giovedì 22 novembre 2012
Una proposta innovativa per il governo dell'Italia: il compromesso storico
La strategia del Pd: «listone» al Senato con Sel e i sindaci Alla Camera si vedrà
di Maria Teresa Meli
Corriere 22.11.12
Roma
— Un milione e mezzo... o poco più. È questo il numero magico di Pier
Luigi Bersani. È questo il numero che lo rende sicuro della vittoria
alle primarie di domenica. Di più: è questo il numero su cui ha
ragionato per costruire la strategia prossima ventura del Partito
democratico. Nel segno della coalizione che verrà. E che vedrà insieme
il Pd, Sel e le liste arancioni. Ossia le liste di Giuliano Pisapia e
Luigi De Magistris. Perché il leader del Partito democratico ha
intenzione di allargare al massimo la coalizione del centrosinistra,
onde superare le possibili soglie di una riforma elettorale. L'obiettivo
di massima sarebbe quello di un listone unico, in nome dell'«Italia,
bene comune». Nei palazzi della politica dicono che non dispiacerebbe
nemmeno al Colle. Nei palazzi della realtà raccontano che al Senato sarà
una strada unica e obbligatoria, il listone. Alla Camera si vedrà.
E
il 14 novembre è stato un saggio di ciò che succederà: il
centrosinistra ha presenziato alla manifestazione di Pomigliano per
blandire le tute di Landini, in occasione dello sciopero proclamato
dalla Cgil.
Dietro le insegne dei metalmeccanici Cgil hanno sfilato i
leader di tutte le forze politiche di centrosinistra e – chi più chi
meno – potenziali alleati del Pd. Presenti all'appello Nichi Vendola, il
sindaco di Napoli e ispiratore delle liste arancioni Luigi De
Magistris, insieme a quello di Bari, Michele Emiliano e il responsabile
lavoro del Pd Stefano Fassina.
D'altronde non c'è partito o lista di
sinistra e di centrosinistra che non vanti un rapporto privilegiato con
le tute blu e il loro gruppo dirigente da sfoggiare alle prossime
elezioni. Di questo a corso Trieste sono ben consapevoli. Anzi, spiega
uno dei segretari nazionali, Enzo Masini, al sito del Fatto, «ne
parlavamo con Landini proprio l'altra settimana». E per dirsi cosa? «Che
finora ci cercano tutti ma non ci fidiamo di nulla». E di nessuno. «Ma
candidati ce ne saranno». E dove? «Dappertutto»: Pd, Sel, Idv,
arancioni. Con un obiettivo però, osserva ancora lo stato maggiore di
Landini: «L'unità della coalizione di centrosinistra capace di vincere».
E da sola.
Una cosa, intanto, il gruppo dirigente nazionale della
Fiom ha già annunciato che farà: «Abbiamo detto tutti quanti che andremo
a votare alle primarie: di certo non c'è la tendenza a snobbare». E per
votare chi? «Il grosso per Vendola». Oggi però anche il Pd ha rimesso
piede e sede. Senza contare che i 360 mila iscritti — specialmente tra i
quadri attivi — votano sempre Pd, come un tempo votavano Pci. Per
quanto si cominciano o a sentire delegati che si dichiarano 5 Stelle in
Toscana e Emilia, non tanto nelle realtà meccaniche quanto in quelle
informatiche e nei call center.
Non è un caso dunque, che dal giorno
stesso in cui è passata la riforma al Senato, il Pd abbia cominciato a
vaticinare l'allargamento della coalizione quantomeno alla lista
arancione di matrice sociale e civile ispirata dai sindaci De Magistris e
Emiliano. Il sindaco di Napoli ha già annunciato per dicembre il varo
del movimento e pubblicizzato i primi nomi per le liste: «Tutte le
esperienze nate intorno ai sindaci».
