mercoledì 30 gennaio 2013
Una nuova edizione italiana per il Chisciotte
Miguel de Cervantes: Don Chisciotte della Mancia. Testo spagnolo a fronte a cura di F. Rico, trad. di A. Valastro Canale, Bompiani
Risvolto
Nel maggio del 2002, una giuria composta da un
centinaio di scrittori di oltre cinquanta Paesi ha scelto il romanzo di
Cervantes come "the world's best work of fiction" (La migliore opera di
fantasia del mondo) di tutti i tempi, assai più votato delle opere di
Proust, Shakespeare, Omero, Tolstoj. Cos'ha "Don Chisciotte della
Mancia" per meritare una tale preferenza? Nessuno potrà dirlo con
sicurezza, ma è un fatto che, dal momento della sua apparizione, nel
1605, questo libro ha goduto in modo crescente di una stima e di un
successo eccezionale. Questa edizione del capolavoro di Cervantes
presenta il testo critico spagnolo costituito sulla comparazione di un
centinaio di edizioni antiche e moderne, una sorta di summa di
quattrocento anni di studi preparata dal professor Francisco Rico,
conoscitore massimo dell'opera cervantina; è corredata da un apparato di
note tanto essenziali quanto illuminanti; infine è dotata, a fronte,
della traduzione italiana di Angelo Valastro Canale, che si è avvalsa
dei più recenti commenti al "Don Chisciotte".
L’umano assoluto di Don Chisciotte
Imperdibile edizione del libro di Cervantes a cura di Francisco Rico Nella collana di Bompiani dedicata ai Classici le gesta dell’hidalgo a caccia di mulini a vento diventano la sublime metafora di un mondo diviso tra l’utopia e la mediocrità della condizione reale
di Giulio Ferroni l’Unità 30.1.13
TUTTA LA VARIETÀ
MOLTEPLICE ED ETEROGENEA DEL ROMANZO MODERNO, DI QUELLO CHE È STATO,
DOPO, IL MONDO ROMANZESCO, SEMBRA come erompere e scaturire dal Don
Chisciotte, un libro assoluto, uno dei pochi libri davvero assoluti: con
le mille avventure che si dispiegano nelle pagine di Cervantes, nei
volumi della prima e della seconda parte, messi a stampa nel 1605 e nel
1615, ma che da lì hanno viaggiato nell’immaginario, con il richiamo di
quel tipo umano, di quel fallimentare eroe in cui spesso si riconosce
anche chi il libro non l’ha letto o l’ha sfiorato solo da lontano.
In
esso la realtà e l’illusione si intrecciano con i grovigli più diversi,
bizzarri e pedestri, abnormi e quotidiani, negli atti e nei discorsi
del cavaliere dalla triste figura e del suo scudiero Sancho Panza. Nella
follia di don Chisciotte nel suo voler credere nella realtà dei romanzi
cavallereschi di cui è ossessivo lettore e nella possibilità di
partecipare direttamente, nel presente, al loro mondo si manifesta
l’attrazione dell’illusione, l’aspirazione impossibile a vivere entro un
mondo perfetto e assoluto, a cui l’individuo possa imporre senza limiti
la propria forza, il proprio coraggio, per il trionfo e della
giustizia, della verità, della bellezza, in cui abbiano campo reale
tutte le favolose meraviglie sognate dalle fantasie romanzesche. Ma
nella rappresentazione della sua follia si dà anche la critica a
quell’illusione, messa a confronto con la volgarità quotidiana, con la
mediocre piattezza di un mondo in cui è sempre in agguato l’inganno, la
menzogna, la violenza, il sordido squallore, il più bieco egoismo (e,
semmai, la giocosa disposizione a beffarsi di chi quel sogno lo prende
sul serio).
Don Chisciotte è uno dei più grandi emblemi dell’umano,
del nostro essere sospesi tra l’utopia (che forse sgorga da sogni
favolosi di ricomposizione e conciliazione) e la mediocrità delle
condizioni reale (il contraddittorio, confuso, banale, disgregato darsi
dell’esistenza, dei caratteri del mondo). È tutto questo, formidabile
immagine della contraddittorietà del nostro essere (anche dell’essere
politico, di un essere politico che non rinuncia a cercare il meglio pur
nella coscienza della crisi e dello sfacelo): ma nello stesso tempo ci
gratifica con la sua indifesa testardaggine, simpatico e sinistro,
allucinato e cordiale; è qualcuno a cui alla fine non si può non volere
bene, come non si può non volere bene al suo scudiero Sancho e
all’autore che lo accompagna ammiccando in un narrare dispiegato e
cordiale, pure pieno di trabocchetti, di contorsioni, di manieristici
avvolgimenti. Egli finge del resto di attribuire l’invenzione della
storia ad un altro autore, l’arabo Cide Hamete Benengeli, e crea
incredibili sovrapposizioni tra piani narrativi, come quelle della
seconda parte, dove l’eroe e il suo scudiero incontrano personaggi già
informati su di essi e sulle loro imprese, avendole già lette nella
prima parte.
Per questo e per mille altri motivi il Don Chisciotte ha
fatto da nutrimento alla più grande narrativa europea, agendo anche
sugli scrittori da esso in apparenza più lontani: e si può avere
l’impressione che una delle ragioni di debolezza della più recente
narrativa italiana sia data proprio dalla scarsa presenza di questo
capolavoro tra le letture correnti.
