Il sistema partitico in realtà è crollato all’inizio degli anni 90 con Berlusconi
martedì 19 marzo 2013
Ancora Revelli, la fine dei partiti di massa e il partito che meglio l'ha interpretata
Il sistema partitico in realtà è crollato all’inizio degli anni 90 con Berlusconi
di Marco Almagisti l’Unità 19.3.13
La crisi dei tradizionali partiti politici è ormai
conclamata. Secondo i piú recenti sondaggi, meno del cinque per cento
degli italiani ha fiducia nei partiti politici, poco piú del dieci per
cento nel Parlamento. Particolarmente evidente in Italia, il fenomeno è
tuttavia generale: ovunque i «contenitori politici» novecenteschi
stentano a conservare il consenso. . E ovunque cresce un senso di
fastidio verso quella che viene considerata una «oligarchia», separata
dal proprio popolo e portatrice di privilegi ingiustificati.
«ERO
CONTENTO DI ESSERE UNA DI QUELLE OMBRE CHE SOLO AL CALDO DELLA LUCE
GIALLA, VARCATA LA SOGLIA, RIVELAVANO LA PROPRIA FISIONOMIA. SALUTAVO
CHI MI STAVA ASPETTANDO, appoggiavo il cappotto sopra un mucchio di
altri cappotti, accendevo una sigaretta e mi sedevo dietro un grande
tavolo spoglio». In un libro di undici anni fa, Michele Serra
(Cerimonie, Feltrinelli, 2002) così descriveva la sua trascorsa
militanza nel partito comunista, rievocando quel senso di comunità
scaturente dall’appartenenza ad un partito di massa, che né i dati
elettorali né le statistiche sulla membership dei partiti possono mai
rendere nella loro interezza.
Mi sono riaffiorate alla mente queste
parole durante la lettura dell’ultimo libro di Marco Revelli, Finale di
partito (Einaudi, 2013), che sin dal titolo preconizza il possibile
tramonto del partito politico quale protagonista attivo della vita
democratica. La lettura dei testi di Revelli si rivela sempre molto
utile e ricca di stimoli: già durante gli anni Novanta il politologo
piemontese ci ha aiutato a comprendere le metamorfosi connesse al
declino del modo «fordista» di produzione e al loro drammatico impatto
sulle dinamiche della nostra vita associata (Le due destre. Le derive
politiche del postfordismo, Bollati Boringhieri, 1997).
LE ANALOGIE COL RESTO D’EUROPA
Anche
nel suo libro più recente, la riflessione di Revelli origina dalla
consapevolezza della crisi dell’organizzazione produttiva fordista
massificata e all’affermarsi di nuove forme organizzative più leggere.
Così come rende incerto il controllo del territorio da parte degli
Stati-nazione, tale trasformazione produttiva globale svuota di senso il
modello della «democrazia dei partiti» cresciuta per decenni entro i
confini nazionali. In questo modo l’organizzazione dei partiti appare
agli occhi dei cittadini quale oligarchia, tenuta assieme da privilegi
ingiustificati.
Risulta magistrale il capitolo iniziale, «Vasi
infranti», in cui Revelli descrive l’esodo dei cittadini italiani dai
partiti maggiori. In analogia, viene richiamata l’esperienza greca, i
cui si ricostruiscono le fasi di rapida evaporazione dei partiti
tradizionali, sotto il duplice maglio della crisi economica e della
sfiducia sociale.
Viene da chiedersi se questa sia proprio una
tendenza inesorabile, oppure la sorte di Paesi in cui i partiti non sono
stati in grado di adattarsi alle sfide sopraggiunte. Infatti,
nell’estate del 2012 in Olanda i partiti tradizionali hanno saputo
respingere l’assalto delle formazioni estremiste e antieuropeiste. In
Germania i partiti pro-sistema sono strutture politiche forti e
funzionanti, al punto da lasciare margini di manovra molto ridotti alle
forze populiste. Anche negli Stati Uniti, in un contesto segnato da
profonde differenze rispetto all’Europa continentale, i due partiti
rilevanti riescono a convogliare al loro interno le principali correnti
d’opinione presenti nella società (e Revelli, opportunamente, ricorda
quanto le fortune di Barack Obama dipendano dalla sua abilità
nell’intrecciare le nuove forme di comunicazione e partecipazione legate
alla rete, con le forme di militanza e di finanziamento tradizionali).
Storicamente, i partiti possono vivere periodi di crisi, ma possono
essere in grado di resistervi, di adattarsi e a volte possono
rafforzarsi, persino in situazioni che paiono avverse. In Francia, alla
fine degli anni Cinquanta, con il passaggio dalla Quarta alla Quinta
Repubblica, Charles De Gaulle volle redigere una Costituzione che
penalizzasse i partiti, ma nei decenni successivi essi si sono
ristrutturati e adattati al nuovo contesto.
