martedì 19 marzo 2013

Ancora Revelli, la fine dei partiti di massa e il partito che meglio l'ha interpretata



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di Marco Almagisti l’Unità 19.3.13

Partendo dall’analisi di Marco Revelli e dal suo libro «Finale di partito» bisogna capire se la crisi della politica sia frutto delle conseguenze sociali  o causata dalle responsabilità delle élite nella mancata ricostruzione

La crisi dei tradizionali partiti politici è ormai conclamata. Secondo i piú recenti sondaggi, meno del cinque per cento degli italiani ha fiducia nei partiti politici, poco piú del dieci per cento nel Parlamento. Particolarmente evidente in Italia, il fenomeno è tuttavia generale: ovunque i «contenitori politici» novecenteschi stentano a conservare il consenso. . E ovunque cresce un senso di fastidio verso quella che viene considerata una «oligarchia», separata dal proprio popolo e portatrice di privilegi ingiustificati.

«ERO CONTENTO DI ESSERE UNA DI QUELLE OMBRE CHE SOLO AL CALDO DELLA LUCE GIALLA, VARCATA LA SOGLIA, RIVELAVANO LA PROPRIA FISIONOMIA. SALUTAVO CHI MI STAVA ASPETTANDO, appoggiavo il cappotto sopra un mucchio di altri cappotti, accendevo una sigaretta e mi sedevo dietro un grande tavolo spoglio». In un libro di undici anni fa, Michele Serra (Cerimonie, Feltrinelli, 2002) così descriveva la sua trascorsa militanza nel partito comunista, rievocando quel senso di comunità scaturente dall’appartenenza ad un partito di massa, che né i dati elettorali né le statistiche sulla membership dei partiti possono mai rendere nella loro interezza.
Mi sono riaffiorate alla mente queste parole durante la lettura dell’ultimo libro di Marco Revelli, Finale di partito (Einaudi, 2013), che sin dal titolo preconizza il possibile tramonto del partito politico quale protagonista attivo della vita democratica. La lettura dei testi di Revelli si rivela sempre molto utile e ricca di stimoli: già durante gli anni Novanta il politologo piemontese ci ha aiutato a comprendere le metamorfosi connesse al declino del modo «fordista» di produzione e al loro drammatico impatto sulle dinamiche della nostra vita associata (Le due destre. Le derive politiche del postfordismo, Bollati Boringhieri, 1997).
LE ANALOGIE COL RESTO D’EUROPA
Anche nel suo libro più recente, la riflessione di Revelli origina dalla consapevolezza della crisi dell’organizzazione produttiva fordista massificata e all’affermarsi di nuove forme organizzative più leggere. Così come rende incerto il controllo del territorio da parte degli Stati-nazione, tale trasformazione produttiva globale svuota di senso il modello della «democrazia dei partiti» cresciuta per decenni entro i confini nazionali. In questo modo l’organizzazione dei partiti appare agli occhi dei cittadini quale oligarchia, tenuta assieme da privilegi ingiustificati.
Risulta magistrale il capitolo iniziale, «Vasi infranti», in cui Revelli descrive l’esodo dei cittadini italiani dai partiti maggiori. In analogia, viene richiamata l’esperienza greca, i cui si ricostruiscono le fasi di rapida evaporazione dei partiti tradizionali, sotto il duplice maglio della crisi economica e della sfiducia sociale.
Viene da chiedersi se questa sia proprio una tendenza inesorabile, oppure la sorte di Paesi in cui i partiti non sono stati in grado di adattarsi alle sfide sopraggiunte. Infatti, nell’estate del 2012 in Olanda i partiti tradizionali hanno saputo respingere l’assalto delle formazioni estremiste e antieuropeiste. In Germania i partiti pro-sistema sono strutture politiche forti e funzionanti, al punto da lasciare margini di manovra molto ridotti alle forze populiste. Anche negli Stati Uniti, in un contesto segnato da profonde differenze rispetto all’Europa continentale, i due partiti rilevanti riescono a convogliare al loro interno le principali correnti d’opinione presenti nella società (e Revelli, opportunamente, ricorda quanto le fortune di Barack Obama dipendano dalla sua abilità nell’intrecciare le nuove forme di comunicazione e partecipazione legate alla rete, con le forme di militanza e di finanziamento tradizionali). Storicamente, i partiti possono vivere periodi di crisi, ma possono essere in grado di resistervi, di adattarsi e a volte possono rafforzarsi, persino in situazioni che paiono avverse. In Francia, alla fine degli anni Cinquanta, con il passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica, Charles De Gaulle volle redigere una Costituzione che penalizzasse i partiti, ma nei decenni successivi essi si sono ristrutturati e adattati al nuovo contesto.
