sabato 23 marzo 2013
Il centenario di Camus
A cento anni dalla nascita dello scrittore algerino, è utile affrontare le tematiche filosofiche presenti tra le righe dei suoi romanzi e scritti. Allergico ai «destini collettivi», collocava l'essere umano in un orizzonte leopardiano. Da qui, l'accusa di ignorare la storia
ARTICOLO - Sonia Gentili il manifesto 2013.03.22 - 10 CULTURA
Nell'«attualità» di un pensatore si possono cercare strumenti di critica
al presente o elementi utili a legittimarlo. È certamente del secondo
tipo l'attualità che si cerca oggi di attribuire ad Albert Camus
(Mondovi, Algeria, 1913 - Villeblevin, Francia, 1960), uno dei maggiori
scrittori e filosofi del Novecento, in occasione di questo suo primo
centenario. I temi della sua opera attraversano i maggiori campi di
tensione filosofica del secolo appena trascorso: il rapporto tra l'uomo e
la storia, quello tra morale e politica, il diritto alla violenza
rivoluzionaria da parte degli oppressi. Contro la metafisica dello Stato
che nelle filosofie a sfondo idealistico-hegeliano crea e dispiega
finalisticamente l'uomo, Camus ha affermato l'individuo concreto,
radicalmente collocato nella finitezza del presente. L'uomo di Camus si
rapporta ad una realtà priva di Dio, in cui lo Stato di tradizione
hegeliana non è che il tentativo di deificare l'oppressione dell'uomo
sull'uomo.
Il conflitto permanente
All'individuo concreto non
si offre che la possibilità della rivolta morale: da un lato
demistificare la deificazione della Storia come finalismo collettivo, e
dall'altro provare a medicare l'assenza di finalità e senso che
caratterizza la natura, cioè l'assurdo nel quale siamo collocati,
attraverso la scelta di combattere il dolore dei singoli senza
barattarlo con astrazioni - destini e felicità future, nuovi ordini ecc.
Posto che l'uomo è condannato ad essere un Sisifo che lotta senza
fine con l'assurdo naturale, egli deve lottare anche per provare a
«immaginare Sisifo felice» (A. Camus, Il mito di Sisifo, 1942). Camus
rifiutò la violenza rivoluzionaria che sacrifica concrete vite umane in
nome di una giustizia futura e affermò il concetto di rivolta etica
contro ogni omicidio nel saggio L'uomo in rivolta (1951); ciò determinò
la frattura definitiva con Jean Paul Sartre, sostenitore invece della
violenza rivoluzionaria. In merito a ciò, oggi si parteggia
graniticamente per Camus, ritratto come un «libertario» e pacifista, per
giunta coerente fino in fondo: su questo la saggistica seria (Paolo
Flores D'Arcais, Albert Camus filosofo del futuro, Codice edizioni,
2010) e i pamphlet pieni di astio da talk show (Michel Onfray, L'ordre
libertaire. Vie philosophique d'Albert Camus, Flammarion 2012)
convergono. Ma non c'è retorica più ambigua, oggi, di quella libertaria,
se non forse quella che condanna la violenza terroristica: vale la pena
allora di approfondire questo punto.
L'orizzonte su cui Camus
colloca l'uomo è in certo senso leopardiano: non storico, cioè, ma
cosmico. La condizione umana non progredisce storicamente poiché il
rapporto tra singola vita e assurdo naturale ne costituisce l'immutabile
quadro trascendentale. Il progresso si dà solo nell'azione morale del
singolo, il quale può e deve scegliere di essere solidale agli altri.
L'uomo come «solitaire solidaire» («solitario solidale») di Camus è,
appunto, assai vicino alla dottrina della «social catena» che gli uomini
debbono creare tra loro per difendersi dalla Natura, teorizzata nella
Ginestra leopardiana. Ora, se sul piano morale questa concezione
dell'uomo è indiscutibile, sul piano concettuale essa non risolve ma
rimuove, assieme all'orizzonte storico, il problema di come eliminare
l'oppressione dell'uomo sull'uomo e della violenza rivoluzionaria. Non a
caso, nella Peste (1947), che raccoglie ed esprime il trauma storico
dell'Europa nazista, il conflitto tra gli uomini è rappresentato
metaforicamente, e di fatto trasferito, nella forma di un conflitto tra
comunità umana e ordine naturale. Ma, se la metafora naturale della
peste in definitiva esorcizza l'orizzonte storico dei conflitti, cioè il
problema di una comunità umana oppressa da un'altra comunità umana e
della sovversione violenta che ne deriva, la vita e la storia imposero a
Camus l'esperienza di questo orizzonte poco meno di dieci anni dopo:
nel 1954 gli algerini presero le armi per combattere gli occupanti
francesi, alla cui comunità lo scrittore, seppur in modo socialmente
debole, apparteneva. Camus tentò di invitare le parti alla pace, e di
fronte all'inasprirsi del conflitto e agli attentati terroristici
rispose, com'è noto, che tra sua madre e la giustizia avrebbe scelto di
difendere la vita concreta di sua madre.
Le vittime algerine
potevano replicare che la loro violenza nasceva dalla storia e in difesa
di altre madri concrete; lo ha fatto quarant'anni dopo lo scomparso
Edward Said (Culture and Imperialism New York, Alfred Knopf, 1993;
traduzione italiana Gamberetti editrice, 1998) scrivendo che Camus
«ignora o trascura la storia, cosa che un algerino, costretto a subire
la presenza francese come un quotidiano abuso di potere, non avrebbe
potuto fare. Per un algerino, il 1962 rappresentò probabilmente la fine
di una lunga e disgraziata epoca inaugurata dall'arrivo dei francesi nel
1830, e il trionfale inizio di una nuova era».
