Esce
domani in libreria il saggio Machiavelli di Gennaro Maria Barbuto
(Salerno Editrice, pagine 380, 23). La stessa Salerno ha appena
pubblicato il tomo degli Scritti in poesia e in prosa di Machiavelli,
nell'ambito della Edizione nazionale delle Opere del grande autore
fiorentino. Uscirà invece nei prossimi mesi per i tipi del Mulino un
saggio di Donald Weinstein intitolato Savonarola. Ascesa e caduta di un
profeta del Rinascimento
Passa per il 1498, tra una lettera di
Machiavelli e le fiamme che bruciarono Savonarola, la linea di
demarcazione che separa il Medioevo dal tempo moderno. Lo hanno scritto,
più o meno esplicitamente, Federico Chabod, Roberto Ridolfi, poi
Eugenio Garin, Carlo Dionisotti, Luigi Russo e, in tempi più recenti,
Gennaro Sasso, Mario Martelli, Francesco Bausi. Ma, già prima di loro,
Francesco De Sanctis, nella sua Storia della letteratura italiana, fu
esplicito: «Savonarola è una reminiscenza del Medioevo, profeta e
apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero
borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla
alla buona e alla naturale… È in lui lo spirito ironico del
Risorgimento con lineamenti molto precisi de' tempi moderni». Sulla
stessa linea interpretativa, Giosuè Carducci, nei discorsi Dello
svolgimento della letteratura nazionale (1874), ritrae il «pallido viso»
di Machiavelli che, «in qualche canto della piazza», assiste sorridendo
«pietosamente» alle prediche del frate.
Ma perché come spartiacque
abbiamo scelto proprio il 1498? Quello di cui qui parliamo è l'anno del
passaggio di testimone, per così dire, tra l'infuocato Girolamo
Savonarola, originario di Ferrara, e il duttile fiorentino Niccolò
Machiavelli. Quattro anni prima, la discesa in Italia di Carlo VIII
aveva causato a Firenze la caduta del regime mediceo (Piero de' Medici,
figlio di Lorenzo, era stato accusato di aver ceduto all'imperatore le
fortezze di Pietrasanta, Sarzana, Sarzanello, Ripafratta, Livorno e
Pisa) e l'instaurazione della repubblica. Repubblica nella quale il
frate domenicano Savonarola avrebbe avuto, tra il 1494 e il 1498, un
ruolo da protagonista. Protagonista nient'affatto «medievale», come ha
ben raccontato Donald Weinstein nella splendida monografia che tra
qualche mese sarà pubblicata in Italia dal Mulino con il titolo
Savonarola. Ascesa e caduta di un profeta del Rinascimento.
Firenze
era stata sconvolta dalla vicenda del profeta che aveva dominato per
quattro anni la scena politica ed era poi finito sul rogo. Savonarola si
era messo in urto con il papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia) e, due
mesi prima che venisse mandato sulla pira (23 maggio del 1498),
Machiavelli si era occupato di lui in una celebre lettera (scritta il 9
marzo 1498) al prelato della Curia romana Ricciardo Becchi, che aveva
chiesto informazioni. In seguito, poche settimane dopo la morte di
Savonarola, Machiavelli aveva ottenuto la carica di segretario della
seconda cancelleria di Firenze, prendendo il posto di Alessandro
Braccesi, ardente seguace del frate domenicano. Intrecci sui quali si
sofferma con una riflessione originale Gennaro Maria Barbuto nei
capitoli iniziali di un importante libro dedicato all'intera figura di
Machiavelli, che sta per essere dato alle stampe dalla Salerno Editrice.
