lunedì 26 novembre 2012
Quando le forze del mondo del lavoro riusciranno nuovamente a ricomporre una classe sociale, nulla potrà più arrestarle
Risvolto
Il precariato globale ci sta suonando la sveglia. Il
mondo è percorso dalla paura e dalla collera, e tuttavia intendere
questo fenomeno esclusivamente come condizione di sofferenza è
radicalmente sbagliato. Molti di coloro che vi sono trascinati cercano
qualcosa di meglio rispetto a quanto offerto dalla società industriale e
dal sindacalismo del Novecento.
In molti paesi, almeno un quarto della popolazione vive
oggi in condizioni di precarietà. Dovuta non solo a lavori instabili,
scarsamente (o per nulla) protetti dal welfare, ma anche al venir meno
di carriere lavorative con un orizzonte temporale soddisfacente,
all’erosione delle identità professionali, alla crescente esiguità delle
prestazioni pubbliche e aziendali, considerate come diritti acquisiti
dalle generazioni precedenti. Di fronte a un futuro spogliato di ogni
sicurezza, questo nuovo precariato – inteso come vera e propria classe
sociale, alla stregua del proletariato – potrebbe cercare rifugio nel
populismo e nell’intolleranza, come mostrano molti indizi in Europa,
negli Stati Uniti e altrove.
Guy Standing è docente di Economic Security
nell’Università di Bath, Inghilterra; ha lavorato per l’Organizzazione
internazionale del lavoro; è membro fondatore e co-presidente del Basic
Income Earth Network (Bien), organizzazione non governativa che promuove
il reddito di cittadinanza. Tra le sue pubblicazioni: «Work after
globalization» (2009).
L’Italia si scopre in marcia verso il feudalesimo
L’accordo di Palazzo Chigi sulla produttività rimette indietro di 150 anbni le lancette della storia
E “facciamo scuola” nel m
ondo
di Giorgio Meletti
Una
generazione cresciuta nell’attesa della rivoluzione rischia di
invecchiare con l’incubo di uscire dal capitalismo marciando verso un
nuovo feudalesimo. Non è uno scherzo, come non lo è l’accordo che le
parti sociali hanno firmato mercoledì scorso a palazzo Chigi. Il punto 7
rimette indietro di 150 anni le lancette della storia: “Le parti
ritengono necessario che la contrattazione collettiva si eserciti, con
piena autonomia, su materie oggi regolate in maniera prevalente o
esclusiva dalla legge”. I sindacati ottengono di vedersela con i
padroni, liberamente, senza che la forza della legge intralci il libero
dispiegarsi dei rapporti di forza su materie come l’orario di lavoro e
il cosiddetto demansionamento, che oggi il codice civile semplicemente
vieta.
Lo scoop di Karl Marx
Questa storia l’ha già raccontata
centocinquant’anni fa un giornalista di moderato successo, Karl Marx.
Nel 1848 in Gran Bretagna stava per entrare in vigore la legge che
limitava a dieci ore la giornata di lavoro. L’Europa era in mezzo a una
lunga crisi economica, e gli operai erano in difficoltà, tentati
dall’idea di lavorare oltre le dieci ore per qualche penny in più. Gli
industriali cercavano di convincerli a protestare insieme contro una
legge che irrigidiva il mercato. “Riguardo alla mezza dozzina di
petizioni nelle quali gli operai furono costretti a lamentarsi della
‘loro oppressione sotto quell’Atto’, gli stessi petitori dichiararono
che le loro sottoscrizioni erano state estorte”, racconta Marx nella sua
opera più nota, “Il Capitale”. Le analogie con il presente non mancano.
La crisi, lo stato di bisogno dei lavoratori e la tentazione di subire
il ricatto in nome del realismo. Gli ispettori del lavoro, che nella
Londra del XIX secolo erano più attenti che nel-l’Italia del XXI, si
interrogavano: “Si può ritenere illogico che abbia luogo un qualsiasi
sovraccarico di lavoro in un momento nel quale il commercio va così
male; ma proprio questa cattiva situazione sprona gente senza scrupoli a
trasgressioni”. Per Marx quelle norme consolidavano un sistema
capitalistico nel quale la classe operaia era sfruttata ma anche inclusa
nella società (con identità e rapporti definiti con le altre classi) e
garantita da leggi che governavano i rapporti di forza.
Due libri
usciti da poco ci aiutano a comprendere i rischi di ritorno al
feudalesimo evocati l’accordo sulla produttività di palazzo Chigi. Il
primo, “Manifesto capitalista” (Rizzoli), è di Luigi Zingales,
economista padovano, docente alla Chicago University. Zingales è un
liberista estremo che scrive per mettere in guardia i lettori. Il sogno
americano (capitalismo, concorrenza, meritocrazia, opportunità per
tutti) può svanire. L’America, scrive amaramente, rischia di diventare
come l’Italia, un paese dove le carte del mercato sono truccate. Per
Zingales l’Italia paga la sua storia: il clientelismo strutturale ce
l'ha regalato la Chiesa medievale, con campioni come il papa Borgia e i
suoi figli.
