
Marco Vannini:
Lessico mistico.
Le parole della saggezza, Le Lettere, Firenze 2013
Risvolto
La mistica è la vera erede e continuatrice della filosofia classica,
nel suo senso originario e autentico di ricerca della saggezza –
esercizio di vita ed esercizio di morte, secondo la definizione di
Platone.
Ben oltre ogni riduzione del mistico al misterico, all'esoterico,
questa consapevolezza, recentemente messa in evidenza anche da Pierre
Hadot, riporta la mistica alla sua reale dimensione, che è l'universale
della ragione, ovvero ciò che è propriamente umano.
Il presente Lessico prende in considerazione circa settanta parole – in ordine alfabetico da Abbandono, Amore, Anima, fino a Uno, Visione, Volontà, Vuoto
– del nostro linguaggio di cui spesso non si percepisce più, ovvero non
si conosce, il significato profondo. Illustrandone il loro uso nella
tradizione mistica, si rende più agevole l'accesso ai testi dei grandi
maestri dello spirito, antichi e moderni, e, nello stesso tempo, si
indica la possibilità di percorrere in prima persona il cammino della
interiorità, della saggezza, della beatitudine.
Il silenzio dell’anima
Parla il grande studioso di Meister Eckhart e Simone Weil “Il dogma è nemico della conoscenza”
“Chi si rivolge all’
assoluto senza mediazione è oggetto di censura e condanna da parte della Chiesa”
Marco Vannini: Perché l’Occidente ha dimenticato i suoi mistici
di Antonio Gnoli Repubblica 30.3.13
Le
poche nozioni che so intorno al misticismo le appresi da Padre Pozzi
che incontrai a Lugano alcuni anni fa e mi spiegò in che cosa consisteva
la libertà di certe Sante. E le ricavai anche dalle poche volte che
vidi Raimon Panikkar che se avesse voluto avrebbe portato nelle piazze
più gente di Beppe Grillo. Era commovente sentirli parlare. E mi
chiedevo se le parole che pronunciavano li obbligava a una coerenza, a
una prassi, a un comportamento in linea con le loro riflessioni. Si può
studiare la mistica senza esserne in qualche modo coinvolti, colpiti,
iniziati? Simone Weil fu la testimonianza che la mistica non è
conoscenza, ma sapienza e che ogni cosa che pensi attorno ad essa è come
se la pensassi su di te. È la parola che si fa carne.
Sono alcuni
anni che seguo il lavoro di Marco Vannini. I suoi studi sono interamente
dedicati alla mistica: alla sua storia, alle differenze che nel suo
seno sono intervenute, ai fraintendimenti che l’hanno segnata. L’anno
scorso uscirono per Bompiani i Commenti all’Antico Testamento di Meister
Eckhart che Vannini ha curato con mirabile competenza. Mentre è di
questi giorni Lessico mistico (edito da Le Lettere), una bella, chiara e
convincente ricognizione tra le parole che ci servono per accostarci a
questo oggetto misterioso che a volte identifichiamo con la religione.
Si può comprendere la mistica senza esserne coinvolti?
«Ciò
che chiamo mistica non è come scegliere un settore di ricerca
intellettuale. Ma il terreno ove cercare la risposta alla domanda: come
conoscere l’anima e Dio. Non credo, perciò, che si possa essere
“studiosi di mistica” senza una profonda esigenza religiosa. A volte
occorrono anni, a volte un attimo solo, per ottenere quella evangelica
rinuncia a se stessi, senza la quale le pagine dei grandi mistici
restano un libro chiuso».
A proposito di grandi mistici è centrale,
nella sua formazione, Meister Eckhart. È singolare che al suo pensiero
si interessarono più che i teologi alcuni grandi filosofi.
«Fu Hegel a
vedere nel pensiero di quel maestro medievale il proprio pensiero. Non
capiremmo nulla della sua dialettica senza la riflessione di quel grande
mistico. D’altra parte, Heidegger confessò alla fine della sua vita,
che il pensiero di Eckhart lo aveva occupato a lungo. Se prendiamo la
filosofia nel suo senso forte, originario, greco — che non è quello di
una professione intellettuale, ma di una scelta di vita — allora è
possibile accostarla alla mistica».
A chi pensa?
«Anzitutto a
Platone e al platonismo che rappresentano il “luogo mistico” per
eccellenza. Ma poi, in ogni vero filosofo si scopre il riferimento a
quella dimensione del profondo dell’anima in cui il mistico abita. E
penso a Wittgenstein, cui infatti dedicai la mia tesi di laurea. La
mistica è il terreno della riservatezza, del silenzio, e non ha nulla in
comune con quel parlare invano che è la teologia. Purtroppo la mistica
in Occidente è stata prevalentemente tenuta sotto il controllo della
istituzione ecclesiastica. Il mistico che si rivolge all’assoluto senza
mediazione alcuna è stato spesso oggetto di censura e di condanna da
parte della Chiesa».