Come
prima cosa Barbuto si compiace del fatto che, a ridosso delle
celebrazioni (nel 1998) per i cinquecento anni dalla morte, studi e
convegni ci abbiano offerto un'immagine nuova di Savonarola, finalmente
«liberato da logori stereotipi, come quelli di un fanatico delirante o
di un Rasputin di fine '400». Stereotipi che indussero a un giudizio
assai negativo anche Antonio Gramsci, il quale confinò il frate «in un
vaneggiamento politico generatore di astratti e inconcludenti furori
politici». Nel nuovo clima (anche per merito di Weinstein) è possibile
ora ricostruire i legami del domenicano «non solo con il profetismo e il
millenarismo medievali, ma anche e soprattutto con la Firenze
umanistica e con il repubblicanesimo di quella stessa città che non si
era mai completamente estinto, nemmeno durante la signoria medicea, e
avrebbe avuto una forte e varia reviviscenza dopo la cacciata di Piero
de' Medici».
A dispetto della fedeltà al tomismo che lo avrebbe
indotto a preferire un regime monarchico, Savonarola, nel Trattato circa
il reggimento e il governo di Firenze, accentuò le riflessioni sulla
figura del tiranno, considerato un monarca degenerato, noncurante del
bene comune, attento solo ai suoi interessi e, come tale, «nemico di
Cristo». Nella predicazione savonaroliana fu centrale il tema della
renovatio spirituale e civile, in virtù della quale si prometteva a
Firenze di «assurgere a centro irradiante della rinascita religiosa
dell'Italia contro la insopportabile corruttela ecclesiastica». Un
profondo rinnovamento, che, osserva Barbuto, «nonostante gli eccessi dei
bruciamenti delle vanità (ossia gli oggetti di lusso) e delle
processioni dei fanciulli del frate, i quali si scagliavano contro
prostitute e noti peccatori, non può essere corrivamente letto come un
mero ritorno a presunte tenebre medievali».
I fiorentini si divisero
tra i suoi seguaci — «frateschi» o «piagnoni» — e avversari — «bigi»,
«arrabbiati», «compagnacci» — che agivano in combutta con i francescani
guidati dal predicatore Mariano da Genazzano. Molti ottimati, filosofi e
artisti si schierarono dalla parte di Savonarola. Tra questi Piero
Guicciardini (padre di Francesco, che in seguito, nelle Storie
fiorentine, avrebbe giudicato il frate «uomo valentissimo»), Pico della
Mirandola (che stimò il profeta ma morì nel 1494, cosicché non poté
conoscere la sua azione politica nei tempi successivi alla caduta dei
Medici), Marsilio Ficino e Botticelli. Di Machiavelli, Donald Weinstein
mette in evidenza qualche assonanza savonaroliana come «l'intonazione
profetica e millenaristica, documentata soprattutto dall'ultimo capitolo
del Principe, sebbene il Segretario, diversamente da Savonarola, avesse
emancipato la politica da ogni ipoteca provvidenzialistica». Nel suo
Savonarola (Bur) Pierre Antonetti ha sottolineato che fu proprio
Machiavelli a notare quanto il predicatore domenicano «agì in conformità
con la sua etica», secondo cui «il regno di Dio in terra pretendeva
talvolta che si versasse senza esitazione sangue colpevole».
Ma
torniamo al giovane Machiavelli. Egli, scrive Barbuto, «non poteva non
risentire degli effetti della predicazione del frate, il quale, non
assumendo alcuna carica pubblica ufficiale, giustificava il suo impegno
civile con l'esempio di santa Caterina da Siena; il rapporto di
Machiavelli con Savonarola è una delle questioni critiche più ricorrenti
e diversamente declinate; il dittico di Savonarola e Machiavelli, nel
quale un ritratto era il rovescio dell'altro, è stato, nella
storiografia sul Rinascimento, una sorta di genere prosopografico, una
riedizione delle Vite parallele plutarchiane». Mentre «il predicatore si
offriva bene a raffigurare un autunno ormai anacronistico del Medioevo
in una Firenze laica e mondana, poco proclive a lasciarsi sedurre, se
non per effimere parentesi, da voci profetiche in ritardo sulla storia,
dall'altra parte, Machiavelli si prestava altrettanto bene a
esemplificare una sensibilità cinica e refrattaria a qualsiasi valore
religioso, tutta protesa alla pre-nietzscheana affermazione di una
individualistica volontà di potenza». A tale proposito Barbuto ricorda
la contrapposizione proposta da Luigi Russo «fra Machiavelli che
raffigurava un tecnico della politica e Savonarola, patrocinatore di una
vita associata tutta pervasa dall'entusiasmo profetico».
