giovedì 22 novembre 2012
Ritratto di Henri Poincaré
Tornano in libreria i saggi fondamentali del matematico e fisico francese Henri Poincaré, morto cento anni fa
La formula del pensiero. Cari scienziati, affidatevi all’intuizione creativa
di Piergiorgio Odifreddi
Repubblica 22.11.12
Il
francese Henri Poincaré, del quale si celebra nel 2012 il centenario
della morte, fu uno dei due massimi matematici della sua epoca, insieme
al tedesco David Hilbert. Fra gli innumerevoli contributi che egli diede
alla matematica, il più singolare fu uno studio su un problema
apparentemente futile, relativo alla stabilità del Sistema Solare «alla
lunga». L’apparente futilità deriva ovviamente dal fatto che, come disse
una volta Maynard Keynes, «alla lunga saremo tutti morti»: dunque, non
ci importerà molto di cosa accadrà al Sistema Solare, o a qualunque
altra cosa.
La scoperta più importante che Poincaré fece al riguardo
fu che già il comportamento di un sistema di tre corpi è insolubile,
instabile e caotico, benché si conoscano esattamente le forze in gioco.
Il che permette infinite descrizioni approssimate, scientifiche o
letterarie, dei rapporti attrattivi fra tre corpi, fisici o biologici;
spiega perché questi loro rapporti invariabilmente degenerino, e rende
impossibile prevedere dove andranno a parare o che piega prenderanno:
appunto come nella vita (extra) coniugale. L’aggettivo «caotico» deriva
ovviamente da «caos», un concetto che arriva da lontano. Nella Teogonia
di Esiodo, Chaos è un abisso sotterraneo dal quale emersero Gaia ed
Eros: la Terra e l’Amore o, se si preferisce, la materia e l’energia. Ma
in origine chaos significava semplicemente «fenditura» o «apertura», e
indicava lo spazio atmosferico situato tra cielo e terra.
Solo in
latino il termine «caos» acquistò il significato di ammasso confuso di
materia, un esempio del quale era il disordine cosmico da cui il
Demiurgo trae l’ordine nel Timeo platonico, o nel libro della Genesi
ebraico. Questo è il significato con cui lo si usa ancor oggi nel
linguaggio comune, ma il caos scoperto da Poincaré è di tipo diverso:
non emerge dal disordine, ma dall’ordine, ed è provocato dal fatto che
piccoli cambiamenti iniziali possono produrre grandi variazioni finali.
Il risultato è che gli effetti diventano comunque indeterministici,
benché le cause rimangano perfettamente deterministiche: per questo si
parla appunto, ossimoricamente, di «caos deterministico».
È chiaro
che a un matematico che si confronti con situazioni del genere, ogni
professione di fede nel calculemus diventa sospetta, per non dire
semplicemente ridicola. E così fu appunto per Poincaré che, nei saggi
raccolti nel 1902 in La scienza e l’ipotesi, e nel 1905 e 1908 nei suoi
due seguiti, Il valore della scienza e Scienza e metodo, sferrò un
attacco a tutto campo alla concezione della matematica allora imperante.
Quella proposta, da un lato, dalla logica di Giuseppe Peano e Bertrand
Russell e, dall’altro lato, dalla concezione assiomatica del già citato
David Hilbert. Il motto di Poincaré era: «Con la logica si dimostra, con
l’intuizione si inventa». Ovvero, per dirla alla Kant: «La logica senza
intuizione è vuota, e l’intuizione senza la logica è cieca». E il
richiamo a Kant, sia nel motto che nell’uso del termine «intuizione »,
non è affatto casuale. Poincaré riteneva infatti, diversamente da
Russell, che Kant avesse ragione a credere che l’aritmetica fosse
sintetica a priori e non analitica: cioè, non riconducibile alla sola
logica, come poi confermerà Kurt Gödel nel 1931.
La geometria,
invece, secondo Poincaré era convenzionale. Se infatti fosse stata a
priori, non se ne sarebbe potuta immaginare che una: ad esempio, quella
euclidea, come pensava appunto Kant, con una posizione che era stata
minata dalla scoperta della geometria iperbolica. La scelta fra le varie
geometrie non era comunque una questione di verità, ma di utilità e
comodità: allo stesso modo, non ha senso chiedersi, fra vari sistemi di
misura o di riferimento, quale sia quello giusto.
Ritornando alla
logica, di essa Poincaré non aveva certo una grande opinione.