La mistica in occidente è stata soprattutto un
affare interno allo scontro teologico, mentre in Oriente ha puntato
all’affinamento delle tecniche del pensiero. La convince questa
distinzione?
«L’Oriente, ovvero essenzialmente l’India, privo del
controllo dogmatico, ha sviluppato una ricerca per certi aspetti più
libera. Ma l’utilizzo di una serie di tecniche per la meditazione ha
rappresentato un limite».
In che senso?
«Dove c’è un primato della
tecnica lì c’è uno scopo, un “perché” e dove c’è un perché la libertà
dell’intelligenza è finita. Cifra essenziale del mistico è infatti
essere “senza perché”, come Dio, e come la “rosa” dei celebri versi di
Silesius, su cui ha riflettuto anche Heidegger. Da ciò anche la
delusione che spesso esperimentano quegli occidentali che, non trovando
nel cristianesimo soddisfazione alle loro esigenze di verità e
profondità, si sono rivolti all’Oriente. In realtà l’Occidente
custodisce tesori di intelligenza spirituale, solo che sono stati spesso
ricoperti dall’incomprensione e dal dogmatismo del potere».
Contro
questa incomprensione reagirono nel Novecento due figure come Simone
Weil e Etty Hillesum. Perché in loro fu fondamentale la relazione con il
mistico?
«Per l’esigenza di verità che le animò e per l’onestà della
loro ricerca che fu prima di tutto onestà di vita. Il loro esser donne
le aiutò e, non a caso, la storia della mistica è costellata di figure
straordinarie di donne, dal momento che amore, abnegazione, distacco
sono (almeno così si diceva) caratteristiche tipicamente femminili».
Che cos’hanno in più queste tre parole?
«Sono tutte e tre contenute nei testi che possiamo prendere a fondamento: il
Convito
di Platone e il Vangelo — ultima espressione del genio greco scrisse la
Weil — , esprimono con sfumature diverse la stessa realtà. Aggiungerei
una quarta parola che è beatitudine. Perché l’esito della vita mistica
non è né il piacere né la felicità, che dipendono dalle circostanze, ma
la beatitudine appunto».
Non è un traguardo per pochi?
«Per tutti
coloro che sanno affrontare il cammino. Un cammino verso le beatitudini
evangeliche ma anche verso quella beatitudine con cui, insieme alla
salvezza, Spinoza conclude la sua Etica».
Parole come “beatitudine”, “salvezza” non promettono la realizzazione dell’irrealizzabile?
«Se
teniamo presente il legame indissolubile tra beatitudine e salvezza, ci
appare fuorviante ogni utilizzazione del termine mistica al di fuori
del campo suo proprio, che è quello spirituale. La politica e perfino il
mondo del web oggi sono stati in certi casi attraversati dalla mistica.
Ma io direi di mantenere il significato delle parole nell’ambito
rigorosamente loro proprio, per evitare la confusione del linguaggio,
che è poi la confusione del pensiero».
Viviamo una crisi materiale e
spirituale senza precedenti. La gente chiede giustizia e non solo
diritto. La mistica ha ben presente la distinzione. Ma la giustizia che
invoca la mistica non rischia di essere l’irrealizzabile utopia del
cuore? In altre parole non ritiene che il limite della mistica sia di
essere fuori dalla storia?
«È stata Simone Weil a ricordarci che
giustizia e diritto non sono parenti stretti, giacché il diritto si
fonda sulla forza. E quanto al praticare la giustizia non ritengo sia
un’utopia ma, come insegna Eckhart, un modo di essere nella verità.
Senza pretendere affatto di instaurare regni di Dio su questa terra, il
mistico sta dunque nel mondo ed opera in esso».
Ammetterà che ci sono
esempi nella storia di personaggi che nel nome della purezza e della
verità della giustizia hanno compiuto orrori e misfatti. Non vede il
rischio?
«Sarei uno sciocco se non lo vedessi. Ma, appunto, “essere
la giustizia” non significa arrogarsi un arbitrario ruolo di
legislatore, né parlare in nome di un qualche presunto Dio. Significa
invece spogliarsi della propria egoità. La giustizia legata al proprio
Io scatena le paranoie peggiori e crea i mostri teologici che la storia
ha conosciuto: Hitler, Stalin, Mao, Pol Pot».
È molto difficile spogliarsi del proprio Io. E quando ciò avvenisse non si è automaticamente fuori dalla storia?
«È
difficile, certo, liberarsene. Ma tutt’altro che impossibile. E poi
nella storia ci si sta comunque. Francesco d’Assisi, per fare un esempio
che è tornato alla nostra attenzione, non è stato nella storia? Non
continua ad esserci? I grandi mistici sono stati anche uomini e donne di
azione. Dove cerchi Etty Hillesum se non nella tragedia storica di
Auschwitz? La contemplazione non nega l’azione. E il vero mistico è
colui che rischia più di tutti».
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