Va
ricordato inoltre che è di quegli stessi anni di fine Quattrocento una
traduzione di Machiavelli del De rerum natura di Lucrezio, «testo assai
poco consono all'ispirazione savonaroliana». Ciò che prova la sua
adesione alla «concezione di un universo non pacificato, nel quale gli
elementi e gli uomini sono inclini a confliggere tra di loro»,
concezione che sarebbe divenuta «una delle fonti della visione
machiavelliana della storia e della politica». E che si ritrova nella
lettera al prelato fiorentino di cui abbiamo detto all'inizio.
Qual è
il suo contenuto? Machiavelli risponde a Ricciardo Becchi, che gli
aveva chiesto di descrivergli le prediche tenute dal frate in San Marco
ai primi di marzo del 1498. Dieci mesi prima Alessandro VI aveva
scomunicato Savonarola e adesso il Pontefice minacciava l'interdetto
contro Firenze, se la città non gli avesse consegnato il domenicano (il
predicatore si difendeva maledicendo il Papa e sostenendo che «la
scomunica proveniva dal diavolo»). Nella lettera a Becchi, Machiavelli,
nota Barbuto, descrive non senza ammirazione come «l'intenzione precipua
del domenicano» fosse «quella, in una situazione di grave rischio per
sé e i suoi seguaci, di rafforzare e compattare la sua parte e di
demonizzare quella avversa». Molti anni prima di scrivere Il Principe,
nota ancora Barbuto, Machiavelli rileva «acutamente l'accorta strategia
di Savonarola, che, pur riconfermando, al fine di incoraggiare e
confortare i suoi, le profezie di felicità e di dominio di Firenze,
aveva proiettato il rancore dei suoi proseliti verso un eventuale
tiranno (e, ai suoi occhi, era tiranno chiunque tentasse di espellerlo
dalla città)». In questo modo «il frate sapientemente bilanciava nel suo
popolo paure e speranze». Inoltre, Machiavelli «svelava la capacità del
domenicano di modificare astutamente la sua tattica, adeguandola
prontamente all'emergere di nuove contingenze politiche».
Mario
Martelli, che ha rivoluzionato le interpretazioni del rapporto tra il
«Segretario» e il «Profeta» e ha studiato a fondo questa lettera a
Becchi, ha distinto nettamente tra la valutazione complessiva
machiavelliana, «di parte», sul quadriennio 1494-98 e il suo giudizio,
sostanzialmente positivo, sulle qualità politiche del predicatore
domenicano. E Francesco Bausi nel suo Machiavelli (Salerno) concorda con
Martelli: la «valutazione machiavelliana pesantemente negativa, non
senza sfumature sarcastiche», dell'operato del frate è da ricondurre a
«una valutazione tutta politica, dettata dalla situazione e dalla logica
di schieramento che lo spingeva a vedere nel Savonarola il principale
nemico della propria parte, l'avversario da battere per ripristinare la
piena libertà repubblicana». D'altra parte, ricorda Bausi, i meriti che
avrebbero innalzato Machiavelli all'ufficio di segretario furono «di
natura politica», o per dir meglio «partitica». «Di fronte a un ex
mediceo come il Gaddi e a un ex savonaroliano come il Baroni (benché
quest'ultimo, come molti a Firenze, avesse poi clamorosamente voltato le
spalle al frate)», scrive Bausi, «Machiavelli doveva essere a tutti gli
effetti creatura dell'oligarchia fiorentina, quell'oligarchia che
adesso, conclusosi il turbolento quadriennio del Savonarola, tornava a
rialzare la testa e a prendere in mano le redini della città, decisa a
restaurare un governo "di pochi"… La "tessera", insomma (potremmo dire
attualizzando), aveva la meglio sul merito e sulle competenze: e così un
outsider come Niccolò Machiavelli poteva assurgere alla carica di
segretario della seconda cancelleria».