E a Napoli, per esempio, il
rapporto con la Fiom, dal territorio fino a Landini, è ottimo. Difatti
gli arancioni sono in dirittura d'arrivo per la candidatura di uno dei
19 esclusi dalla Fiat: Antonio Di Luca. Allo stesso tempo coltivano
ottime entrature col manifesto dei 70 di Alba (acronimo per Alleanza
lavoro, beni comuni, Ambiente) promosso tra gli altri da Luciano
Gallino, Paul Ginsbourg, Marco Revelli, Gianni Rinaldini. E proprio
quest'ultimo, ex segretario nazionale dei meccanici, dovrebbe essere un
altro dei candidati arancioni.
Una pregiudiziale però è dirimente,
avverte il sindaco di Bari Michele Emiliano: che «la lista sia voluta
dal Pd e non in contrasto con esso». Esattamente ciò che vuole Bersani.
Cattolici, con chi ricostruire l’Italia?
di Alfredo Reichlin l’Unità 22.11.12
PENSO CHE I PROCESSI E GLI SPOSTAMENTI CHE SI STANNO verificando nel
mondo cattolico e tra le file dei cosiddetti «moderati» vanno presi
molto sul serio. La posta delle prossime elezioni è davvero altissima.
Si chiude una intensa fase politica e si decide il destino dell’Italia
nel nuovo mondo europeo e mondiale che è in costruzione. Questo si
decide. Non solo quale governo ma quale posto avrà in esso la nazione
italiana. Un confronto molto serio è perciò necessario e io credo sia
interesse del Pd che esso avvenga al più alto livello delle cose e delle
scelte.
Ho ascoltato attentamente il discorso del ministro Riccardi
al meeting di «Italia futura» e mi ha colpito la passione che lo
animava. Il tema politico centrale che egli ha posto a giustificazione
di un nuovo raggruppamento delle forze è la ricostruzione dell’Italia.
Non questa o quella riforma, ma la ricostruzione. Chi mi legge sa che da
molto tempo questo è anche il mio assillo e che il senso delle mie note
sul Pd sta tutto nella consapevolezza che bisogna voltare pagina e che
il solo modo di far rivivere il nucleo vitale della storia della
sinistra è reinverarlo in un partito nuovo della nazione.
Dunque
confrontiamoci, ma a questo livello. Tralascio il sospetto che si tratti
della solita operazione di potere che consiste nel collocarsi al centro
per fare l’ago della bilancia tra la destra e la sinistra (in questo
caso mettendo insieme il più frivolo dei miliardari italiani con l’uomo
della Comunità di S. Egidio che allestisce a Natale nella Chiesa di
Trastevere il pranzo per i poveri). Non credo che si tratti di questo.
Mi permetto però di porre al prof. Riccardi una domanda, che mi sembra
fondamentale.
Sulle spalle di chi egli pensa di porre il peso di una
cosa come la ricostruzione dell’Italia? Dei tecnici? Non credo. Di tutti
gli italiani? Questo si. Ma allora è del popolo italiano che dobbiamo
parlare, uscendo finalmente dal mare di chiacchiere sui «politici». Il
«popolo». Non la somma degli individui ma il modo di stare insieme e di
fare comunità di una nazione fatta di ricchi e di poveri, di produttori e
di parassiti, di siciliani e di milanesi. Vogliamo capire che il
difficile compito che spetta ai governanti consiste nel fatto che non si
va in Europa «europeizzando» solo il sistema finanziario ma l’Italia
reale? Una Italia dimezzata per il fatto enorme che un terzo dei giovani
non ha più identità e futuro in quanto espulso dal mercato del lavoro.
Una Italia in cui è tornata anche la fame insieme allo spettro della
disoccupazione (andate in Sardegna a parlare di difesa delle famiglie).
Ma voi vi rendete conto di cosa significa avere distrutto la civiltà del
lavoro, forse la conquista più grande del Novecento? E non dico nulla
sulla emarginazione paurosa del Mezzogiorno come idea di sé, come
deposito di culture secolari. Come legalità.
Ecco perché, è vero, c’è
bisogno di una ricostruzione. Ma è esattamente per questa ragione che
il Pd si candida a governare sulla base di una proposta larga di
inclusione sociale oltre che di alleanze politiche ben oltre i confini
della sinistra. Che cosa c’è che preoccupa i nostri interlocutori? Il
rapporto del Pd con l’Europa e con le forze reali che muovono le cose
del mondo? Capisco. È bene allora dire che questo partito è ben
consapevole della difficoltà dell’impegno e delle sfide che l’attendono.
