
dare un taglio netto alle ricostruzioni storiche interamente
nazionalistiche, oppure interamente occidentali
od orientali.
L’esigenza di superare questa divisione tra la storia vista da est e la
storia vista da ovest è legittima, realistica, e io la appoggio in
pieno. Però non sono sicuro che sia possibile tradurla nella pratica in
un libro di storia».
Dove comincia e dove finisce, il concetto di Europa?
«Il
concetto odierno di Europa è più vasto dei paesi che costituivano
l’Europa nel 1914. Più vasto, anche, dei paesi che oggi sono membri
dell’Unione europea. La Russia, naturalmente, dovrebbe farne parte.
Qualche storico, d’altra parte, potrebbe obiettare che un simile
concetto è ingannevole, e che l’Europa è soltanto un’espressione
geografica».
Lei ha sottolineato le differenze ideologiche che
sopravvivono nel continente. Ma quali sono invece i legami più stretti,
le caratteristiche più comuni della storia
«La cultura, la scienza,
la tecnologia, sono tutti campi in cui è esistito un senso comune di
appartenenza. Ma anche in questo campo possono nascere divergenze. Anni
fa l’Unesco provò a compilare una storia comune del mondo: fu un fiasco
totale, perché ogni nazione della terra pretendeva di avere uguale
spazio, uguali meriti, uguali riconoscimenti».
Ma uno storico non dovrebbe raccontare la storia in modo obiettivo?
«In
teoria sì, ma esistono innegabili condizionamenti. Perciò dico che
l’idea di una storia comune mi piace. Ma se si può scrivere davvero, una
simile storia d’Europa, non lo so».
Anche lei pensa di aver subito “innegabili condizionamenti”?
«Sono
stato condizionato dall’epoca in cui ho vissuto, segnata dalla Seconda
guerra mondiale, dalle grandi rivoluzioni, da un mondo diviso dalla
guerra fredda, dalle lotte operaie e sindacali per rendere più umano il
lavoro, tutti fattori che hanno inevitabilmente influito sul mio
pensiero e sulle mie opere».
Hanno condizionato anche il suo giudizio positivo del comunismo?
«È
inevitabile. Lo storico totalmente obiettivo è un’utopia, è sempre
condizionato nei suoi giudizi, sia che riguardino un passato lontano,
sia che tocchino un passato più vicino».
Massimiliano Panarari Europa 2 ottobre 2012
AVEVA 95 ANNI. L'ANNUNCIO DELLA FIGLIA JULIA
È morto a Londra dopo una lunga malattia
Divenne famoso per l’efficacia della formula con cui descrisse il ’900. Importanti anche le opere sul banditismo
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