Che fosse un avversario del
frate lo si desume anche dall'insuccesso cui era andato incontro, nel
febbraio del 1498 (ossia nell'ultima fase del regime savonaroliano) un
suo precedente tentativo di ottenere la carica di secondo segretario
della signoria. Era dunque Machiavelli un piccolo nemico di Savonarola.
Però, come uomo politico, Savonarola invece lo intrigava. E molto.
È
interessante — per riandare al canone precedente — riprendere, a questo
proposito, quel che scrisse Giuseppe Prezzolini nella sua Vita di
Niccolò Machiavelli fiorentino (Rusconi). È straordinario, notava
Prezzolini, «vedere in mezzo alle passioni, agli urti, alle fantasie
eccitate e al generale confusionismo dello spirito fiorentino di quel
momento, un giovane, che avrebbe avuto tutte le ragioni politiche
d'andar d'accordo col Savonarola, mettersi risolutamente in disparte,
non credere a nulla di quello che diceva, pesarlo come forza politica e
presentire che essa si sarebbe dissolta alla prova del fuoco». Con
grande disprezzo, Machiavelli «deve aver considerato il profeta
ch'entusiasmava i suoi fiorentini; e di quel disprezzo si sente ancora
tutto il peso nel nomignolo con il quale ha poi bollato tutti coloro
che, come il Savonarola, hanno eccitato gli uomini a ideali troppo alti
per l'universa mediocrità, lontani dalla realtà dei loro tempi, e non
decisi ad adoprare i mezzi necessari per realizzarli… I profeti
disarmati».
Fin da allora, proseguiva Prezzolini, «lo spirito del
Machiavelli dimostrava una sanità persino impudica in quei tempi — una
sanità tanto eccezionale, da dirsi quindi una malattia —, un equilibrio
siffatto da poter parere pazzia… Essa ha qualche cosa di prodigioso e
quasi di spaventoso… Non va confusa con lo scetticismo e con l'ostilità
politica degli avversari del Savonarola… È la saggezza alta e siderea,
dalla quale scende una luce fredda e uguale… I suoi raggi sperdendosi
per l'infinito, toccano, con inflessibile luce e giustizia, anche
l'avvenimento che in quell'attimo commuove, anima, esaspera tutti… Ma
colui che li emette è distante milioni di leghe». Quando si riflette su
questa prima presentazione del Machiavelli, noi «lo vediamo già tutto
intero, armato e direi nello stesso tempo disarmato dalla sua potente
intelligenza e da una enorme capacità di attirare odio e incomprensione…
A noi par di vederlo in fondo a una navata della chiesa di San Marco,
ritto, studiando col commento del suo risolino il profilo del frate che
dall'alto della cattedra andava minacciando preti e tiranni, donne
allegre e dottori, e gli avversari suoi delle vendette del Cielo,
volendo tirare il mondo indietro di secoli». Per poi così concludere:
«Savonarola era il Medioevo, Machiavelli era il tempo moderno che
nemmeno i suoi tempi potevano intendere; Savonarola aspettava tutto da
Dio, Machiavelli tutto dall'uomo».
Del resto anche Federico Chabod
negli Scritti su Machiavelli (Einaudi) aveva messo in risalto come al
«segretario» quel che preme «è il problema politico onde già allora egli
vede e giudica con criteri puramente politici; mentre per il domenicano
il primum è il problema religioso… Savonarola è il "profeta disarmato",
e quand'anche si voglia ammettere la sua buona fede e il suo fervor
religioso, sta di fatto che politicamente costruiva nella sabbia».