Di fatto, l’Italia è
stata l’unica democrazia consolidata di un certo rilievo in cui un
intero sistema partitico è crollato, all’inizio degli anni Novanta. E
siamo, al contempo, l’unico Paese occidentale in cui si è affermato un
tipo di partito completamente inedito, nato per emanazione diretta di un
network finanziario e mediatico, il cui leader ha potuto beneficiare
per due decenni degli effetti di un enorme conflitto di interessi fra le
sue attività private e le sue cariche istituzionali. Probabilmente, la
crisi dei partiti in Italia non è soltanto il frutto delle conseguenze
sociali derivate dalla transizione al postfordismo, bensì è dovuta anche
alle responsabilità delle élite nella mancata ricostruzione di un
efficiente sistema partitico post-Novantadue e nel mancato adeguamento
delle culture partitiche alle nuove sfide emergenti dai contesti locali
di insediamento.
LE GRANDI FABBRICHE FORDISTE
Tanto più che in
Italia, le fortune dei partiti di massa non sono dipese unicamente dalla
presenza delle grandi fabbriche fordiste, dal momento che i principali
bacini di radicamento della Dc e del Pci si sono situati entro quelle
aree della «Terza Italia» (il Nordest e l’Italia centrale) in cui, nel
corso degli ultimi quattro decenni, è avvenuto lo sviluppo dei distretti
industriali di piccola e media impresa, in stretto contatto con le
istituzioni locali e il capitale sociale prodotto in loco. La Dc si è
condannata al declino quando non è riuscita a interpretare e guidare
politicamente la richiesta di maggiore efficienza amministrativa e di
rappresentanza politica dei ceti emergenti di piccola e media impresa
del Nordest. Il tracollo del partito democristiano ha comunque segnato
il «paesaggio» locale, secondo una dinamica descritta in «tempo reale»
da Ilvo Diamanti negli Anni Novanta. Il progressivo distacco delle
crescenti esperienze associative dai precedenti riferimenti culturali e
partitici ha provocato l’erosione delle solidarietà più ampie, lasciando
esposta per lungo tempo tale porzione del nostro Paese al richiamo del
particolarismo.
Oggi che anche la Lega deve affrontare scandali e
spaccature interne, il Nordest deve affrontare nuovamente i problemi di
coesione interna e di rappresentanza politica, ma stavolta in
concomitanza di una crisi drammatica.
In tempi più recenti, anche
nelle zone «rosse» sono emersi segni di logoramento e si sono verificati
casi di cattivo funzionamento delle istituzioni locali, che hanno in
parte offuscato il modello di buon governo tipico di queste regioni. A
differenza del Nordest, in queste zone è prevalsa fino ad oggi la
continuità nelle scelte di voto e negli orientamenti culturali, ma
l’indebolimento organizzativo del partito di riferimento e alcune sue
incertezze ideologiche in assenza del «pungolo» costituito da
un’opposizione di centrodestra realmente competitiva hanno inciso
negativamente sul controllo di qualità della classe politica e
sul’efficacia di alcune scelte di policies. A questo punto è emersa
l’insofferenza di parte dell’elettorato di sinistra nei confronti di
quanti risultano identificabili come «apparato»: quando una
pluridecennale eccellenza amministrativa è divenuta materia di dubbio,
rendendo meno certa la riproducibilità nel futuro dello sviluppo locale.
E quando l’insicurezza conseguente ha messo in discussione elementi
quali l’inclusione sociale e la solidarietà che, in questa porzione
d’Italia, hanno costituito per molti anni una sorta di «componente del
paesaggio».
Se è vero che, sia nel caso del Nordest, sia nell’Italia
centrale, non sembrano bastare la presenza di un ricco tessuto
associativo e tradizioni civiche diffuse a riconnettere istituzioni e
cittadini, garantendo, al contempo, sviluppo locale e integrazione
sociale, allora il problema della rappresentanza politica di tali
territori resta questione politica di salienza primaria. E chiama alla
riflessione soprattutto chi, come il Pd, orgogliosamente rifiuta il
modello di leadership mediatica e padronale e non rinnega la propria
continuità con le culture politiche fondatrici della Repubblica. Forse i
suoi voti mancanti non sono semplicemente imputabili alla pesantezza
delle sue strutture, oppure al mancato accoglimento delle aspettative
dei moderati (particolari i moderati italiani raccontati dalle cronache
di queste settimane: capaci di farsi spaventare da Vendola e Camusso, ma
pronti all’avventura fra le braccia di Grillo... ). Forse quei voti il
Pdi ha perduti per non aver saputo infondere abbastanza fiducia ai molti
che, nei territori dell’Italia flagellata dalla crisi, appendono i loro
cappotti in spazi solitari, intrisi di inquietudine e sgomento.
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