lunedì 18 marzo 2013
Ancora Badiou e la Repubblica di Platone: la lettura di Roberto Esposito
Badiou ha riscritto la “Repubblica”. Con un occhio all’oggi
di Roberto Esposito Repubblica 18.3.13
Come
cambia la politica – i suoi soggetti, i suoi strumenti, i suoi
contesti? È questa la domanda che in maniera martellante ci insegue
dagli schermi televisivi, dalle pagine dei quotidiani, dalla produzione
saggistica. Fine dei partiti, crisi della rappresentanza, populismo
telematico sono alcune delle categorie attraverso le quali sociologia e
politologia cercano di stare al passo col mutamento in una rincorsa
ossessiva del nuovo. Ma non è la domanda della filosofia. Ad essa non
interessa ciò che cambia, ma ciò che non cambia.
O, forse meglio, ciò
che, in una temporalità sempre più schiacciata sulla dimensione del
futuro, permane stabile e si ripete. Se si prendono i tre maggiori
pensatori novecenteschi della politica, Carl Schmitt, Hannah Arendt e
Michel Foucault, questo è l’interrogativo che muove la loro ricerca:
quale è l’essenza della politica? – si chiede il primo nel suo celebre
saggio degli anni Venti. Che cosa è la politica?, incalza la Arendt
negli anni Cinquanta. Come funziona il potere? si domanda Foucault negli
anni Settanta. Nessuno di loro, naturalmente, trascura le
trasformazioni storico-concettuali che differenziano radicalmente la
scena della polisgreca da quella dello Stato moderno, e questo
dall’attuale regime biopolitico. Ma con lo sguardo puntato al rapporto
genealogico tra origine ed attualità. È a partire da questa prospettiva
che va colto il rilievo del lavoro filosofico di Alain Badiou – uno dei
maggiori pensatori francesi e non solo, già allievo di Althusser e Lacan
– e, in particolare, della sua ritrascrizione della Repubblica di
Platone (tradotta adesso dal Ponte alle Grazie, per la cura di Ilaria
Bussoni e con una limpida introduzione di Livio Boni). In essa – alla
fine di un lungo itinerario che ha trovato ne L’Essere e l’evento (Il
Melangolo) l’apice teoretico e ne L’ipotesi comunista (Cronopio) la
punta più acuminata – Badiou riconosce nel grande dialogo platonico
qualcosa che oltrepassa il suo contesto storico, per parlarci in
maniera, appunto, essenziale. Si tratta del rapporto metafisico tra
politica, verità e pensiero. Dove, però, il termine “metafisica” non
allude a un piano trascendente e superiore a quello dell’esperienza, ma a
un nucleo universale che lo attraversa e lo mobilita dall’interno.
Contro l’interpretazione teologica, ma anche contro quella
razionalistica di Platone, Badiou difende una lettura dialettica,
intenta a coniugare il carattere materialistico della conoscenza
sensibile con quello, universale, della verità.
Naturalmente l’autore
conosce perfettamente il carattere aristocratico e dunque
esplicitamente antidemocratico della concezione platonica. Ma è proprio
tale critica della democrazia, inevitabilmente legata al proprio tempo, a
mettere il dialogo di Platone in risonanza con la contemporaneità.
Nella sua polemica contro gli eccessi “populistici” del demos, non
troviamo qualcosa che continua a interpellarci da vicino? E il rifiuto
della proprietà privata, aspramente stigmatizzato da una diffusa
tradizione antiplatonica, non contiene un riferimento, certo
problematico, alla nostra idea di “bene comune”? Ovviamente per
collegare, traversando le epoche, un testo originario come quello
platonico alle dinamiche del nostro tempo, occorre operare una sorta di
sottrazione del pensiero alla storia in cui si genera e anche a quella
cui sembra dar luogo. Ciò spiega come il comunismo, di cui Badiou
individua la radice genealogica proprio nel dialogo platonico, possa
essere valutato più che in riferimento ai suoi effetti storici, in
relazione a una verità metastorica. E cioè a quella intenzione
emancipativa, fondata sull’idea universale di giustizia, poi rovesciata e
mortificata in tutte le sue espressioni storiche.
Come l’idea di
uguaglianza, anche la tendenza totalitaria – che autori come Popper e
perfino Arendt hanno voluto leggere nella concezione platonica – è una
modalità metafisica che tende a risorgere come uno spettro non solo
all’esterno, ma anche all’interno della democrazia, tutte le volte che
il rapporto tra politica e verità si cristallizza in una forma bloccata e
univoca. Ciò, secondo Badiou, vale per il fascismo, per il comunismo,
ma anche, certo in forma diversa, per l’attuale capitalismo finanziario,
che esclude di per sé tutto ciò che non rientra all’interno dei propri
presupposti.
Cercare un rapporto con la verità nell’orizzonte della
politica non significa oggettivarla in un particolare contenuto, così da
cancellare, come errore, tutti gli altri. Il filosofo deve confutare il
sofista che è in lui, ma senza mai pensare di poterlo eliminare. In
questo senso, secondo l’insegnamento di Lacan, Badiou può sostenere che
non soltanto la verità è vuota, libera di accogliere gli eventi che
scuotono la nostra esistenza, ma anche molteplice, come lo stesso essere
delle cose, mai univoco e sempre plurale. È così che, pur assegnando
all’universale tutti i diritti che il relativismo contemporaneo vorrebbe
negargli, l’autore può salvare la logica del singolare, facendo ricorso
anche alla teoria matematica degli insiemi di Cantor.
Nella sua
godibilissima riscrittura della Repubblica Badiou non si limita a dar
voce al suo lessico lacaniano – trasfor-mando ad esempio la caverna
platonica in una sala cinematografica o chiamando Dio il Grande Altro –,
ma vivacizza il dialogo con una serie di trovate sceniche che egli
attinge dal proprio repertorio di drammaturgo. Riproporre oggi,
riattualizzandolo, il gesto platonico vuol dire anche ripristinare la
potenza creativa di un linguaggio filosofico sempre più appiattito sul
lessico incolore della logica formale.
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