Secondo Chabod, il frate è per Machiavelli «un arrivista, diremmo noi,
un furbo capopartito che si vale della religione per conseguire i suoi
fini ben precisi… La predicazione savonaroliana è ridotta a mero
espediente di un frate ambizioso, che vuol tenersi a galla e mantenere
il suo potere morale sulla cittadinanza; tutto quello che è al centro
dell'azione del domenicano — l'anelito a un profondo rinnovamento
"morale" della Chiesa — e che d'altronde si esprime, contemporaneamente,
in altre parti d'Italia, a opera di altri e meno noti predicatori,
sfugge al Machiavelli». Interessante puntualizzazione. Tra l'altro
Chabod aveva notato come in una lettera (18 maggio 1521) a Francesco
Guicciardini — 23 anni dopo quella a Becchi —, Machiavelli avesse
attenuato la durezza del giudizio su Savonarola.
Adesso, in ogni
caso, si tende a dar maggiore valore al nesso che, al di là
dell'appartenenza a opposti fronti politici, univa i due. L'idea che una
comunità timorata di Dio possa cogliere «naturalmente» il «premio della
gloria collettiva», ha ricordato Quentin Skinner nel suo Machiavelli
(Il Mulino), era comune tra i contemporanei dell'autore del Principe.
Come Machiavelli stesso osservava, «questo era stato lo scopo della
predicazione di Savonarola quando aveva persuaso i fiorentini "che
parlava con Dio" e che il messaggio di Dio alla città era che Egli
l'avrebbe riportata all'antica grandezza se fosse tornata alla
religiosità originaria… E tuttavia le convinzioni personali di
Machiavelli sul valore della religione lo portarono a discostarsi, sotto
due aspetti fondamentali, da questa visione ortodossa del problema».
Machiavelli,
secondo Skinner, differisce dai seguaci di Savonarola proprio per i
motivi per cui desidera conservare le basi religiose della vita
politica: «In fondo non gli interessa la questione della verità
religiosa; è interessato esclusivamente al ruolo svolto dal sentimento
religioso "ad animire la plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare
vergognare i rei"; e giudica il valore delle diverse religioni
unicamente in funzione della loro capacità di ottenere risultati utili».
Ne
discende per Machiavelli una netta preferenza per l'antica religione
dei Romani su quella cristiana. Perché il cristianesimo è stato
interpretato in modo da minare le doti necessarie a una vita civica
libera e vigorosa. Esso «ha glorificato uomini umili e contemplativi»,
ha «posto il sommo bene nell'umiltà, abbiezione e dispregio delle cose
umane», togliendo ogni valore alla «grandezza dell'animo, fortezza del
corpo», e agli altri tributi di un cittadino virtuoso. Imponendo
«quest'immagine oltremondana dell'eccellenza umana, non soltanto ha
mancato di promuovere la gloria civica, ma ha contribuito al declino e
alla caduta di grandi Stati corrompendo la loro vita associata». Il
prezzo di tutto ciò, conclude Machiavelli («con ironia degna di Gibbon»,
sostiene Skinner) è stato aver prodotto un «mondo debole» e averlo
«dato in preda» a «uomini scelerati».
Skinner osserva anche che per
Machiavelli un capo virtuoso deve sapere come comportarsi con gli
invidiosi. Ma né Savonarola, né altri come lui (Pier Soderini, il
gonfaloniere che nel 1512 avrebbe capitolato e riconsegnato Firenze ai
Medici) seppero «vincere l'invidia» e, di conseguenza, «rovinarono».
Savonarola, come ogni altro capo virtuoso, avrebbe dovuto essere
circospetto e prudente e soprattutto avrebbe dovuto studiare le lezioni
della storia. E così anche la Firenze dei tempi successivi (quelli della
guerra contro Pisa), che, se «avesse letti e conosciuti gli antichi
costumi de' barbari, non sarebbe stata ingannata da loro». Un capo
virtuoso dovrebbe essere uomo circospetto e prudente: ma i governanti di
Firenze si mostrarono così ingenui di fronte al tradimento di Pisa (che
si era schierata con Carlo VIII), e alla guerra che ne seguì, che
condussero la repubblica alla completa rovina.