I nostri poteri medievali
I retaggi di quell’epoca ci
assediano. Un papa tedesco, come nell’XI secolo, definisce atmosfere
pre-luterane. La Chiesa è potente come non mai, incassa le sue decime
(l’8 per mille più tutto il resto) e resta esente dall’Imu. Benedice il
potere politico, che si inginocchia. La democrazia è un miraggio per i
secoli venturi. Al Quirinale c’è un “re taumaturgo” con poteri
miracolosi. Le sue massime più scontate vengono studiate da eserciti di
teologi (i monaci costituzionalisti). Egli nomina il suo Richelieu e
vassalli che portano il titolo di “ministro tecnico”. Le elezioni e le
primarie che le propiziano sono riti di preghiera rivolti al sovrano che
decide, affidando il governo a chi non si è candidato. Si coniano nuovi
titoli nobiliari: “riserva della Repubblica”, “risorsa preziosa”. La
disputa teologica sulla eleggibilità del senatore a vita riproduce la
concretezza del concilio di Nicea (787 d. C.). Il popolo disorientato
viene indirizzato a guaritori in grado di resuscitare aziende
automobilistiche decotte. Il parlamento non è eletto ma nominato, come
prima della rivoluzione industriale. L’idea di restituire al popolo quel
potere estremo detto “preferenza” fa inorridire i feudatari che si
difendono dall’orda dei parvenu, degli arricchiti, come Maria Antonietta
nel 1789.
Sventolando il tablet, siamo in marcia verso il
feudalesimo, ma la classe dirigente ha una bomba sociale sotto le sue
poltrone. Il terzo stato non c’è più: stranieri, plebe, servi della
gleba tutt’al più, un popolo di esclusi che si allarga giorno per giorno
a schiere di insegnanti, impiegati, laureati senza chance. Chi solleva
dubbi è liquidato come peccatore, populista, demagogo. Eppure il
liberista Zingales, defensor inesausto del capitalismo, ci racconta
proprio di una bomba da disinnescare, e non solo in Italia, dove siamo
più avanti verso il neo-feudalesimo, ma negli Stati Uniti.
A partire
dal 1973 (prima crisi petrolifera) produttività e salari hanno smesso
negli Usa di andare a braccetto, e si è aperta la forbice: la
produttività ha continuato a crescere impetuosamente (è più che
raddoppiata in quarant’anni), i salari reali si sono fermati. Il lavoro
prendeva il 40 per cento del prodotto dell’industria, adesso il 25 per
cento. La distanza tra ricchi e poveri aumenta, il ceto medio,
architrave del capitalismo, scompare. Quel che è peggio, si riduce la
mobilità sociale. Per chi nasce “sfigato” aumentano le probabilità di
restarlo.
Gli americani, spiega Zingales, sono un popolo scappato
dal-l’Europa in cerca di un’occasione, e le cose sono andate bene grazie
alla comune fede nella regola base: se si gioca pulito c’è una chance
per tutti. Oggi contro i bari (banchieri, manager strapagati, politici
corrotti) sta esplodendo in America una reazione viscerale, scrive
Zingales, quella di un popolo che non crede più a un gioco dove perde
sempre. Il capitalismo, di corruzione, può anche morire. Il timore, per
Zingales, è che il popolo americano semplicemente si ritiri dal gioco.
L’ammutinamento silenzioso è una bomba sociale innescata, più insidiosa
dei moti di piazza.
I precari della gleba
Il libro “Precari” (Il
Mulino) l’ha scritto un economista del lavoro, l’inglese Guy Standing,
ideologicamente di sinistra, agli antipodi di Zingales. Per Standing il
precariato rappresenta ormai un quarto della popolazione occidentale, ma
non è una classe sociale vera e propria, in quanto “frammentata”,
composta “da persone che non intrattengono alcuna relazione che supponga
una legittimazione reciproca né con il capitale né con lo Stato”. I
precari hanno una vita segnata dall’insicurezza e senza speranze di
carriera, sono dei non-cittadini, non hanno identità professionale, non
riescono neppure a immaginare il futuro, soffrono di ansia e
depressione.
Questo capitalismo somiglia a un nuovo feudaleismo. Per
Marx, in questo concorde con gli economisti classici, la dialettica
capitale-lavoro è “diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla
legge dello scambio di merci”. Il capitalismo è una società
conflittuale, ma anche compatta, organizzata, integrata, che dà al
proletario identità, dignità, cultura. Adesso, invece, per Standing
cresce nel ventre stesso dell’Occidente una “classe esplosiva”. Come gli
americani di Zingales, i precari di Standing si allontano dal
“capitalismo clientelare”, non fanno vita sindacale né politica. Vivono
in un ignoto altrove politico-sociale.
La società di Bloch, forse una profezia
“La
società feudale” fu scritto all’inizio del ‘900 dal grande storico
francese Marc Bloch. Descrive un sistema che non crede nell’innovazione e
non vi investe, dove girano pochissimi soldi e si fa ricorso,
piuttosto, all’autoconsumo: “Grandi e miseri vivevano alla giornata,
obbligati ad affidarsi alle risorse del momento e quasi costretti a
consumarle subito”.
“Alla giornata”, cioè senza futuro, cioè da
precari. La società feudale nasce dalla ritirata dello Stato, il Sacro
Romano Impero, che abbandona a se stesse relazioni economiche dominate
da rapporti di lavoro servili. Un mondo bloccato, con poca industria,
senza mobilità sociale, con deboli pilastri culturali. Scrive Standing:
“Una lezione dell’Illuminismo è che l’essere umano dovrebbe essere in
grado di guidare il proprio destino, evitando di demandarne il controllo
a Dio o alle forze naturali. Al precario viene però detto che deve
accogliere in tutto e per tutto le forze del mercato come propria
guida”. Le leggi del mercato imposte come superstizione autoritaria ci
guidano verso il futuro.
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