Non è dunque solo
Camus ad essere attuale, ma lo scontro tra la sua posizione e quella di
Sartre: è attuale non il concetto di rivolta contro i meccanismi della
storia, ma il dilemma che oppone questa rivolta alla rivoluzione agita
per cambiare la storia. È un dilemma insoluto, poiché, se sul piano
logico le due vie sono alternative, concretamente la rivolta è l'altra
faccia della rivoluzione: ad ogni madre anteposta alla violenza
rivoluzionaria corrisponde un'altra madre uccisa dal mantenimento di un
ordine oppressivo. Oggi siamo ancora tutti di fronte a questo bivio.
Che senso ha, alla luce di tutto questo, la libertà umana per Camus? Il
senso del folgorante giudizio che Sartre diede di lui all'indomani
della sua morte («coi suoi no testardi riaffermava nella nostra epoca,
contro le machiavellerie, contro il vello d'oro del realismo,
l'esistenza del fatto morale») è che nell'opera camusiana la libertà di
scelta e la scelta morale sono affermate anzitutto in quanto rifiuto,
cioè come limiti regolativi dell'azione.
Camus è, come ha detto
Alain Finkielkraut, «un pensatore del limite» e quella camusiana è una
profondissima, geniale «ontologia del limite». Nelle sue strutturali
contraddizioni, l'antropologia di Camus è la più alta formulazione del
concetto di uomo come individuo collocato nel presente finito,
refrattario alla predeterminazione finalistica di un destino collettivo.
Storia mitico-rituale
Questo difficile cammino filosofico,
l'unico a spezzare realmente il cerchio infernale dell'antropologia
nazista, costituì un fallimento per molti intellettuali che, pur nella
nettezza della loro dissidenza, restarono interni ad un'antropologia
essenzialista e finalistica: così Thomas Mann, che nel discorso Goethe
come rappresentante dell'età borghese tenuto il 18 marzo 1932, esortò la
borghesia tedesca a contrastare l'ascesa hitleriana facendo appello al
concetto nazista di Lebensraum, «spazio vitale» («Il diritto alla
potenza è subordinato alla missione storica di cui si è o si può
legittimamente credersi esponenti. Quando lo si rinneghi o ci si
dimostri ad esso impari, converrà sparire»).
Nel Novecento,
riportare nel dominio della filosofia l'individuo in carne e ossa ha
significato riformularne la solitudine cercando una nuova mediazione tra
il singolo e la storia. Un certo pensiero antropologico - ad esempio
quello di Ernesto De Martino, cui non a caso l'idealista Croce negò ogni
statuto filosofico - ha individuato questa mediazione in un momento
fondativo ed originario di unità tra l'individuo e il tutto naturale. Il
piano della «metastoria mitico-rituale» è il motivo filosofico centrale
degli scritti di Camus che descrivono la relazione tra l'uomo e il
paesaggio algerino prodotti tra il 1936 e il 1953, poi riuniti in Nozze e
in Estate.
La percezione della natura africana - il deserto, il
mare - riconduce l'uomo alla coscienza di essere vivo, in relazione con
ciò che rende la sua vita presente. La vita è «solarità tragica»,
«pienezza angosciante» in cui tutta la storia si azzera e rinasce
concretamente, individualmente, misteriosamente nel rapporto tra natura e
singolarità concreta. È questo il senso del titolo che Camus diede al
suo ultimo romanzo, pubblicato postumo nel 1994: Il primo uomo è
l'individuo còlto nel concreto assoluto della sua esistenza, così chiusa
nel presente da rendere il figlio che visita la tomba del padre morto
in guerra a vent'anni per sempre «più vecchio» del defunto. L'amore e la
solidarietà possono medicare momentaneamente l'assurdo, ma non il suo
mistero: nella tragicità dell'eterno presente vitale non c'è spazio per
la progressione della storia.
**********************
Una mostra francese assai controversa
Le opere di Albert Camus, pubblicate in Francia da Gallimard, collection
Folio, dopo la sua morte sono state anche raccolte dal medesimo editore
in due volumi della Bibiothèque de la Pléiade («Théâtre, récits,
nouvelles», a cura di J. Grenier - R. Quillot, Paris 1962; «Essais», a
cura di L. Faucon - R. Quillot, Paris 1965); in Italia sono tradotte da
Bompiani. In vista del centenario, in Francia era stata programmata ad
Aix en Provence e affidata alla direzione di Benjamin Stora, storico
dell'Algeria nativo di Constantine, la mostra «Camus. Un étranger qui
nous rassemble». Forse su suggerimento di Catherine Camus, figlia dello
scrittore, forse per togliere centralità ai fatti d'Algeria in una città
popolata di ex coloni come Aix, il curatore è stato poi sostituito con
Michel Onfray, polemista di grande fortuna mediatica, che ha
reintitolato la manifestazione «Camus. L'Homme revolté». Onfray ha poi
abbandonato la direzione della mostra enfatizzando i conflitti e
incrementando ulteriormente la propria fortuna mediatica; si attende per
ottobre 2013 ad Aix l'apertura di una piccola mostra su Camus che nulla
avrà a che fare col progetto originario. Si segnala infine che il
citato, pregevole saggio di Paolo Flores D'Arcais, «Camus filosofo del
futuro», Codice edizioni, 2010, è seguito dalla pubblicazione degli atti
di una interessante tavola rotonda tra Flores D'arcais stesso, Maïssa
Bey, Alain Finkelkraut, Jacqueline Lévi-Valensi e Fernando Savater.
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