domenica 17 febbraio 2013
Estetica dell'orrore
L’ipnotica “Isola dei morti” di Böcklin che Hitler volle comprare a tutti i costi
di Melania Mazzucco Repubblica 17.2.13
Dove vanno i morti? In Paradiso? In cielo, tra le stelle? Sottoterra?
Scendono nel triste Ade con una moneta sotto la lingua per pagare il
traghetto di Caronte? Li aspetta la prateria degli asfodeli, oppure,
come malvagi, il Tartaro – dove, come scriveva Omero, stridono di
terrore come uccelli fuggenti? O, come giusti, i campi elisi? O ancora,
l’isola boscosa dei beati – riservata a coloro che vissero
virtuosamente? Oppure il grande nulla, dove alla fine di ogni dolore
l’individuo si dissolve nel tutto? Qualunque cosa crediate, questo
quadro offre una risposta seducente – e chiunque lo abbia guardato ha
pensato che non sarebbe male se andasse a finire così.
È uno di quei rari quadri che mettono tutti d’accordo – forse perché
tutti temiamo la fine. È dunque consolante, cosa che in genere nuoce
all’arte, e spesso la abolisce. Non è questo il caso. Fin dalla
primavera del 1880, quando Böcklin lo realizzò, in un mese – per una
donna che aveva appena perso il marito e che gli aveva richiesto un
quadro “per sognare” – L’isola dei morti esercitò una fascinazione
ipnotica. Non era nemmeno finito e già gliene avevano chiesta una
replica, e poi un’altra, e un’altra ancora – al punto che oggi se ne
contano quattro varianti (una quinta è andata distrutta durante la
seconda guerra mondiale). Tutte apprezzabili, ma la prima di una
suggestione inimitabile.
L’ammirazione divenne unanime, quasi assordante. Böcklin, che dipingeva
da più di trent’anni, con alterna fortuna, misteriosi paesaggi popolati
da draghi, tritoni e ninfe, dovette restarne sorpreso. Come sempre
accade, le ragioni del successo non avevano nulla a che vedere con
l’opera. I nazionalisti tedeschi vi videro il simbolo dell’arte
germanica. Ciò generò un fanatismo isterico, e procurò al pittore
estimatori imbarazzanti, fra cui Adolf Hitler (ma Böcklin non lo seppe
mai, perché dal 1901 riposava nel cimitero protestante di Fiesole dove,
dopo una vita nomade fra la Svizzera, l’Italia e la Germania, aveva
scelto di fermarsi per sempre). Il quadro al Führer piaceva talmente
tanto che era riuscito ad acquistarlo. C’è una celebre foto scattata
nella Cancelleria del Reich il 12 novembre del 1940. Si vedono Hitler e
Molotov. La guerra già devasta, milioni di europei sono morti o stanno
per morire. E cosa si vede, alle loro spalle? L’isola dei morti.
Ma un quadro non può scegliere i suoi amici.
È il crepuscolo: la notte cede al giorno o il giorno alla notte, perché
nell’oscurità già si distingue la linea dell’orizzonte. Una barca a remi
scivola sull’acqua nera, calma, immobile. Il remo è immerso, ma non
solleva onde né spruzzi – al punto da rendere visibile il silenzio. La
barca trasporta una bara, coperta da un drappo bianco. Ritta a prua c’è
una figura inquietante, fasciata di veli bianchi, come una statua, o una
mummia. Ma potrebbe anche essere l’anima del morto. La barca sta per
approdare a un’isola: piccola, domina però il quadro. Falesie scoscese
si ergono sul mare come montagne. In mezzo, cresce un bosco di cipressi.
Un cimitero è infatti l’isola: nelle rocce, sono state scavate delle
tombe – ora vuote. Un muro riverbera una luce chiara. Il buio sta per
inghiottire il fantasma in bianco, richiudendosi su di lui. Tutto accade
fuori dal tempo, in nessuna epoca, e dunque sempre.
L’isola, le figure minuscole, l’oscurità, il mare fermo, la quiete
impenetrabile: tutto comunica il senso della solitudine. La pittura di
Böcklin non ha sorelle. Non somiglia a quanto vanno sperimentando i suoi
contemporanei, pur essendo L’isola dei morti dipinta negli stessi anni
in cui Monet disfa il colore in materia, Degas scopre le ballerine, van
Gogh percorre il Borinage per stare vicino ai minatori e Moreau spinge
il simbolismo oltre il delirio. È un quadro fantastico dipinto con
precisione accademica, una visione costruita con forme naturalistiche.
L’atmosfera misteriosa piacque a De Chirico, Ernst e Dalí. È dunque un
quadro che condensa – e non separa: sogno, realtà, ricordo, nostalgia.
L’immagine, apparentemente tradizionale, combina in modo nuovo paesaggi,
stili e culture diverse. Il mito classico, il romanticismo nordico e la
natura mediterranea. La barca di Caronte e le tombe etrusche, i
cipressi di Fiesole e le rupi svizzere. È insomma la sintesi perfetta
della ricerca di Böcklin, svizzero di nascita, tedesco di cultura,
italiano per amore, che scese a Roma per il Grand Tour nel 1850 e da
allora non poté più rinunciare alla libertà e alla luce delle contrade
selvagge «del mondo non civilizzato del sud».
Infine, è anche un funerale. Quello, solenne e austero, che Böcklin
sognava per sé. Non stava affatto morendo, anzi: nel 1880 sapeva
fronteggiare dolori e malinconia, era un bellissimo uomo dagli occhi
blu, traboccante di idee e di amore per la sua giovane moglie romana e i
suoi figli (ne aveva messi al mondo 14, molti però morti bambini). Come
tutti i pittori del XIX secolo, aveva vissuto fra l’emarginazione della
miseria e la coscienza orgogliosa della propria diversità d’artista.
Trovato un pubblico, il benessere, la fama, ormai sapeva di essere anche
lui un eletto – uno dei favoriti degli dèi che i greci destinavano
all’isola dei beati. Però sapeva anche che i miti sono favole, il mondo
antico è morto, e l’isola dei beati non si trova. Un pittore può
renderla reale solo dipingendola – imprigionando l’infinito su un
riquadro di tela.
A volte le spiegazioni degli artisti sulle loro opere sono pletoriche, o
fuorvianti. Non quella di Böcklin: un quadro deve raccontare qualcosa,
diceva, far pensare come una poesia e lasciare un’impressione come un
brano di musica. Non saprei aggiungere altro.
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