Anche Augustin
Renaudet ha messo in risalto come Machiavelli, che pure da giovane
«aveva certamente dubitato di fra' Girolamo e aveva sospettato in lui
l'artificio e l'impostura» fino a esplicitare che, a suo avviso, si
adattava alle circostanze «per colorare le sue menzogne», più tardi —
nella lettera a Guicciardini che, come abbiamo visto, aveva attirato
l'attenzione di Chabod e di molti altri — lo avrebbe definito «versuto»,
cioè furbo e abile. Nel Principe, partendo dal celebre assioma secondo
cui «tutti e' profeti armati vinsono e li disarmati ruinorno», scelse
come esempio dei profeti disarmati, ha notato Pierre Antonetti, proprio
Savonarola, che «ruinò ne' sua ordini nuovi, come la moltitudine
cominciò a non credergli; e lui non aveva modo a tener fermi quelli che
avevano creduto né a far credere e' discredenti». Dallo stesso testo
però si desume, come ha scritto Renaudet, che «Machiavelli rifiutò il
suo consenso alla riforma civile tentata dal grande domenicano» anche se
lodò «il sapere, la prudenza e la virtù» di quel predicatore.
L'idea
che una comunità timorata di Dio possa cogliere naturalmente il premio
della gloria collettiva, ha ricordato Quentin Skinner, era comune tra i
contemporanei di Machiavelli. Come egli stesso osservò, questo era stato
lo scopo della predicazione di Savonarola a Firenze dal 1490 in poi,
quando il frate aveva persuaso i fiorentini che, appunto, «parlava con
Dio», e che il messaggio di Dio alla città era che lui, fra' Girolamo,
l'avrebbe riportata all'antica grandezza se avesse saputo tornare alla
religiosità originaria. Perciò con una punta di cinismo giunge alla
conclusione che i leader di ogni comunità devono «favorire e accrescere»
tutte le cose «che nascano in favore» della religione, ma hanno altresì
il dovere di comportarsi «come se le giudicassero false».
Da tutto
ciò, conclude Barbuto, si desume «un atteggiamento di Machiavelli non
certamente simpatetico nei confronti di Savonarola e meramente
improntato a criteri politici». E però il giudizio machiavelliano «si
appunta su una valutazione disincantata, che non tralascia di apprezzare
le qualità politiche e retoriche del frate». A questo livello della
maturazione intellettuale di un giovane fiorentino in procinto di essere
ammesso nei ranghi della repubblica, «la questione savonaroliana non
provoca ancora la riflessione sulla profezia e sulle implicazioni
religiose nella vita politica che troveremo nel Principe e nei
Discorsi». C'è già un'anticipazione del Machiavelli per cui «la politica
era conflitto, altrimenti era ineffettuale e destinata al fallimento».
Ma «la politica era anche unità, altrimenti degenerava nella lotta
faziosa e autodistruttiva».
In effetti, chiosa Barbuto, «anche per
Machiavelli, e non potrebbe essere diversamente pena la ineffettualità
di ogni proposta politica, il conflitto non poteva prescindere da un
ordine; l'unità della politica era immanente al conflitto; la politica
era tensione fra unità, quindi ordine, e conflitto… Per Machiavelli, non
era possibile redenzione insita nella storia e nemmeno, contrariamente a
quanto immaginavano gli utopisti, da More a Campanella, era possibile
la realizzazione di un Eden, "artefatto", "tecnico", disciplinato e
senza più scissioni». Qualcosa di tutto ciò si intravede già nelle sue
riflessioni su Savonarola. A saper leggere con attenzione, si scoprono
molte anticipazioni di quel che scriverà anni dopo. Pensare che il
Cinquecento era ancora di là da venire. E che, all'epoca, Machiavelli
aveva appena 29 anni.