Allora può essere occasione di un
ritorno più intenso di questo grande romanzo l’edizione appena apparsa
nella nuova collana dei Classici della letteratura europea con testo
integrale a fronte, diretta per Bompiani da Nuccio Ordine (a cura di
Francisco Rico, traduzione di Angelo Valastro Canale, pagine 2182, euro
30,00: il testo e la traduzione sono accompagnati da ulteriori apparati e
puntuale annotazione).
Nella stessa collana appare
contemporaneamente l’edizione di un ampio poema inglese del tardo
Cinquecento, che ha molteplici tangenze con la letteratura italiana,
finora mai tradotto integralmente nella nostra e in nessun’altra lingua,
La regina delle fate (The Faerie Queene) di Edmund Spenser, a cura di
Luca Manini, introduzione di Thomas P.Roche jr, pagine 2288: poema
d’eroismo e di magia, che sembra proiettarsi ancora, pur se in
un’esaltata messa in scena simbolica, su quel mondo di cui il Don
Chisciotte registra contraddittoriamente la caduta.
Queste edizioni
così appaiate fanno così incontrare simbolicamente questo grande e quasi
dimenticato poema, che per la nuova cultura inglese sintetizzava
modelli ormai rivolti verso il passato, con il capolavoro al cui seguito
si svilupperà tutta la storia del romanzo moderno: e l’introduzione di
Rico (a cui spetta anche la cura del testo critico, che riproduce quello
da lui approntato per l’edizione critica spagnola uscita per il
centenario del 2005) ritrova le ragioni della singolare modernità del
Don Chisciotte nel suo radicamento nella realtà concreta della Spagna
nel passaggio tra Cinquecento e Seicento, dove era diffuso uso di
travestimenti e mascherate in abiti cavallereschi, di tornei e di
recitazioni in costume.
Nella sua follia l’hidalgo di provincia, con
la sua armatura bizzarra e la sua celata di cartone, porta in giro per
la Spagna anche quegli usi spettacolari, quelle diffuse proiezioni
teatrali di un orizzonte eroico in realtà sempre più lontano dalla vita
quotidiana (a cui in fondo Cervantes, già combattente a Lepanto, non
poteva non guardare con una certa nostalgia).
Rico, che è il maggiore
studioso della letteratura classica spagnola (ed è anche uno dei
maggiori studiosi del Petrarca e dell’umanesimo italiano) mette poi in
evidenza la vera e propria semplicità della scrittura di Cervantes, il
suo procedere in un flusso continuo, in una lingua che sembra seguire la
veloce disponibilità di un narrare affidato alla voce (il che non solo
spiega certe sviste e incongruenze, ma le giustifica, attribuisce loro
un singolare valore); e indica come il narratore, ponendosi nella
prospettiva morale del «giusto mezzo», sappia nel contempo mostrare
attenzione a tutti i comportamenti estremi, positivi e negativi (appunto
con un senso modernissimo della contraddittorietà dell’esperienza,
dell’impossibilità di ricondurla a modelli di perfezione).
Davvero
moltissimi sono gli spunti suggeriti da questa edizione e dal lavoro di
Rico. Ma c’è una bizzarra possibilità di incontrare Rico, in questi
giorni, in un altro libro, da poco uscito presso Einaudi, il bellissimo
romanzo di Javier Marias, Gli innamoramenti: qui è Marías dà voce in
prima persona ad un personaggio femminile, che si imbatte in Francisco
Rico (proprio lui, col
suo nome e cognome, con la sua sapienza, i
suoi modi, il suo linguaggio di accademico atipico, poco formale),
incontrandolo nel salotto di Luisa, vedova del personaggio intorno alla
cui morte ruota la vicenda. E l’autore, tra l’inquieto interrogare su
cui si sviluppa il romanzo, si diverte maliziosamente a dare una
caricatura del grande studioso, della sua esclusiva passione per la
letteratura del siglo de oro, della sua scarsa attenzione a tutto ciò
che fuoriesce dal proprio universo.
Conosco di persona Rico, ben noto
nel mondo universitario italiano, e non mi so decidere se la caricatura
di Marías sia malevola o benevola: sono certo però che Gli
innamoramenti sia un formidabile romanzo, uno di quelli che ancora
stanno, così «da dopo» sulla scia di quel grande inizio che è Don
Chisciotte, che sanno interrogare la contraddittorietà dell’esperienza
nei termini del nostro presente; e forse proprio per questo non lo
troviamo nelle classifiche, in mezzo a tanta narrativa vuota, trascritta
da modelli di vita già fissati dall’apparenza mediatica.
Rispetto a
questo orizzonte attuale, ci sarebbe qualche vantaggio ad avvicinarsi
ancora e di più al Don Chisciotte: e davvero quella di Rico, a tutt’oggi
la sola edizione italiana veramente completa, meriterebbe di sostare in
permanenza su tanti tavoli, anche solo per occasioni casuali di lettura
o rilettura di qualche capitolo (e non farà male, anche per il lettore
poco esperto di spagnolo, qualche sguardo all’originale).
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