Sa benissimo che il governo Monti non è una parentesi che si chiude per
tornare finalmente ai vecchi riti politici. È fastidioso questo stupido
sospetto. È il PD che ha sostenuto tutto il peso del governo e lo ha
fatto perché sa benissimo che il grande merito di Monti è di aver
restituito all’Italia dignità e “status” rispetto al mondo ed è quello
di aver alzato l’asticella della politica al livello europeo, con tutti
gli impegni (e le occasioni) che ciò comporta. Però il Pd sa anche
un’altra cosa. Sa con che cosa bisogna misurarsi per ricostruire
l’Italia. Bisognerà affrontare le ragioni profonde della nostra
decadenza. E qui vorrei dire con pacatezza qualche parola, scusandomi
per il poco spazio che ho a disposizione.
Certo, Berlusconi ha
aggravato le cose ma la nostra decadenza comincia prima, comincia con
l’avvento della mondializzazione. Anche allora si alzò di colpo
l’asticella della competitività. Noi non la saltammo come avremmo
dovuto; cioè con grandi riforme. Non le facemmo e le colpe furono un po’
di tutti. Si formò più o meno allora quel grande nodo politico-morale
che ci sta soffocando e che ci spinge al declino e per cui da 20 anni
non cresciamo. Le cose sono molto complicate ma, al fondo, a me sembra
che si tratti di questo. Si sono rotti i vecchi compromessi politici e
sociali su cui si era costruito lo sviluppo italiano. In molti abbiamo
sbagliato. Da un lato i progressisti si illusero di difendere vecchie
conquiste non più sostenibili. Dall’altro i ceti dominanti si difesero
arretrando e rifugiandosi nel «particolare». I soldi si potevano fare
anche con l’evasione fiscale, con le «consorterie» che distorcono il
mercato e lo corrompono, con l’abbandono del Mezzogiorno in nome del
famoso «asse del Nord» (Berlusconi-Bossi) che considerava il Sud una
zavorra. Ma fu il lavoro, cioè la maggiore risorsa italiana, la vittima
principale. Guardate come è stato ridotto: un residuo senza diritti,
assediato dalla disoccupazione e dai «salari cinesi». Un mondo umano
minacciato dai licenziamenti e dallo spettro della fame che urla la sua
disperazione nei cortei. L’agenda Monti, mi dispiace dirlo, è al di là
di questo. Dà la colpa ai sindacati, invoca più mercato, e non dice che
le imprese non innovano perché i soldi hanno preferito farli tagliando i
salari e rinunciando all’innovazione.
Ecco l’obiezione di fondo che
farei al professor Riccardi. Lo prego di tener presente che c’è anche
un’altra agenda (l’agenda Bersani) che vuole ricostruire l’Italia ma
pensa che per farlo bisogna ripartire dal mondo del lavoro e della
creatività umana, non dalle logiche finanziarie. È tempo di dare un
posto anche agli ultimi nella nuova Italia. Da questo dipende la difesa
della democrazia e l’avvento di una nuova civiltà europea.
Ritorno
così al ruolo dell’Europa, di quella parte del mondo in cui il movimento
operaio e il socialismo sono nati. Una Europa a rischio di declino
economico se i governi non riescono a individuare una nuova politica che
ridisegni il suo ruolo e le sue funzione nella divisione internazionale
del lavoro che emergerà dalla crisi. Il nostro compito è tessere
alleanze sociali e politiche fondate sull’idea che l’Europa ha bisogno
di un nuovo compromesso tra capitale e lavoro, diverso nei contenuti ma
della stessa portata di quello che portò alla costruzione dello Stato
sociale. Questo dovrebbe avere al suo centro un nuovo modello economico
fondato sulla redistribuzione del reddito, la compatibilità ambientale, e
gli investimenti sulla scuola e l’innovazione.
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