Il ritorno di Machiavelli
Una nuova biografia del pensatore per scoprire l’attualità della sua operadi Giulio Ferroni l’Unità 18.4.13
Nell’anno del 500entenario del Principe, Gennaro Maria Barbuto porta in libreria una nuova biografia politico-intellettuale di Machiavelli. Il Segretario desta interesse soprattutto nei periodi più drammatici e decisivi della storia europea moderna: dalle guerre di religione alla formazione dello Stato moderno, alla crisi rivoluzionaria e post-rivoluzionaria, al Risorgimento fino al tragico Novecento fra il ’14 e il ’45. La sua politica è ricerca di un bene comune, che sia espresso in leggi, non a beneficio della singola parte, ma della res publica.
Viviamo nel paradosso di una lotta politica che si svolge nella generale liquidazione della competenza
Lui invece rivendica esattamente la sua conoscenza politica frutto della sua esperienza
Nel quinto centenario de «Il principe» il libro di Barbuto inaugura una fitta serie di iniziative editoriali a lui dedicate, tra cui per la Treccani un’Enciclopedia machiavelliana diretta da Gennaro Sasso
VIVIAMO NEL PARADOSSO DI UNA LOTTA POLITICA CHE SI SVOLGE SOTTO IL SEGNO DEL DISCREDITO DELLA POLITICA, di una generale e stupida liquidazione dell’esperienza e della competenza, alla ricerca perpetua di un «nuovo» che spesso si appoggia ai più frusti modelli pubblicitari e mediatici, agli effetti dell’apparire, o a recitazioni di moralismo del tutto prive di spessore intellettuale. Avrebbe molte cose da dire in proposito il vecchio Niccolò Machiavelli, del cui Principe (o meglio della sua prima stesura) ricorre quest’anno il quinto centenario: e avrebbe da dirle non tanto per il suo acume teorico, ma per la sua stessa esperienza personale, per la competenza acquisita ed esercitata nei quindici anni (dal 1498 al 1512) del suo lavoro di segretario della seconda cancelleria della repubblica fiorentina e per l’insistenza con cui, una volta perso il posto per il ritorno al potere della famiglia dei Medici, continuò a rivendicare quella sua competenza, la sua dedizione alle istituzioni, la sua passione per l’«arte dello stato», aspirando ancora a «voltolare un sasso» nel campo della politica.
La riflessione di Machiavelli sulla politica, non solo nel Principe, ma nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e in tanti altri scritti, scaturisce sempre direttamente dal suo impegno a guardarla dall’interno, dall’averla esercitata direttamente e dal volerci tornare dentro.
Per questo è essenziale prestare attenzione alla sua biografia, al nesso strettissimo tra la sua vicenda personale e le sue grandi opere, in un’esistenza tutta calata dentro la difficile e convulsa situazione dell’Italia e di Firenze di fine Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, tra le molteplici difficoltà a cui in quegli anni erano esposti gli stati italiani, sotto la pressione delle invasioni straniere.
Particolarmente utile e tempestiva appare allora la biografia di Gennaro Maria Barbuto, Machiavelli, Salerno editrice (2013, pp.380, €.23,00), che inaugura una fitta serie di iniziative editoriali previste per questo quinto centenario del Principe, tra cui per la Treccani un’Enciclopedia machiavelliana diretta da Gennaro Sasso.
Intanto procede verso la conclusione quello che può essere considerato il più importante risultato degli studi machiavelliani degli ultimi decenni, e cioè l’Edizione nazionale delle Opere presieduta da Enrico Malato, pubblicata dalla stessa Salerno editrice: dei 20 tomi previsti ne sono già usciti 14, tra cui proprio in questi giorni quello degli Scritti in poesia e in prosa, a cura di A.Corsano, P.Cosentino, E.Cutinelli-Rèndina, F.Grazzini, N.Marcelli, coordinati da Francesco Bausi (pp.648, €.).