Di fatto, l’Italia è stata l’unica democrazia consolidata di un certo rilievo in cui un intero sistema partitico è crollato, all’inizio degli anni Novanta. E siamo, al contempo, l’unico Paese occidentale in cui si è affermato un tipo di partito completamente inedito, nato per emanazione diretta di un network finanziario e mediatico, il cui leader ha potuto beneficiare per due decenni degli effetti di un enorme conflitto di interessi fra le sue attività private e le sue cariche istituzionali. Probabilmente, la crisi dei partiti in Italia non è soltanto il frutto delle conseguenze sociali derivate dalla transizione al postfordismo, bensì è dovuta anche alle responsabilità delle élite nella mancata ricostruzione di un efficiente sistema partitico post-Novantadue e nel mancato adeguamento delle culture partitiche alle nuove sfide emergenti dai contesti locali di insediamento.
LE GRANDI FABBRICHE FORDISTE
Tanto più che in Italia, le fortune dei partiti di massa non sono dipese unicamente dalla presenza delle grandi fabbriche fordiste, dal momento che i principali bacini di radicamento della Dc e del Pci si sono situati entro quelle aree della «Terza Italia» (il Nordest e l’Italia centrale) in cui, nel corso degli ultimi quattro decenni, è avvenuto lo sviluppo dei distretti industriali di piccola e media impresa, in stretto contatto con le istituzioni locali e il capitale sociale prodotto in loco. La Dc si è condannata al declino quando non è riuscita a interpretare e guidare politicamente la richiesta di maggiore efficienza amministrativa e di rappresentanza politica dei ceti emergenti di piccola e media impresa del Nordest. Il tracollo del partito democristiano ha comunque segnato il «paesaggio» locale, secondo una dinamica descritta in «tempo reale» da Ilvo Diamanti negli Anni Novanta. Il progressivo distacco delle crescenti esperienze associative dai precedenti riferimenti culturali e partitici ha provocato l’erosione delle solidarietà più ampie, lasciando esposta per lungo tempo tale porzione del nostro Paese al richiamo del particolarismo.
Oggi che anche la Lega deve affrontare scandali e spaccature interne, il Nordest deve affrontare nuovamente i problemi di coesione interna e di rappresentanza politica, ma stavolta in concomitanza di una crisi drammatica.
In tempi più recenti, anche nelle zone «rosse» sono emersi segni di logoramento e si sono verificati casi di cattivo funzionamento delle istituzioni locali, che hanno in parte offuscato il modello di buon governo tipico di queste regioni. A differenza del Nordest, in queste zone è prevalsa fino ad oggi la continuità nelle scelte di voto e negli orientamenti culturali, ma l’indebolimento organizzativo del partito di riferimento e alcune sue incertezze ideologiche in assenza del «pungolo» costituito da un’opposizione di centrodestra realmente competitiva hanno inciso negativamente sul controllo di qualità della classe politica e sul’efficacia di alcune scelte di policies. A questo punto è emersa l’insofferenza di parte dell’elettorato di sinistra nei confronti di quanti risultano identificabili come «apparato»: quando una pluridecennale eccellenza amministrativa è divenuta materia di dubbio, rendendo meno certa la riproducibilità nel futuro dello sviluppo locale. E quando l’insicurezza conseguente ha messo in discussione elementi quali l’inclusione sociale e la solidarietà che, in questa porzione d’Italia, hanno costituito per molti anni una sorta di «componente del paesaggio».
Se è vero che, sia nel caso del Nordest, sia nell’Italia centrale, non sembrano bastare la presenza di un ricco tessuto associativo e tradizioni civiche diffuse a riconnettere istituzioni e cittadini, garantendo, al contempo, sviluppo locale e integrazione sociale, allora il problema della rappresentanza politica di tali territori resta questione politica di salienza primaria. E chiama alla riflessione soprattutto chi, come il Pd, orgogliosamente rifiuta il modello di leadership mediatica e padronale e non rinnega la propria continuità con le culture politiche fondatrici della Repubblica. Forse i suoi voti mancanti non sono semplicemente imputabili alla pesantezza delle sue strutture, oppure al mancato accoglimento delle aspettative dei moderati (particolari i moderati italiani raccontati dalle cronache di queste settimane: capaci di farsi spaventare da Vendola e Camusso, ma pronti all’avventura fra le braccia di Grillo... ). Forse quei voti il Pdi ha perduti per non aver saputo infondere abbastanza fiducia ai molti che, nei territori dell’Italia flagellata dalla crisi, appendono i loro cappotti in spazi solitari, intrisi di inquietudine e sgomento.

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