Ridicolizzava le sue pretese di concisione, dicendo: «Se ci vogliono 27
equazioni per provare che 1 è un numero, quante ce ne vorranno per
dimostrare un vero teorema? ». E a Giuseppe Peano che proclamava, nel
suo poetico e maccheronico latino: Simbolismo da alas ad mente de homo,
«il simbolismo dà ali alla mente dell’uomo », ribatteva: «Com’è che,
avendole ali, non avete mai cominciato a volare?».
Al massimo
Poincaré ammetteva che la logica potesse servire a controllare le
intuizioni, perché obbligava a dire tutto ciò che di solito si
sottintende: un procedimento
certo non più veloce, ma forse più
sicuro. Questo lo sapeva per esperienza, visto che nella memoria sul
problema dei tre corpi, che aveva presentato nel 1889 per il «premio
Oscar» messo in palio dall’omonimo re di Svezia e Norvegia, aveva
sottointeso un po’ troppo: trovò un errore dopo che essa era già stata
pubblicata, e gli toccò pagare le spese di correzione, che ammontarono a
una volta e mezza il premio che aveva incassato.
Quanto
all’assiomatizzazione, per Poincaré essa non era che un rigore
artificiale, sovraimposto all’attività matematica quand’essa era ormai
stata effettuata e conclusa: fra l’altro, solo temporaneamente, perché
per lui nessun problema era mai definitivamente risolto, ma soltanto più
o meno risolto. La finzione con la quale si presenta invece la
matematica come un processo ordinato, che parte dagli assiomi e arriva
ai teoremi, gli sembrava analoga alla leggendaria macchina di Chicago,
nella quale i maiali entrano vivi e ne escono trasformati in prosciutti e
salsicce.
Questo è certamente il modo in cui i matematici e i
salumieri presentano la loro attività al pubblico ingenuo, ma la realtà è
diversa. Per limitarsi ai primi produttori, basta l’esempio di
Archimede, che aveva tradotto e tradito i suoi processi mentali dietro
dimostrazioni analitiche e logiche. Ma li aveva trovati con un metodo
sintetico ed euristico che era andato perduto, e fu ritrovato soltanto
nel 1906 da uno
studioso tedesco, su un palinsesto della Biblioteca di Costantinopoli.
Poincaré
non aveva comunque bisogno di rifarsi all’esperienza di Archimede,
perché gli bastava la sua. Come abbiamo già accennato, egli era infatti
uno dei due massimi matematici della sua epoca, insieme a Hilbert: uno
status che era stato loro riconosciuto non solo con l’affidamento dei
discorsi di apertura ai primi due Congressi Internazionali di
Matematica, nel 1897 e nel 1900, ma anche con l’assegnazione degli unici
due premi Bolyai della storia, nel 1905 e nel 1910.
E l’esperienza
di Poincaré gli suggeriva che i suoi risultati più famosi, come lui
stesso raccontò, gli erano venuti con ispirazioni improvvise: dopo aver
bevuto una tazza di caffè, sul predellino di un autobus sul quale stava
salendo, passeggiando sulla spiaggia, attraversando la strada... In
momenti, cioè, in cui l’inconscio aveva preso le redini del pensiero,
dopo che a lungo e consciamente questo si era concentrato sui problemi
da risolvere.
La cosa era confermata dalle sue abitudini di lavoro,
studiate dallo psicologo Toulouse nel 1897. Esse consistevano nel
concentrarsi soltanto quattro ore al giorno, dalle 10 alle 12 e dalle 17
alle 19, lasciando la mente vagare nel resto del tempo. E nello
scrivere senza piani precisi, non sapendo dove sarebbe andato a parare:
se l’inizio gli risultava difficile, abbandonava l’argomento; altrimenti
procedeva in esplosioni creative che produssero, in quarant’anni,
cinquecento lavori di ricerca e una trentina di libri (tra i quali un
romanzo giovanile).
Ne La scienza e l’ipotesi, in particolare, egli
raccolse le sue prime incursioni sui fondamenti della matematica e della
scienza. Per lui si trattava solo di un divertente diversivo, rispetto
alla ricerca matematica e scientifica, ma anche a distanza di un secolo i
suoi saggi divulgativi non hanno perduto freschezza e leggibilità.
Anzi, rimangono più freschi e leggibili di quelli fondazionali dei suoi
rivali Russell e Hilbert, le cui concezioni oggi sono ridotte a
polverose macerie, distrutte dal terremoto del 1931 provocato dai
teoremi di Gödel.
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