Raccogliendo il frutto di tante ricerche egli ultimi anni, il percorso biografico di Barbuto mostra molto bene come alcune delle concezioni politiche machiavelliane (anche di quelle più rivoluzionarie e sconvolgenti) siano maturate direttamente tra i problemi, i rapporti, le difficoltà che il segretario affrontava nel concreto impegno quotidiano negli anni del lavoro di segretario (che comportava molteplici missioni sia entro lo stato fiorentino che presso stati e corti italiane e straniere, portandolo tra l’altro più volte fino in Francia).
SPREGIUDICATA VIVACITÀ
Assumono rilievo non trascurabile anche le notizie sulla vita privata (spesso troppo trascurate da filosofi e politologi), in cui spicca la spregiudicata vivacità di comportamenti che alimentano in profondità quella prospettiva antropologica, quell’attenzione alla psicologia sociale che è essenziale nell’orizzonte politico machiavelliano (e a me pare che, nel nostro tempo di studi «di genere», sarebbe interessante approfondire il tema dei rapporti con le donne, insistendo sia sul rilievo che nel Principe assume l’immagine della Fortuna come «donna», sia sui caratteri delle figure femminili nelle commedie e negli stessi scritti poetici raccolti nel volume appena uscito dell’edizione nazionale).
Dal radicamento degli scritti nella biografia ricevono qui più viva luce alcuni nodi centrali del pensiero di Machiavelli: così l’interesse che egli ebbe per la figura di Savonarola (valutato però in una chiave essenzialmente «politica», non senza ironica diffidenza); la nozione della religione come «fondamento infondato»; il distacco dai vicini modelli umanistici (pur entro una passione per la cultura classica e il mondo antico); la convergenza tra l’orizzonte teorico del Principe e quello dei Discorsi («Non esistono un Machiavelli repubblicano e un Machiavelli monarchico», dato che le due opere convergono nell’identificare la necessità di un controllo individuale del potere statale, indipendentemente dalla sua struttura istituzionale), ecc.
Oltre il percorso biografico, il libro di Barbuto è concluso da due interessanti capitoli di Confronti; con il pensiero di Guicciardini, che del resto ebbe una stretta amicizia con Machiavelli (tra convergenze e divergenze, che delineano modi diversi di rapportarsi alla concretezza del fare politico), e con l’Utopia di Thomas More (di cui forse Machiavelli conobbe l’edizione fiorentina del 1519).
Nel caso dell’Utopia, la verifica della distanza tra il modello di città ideale tracciato dall’umanista inglese e il realismo machiavelliano conduce a toccare alcune essenziali contraddizioni da cui scaturisce l’interesse attuale dello stesso pensiero del segretario, al di là delle tante correnti immagini convenzionali che ancora ne fanno cinico maestro di spregiudicatezza politica.
Si vede così come, di contro ad ogni immagine utopica di ritorno ad una natura originaria e incontaminata o di trionfo assoluto del «bene», Machiavelli rivolga lo sguardo ad «una realtà ossimorica, non pacificata né pacificabile, senza la illusione di riscoprire verità pure e di costruire una città senza conflitti».
LA TERRIBILE TEMPESTA
Così lo studioso mette a suggello di questa biografia la citazione di una eccezionale pagina delle Istorie fiorentine su di una terribile tempesta avvenuta nel 1456: in definitiva la nozione stessa di politica appare inscritta nella necessità naturale, dentro cui deve agire anche come controllo e conduzione a bene (un bene relativo, insufficiente, parziale, come ogni bene umano) dei conflitti umani; rimedio e non azzeramento, salvataggio del bene possibile e non distruzione. È questa la politica di cui abbiamo bisogno: che, insieme alle vite e ai bisogni umani, oggi dovrebbe chiamare in causa anche i «beni» naturali e ambientali.
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