Durante l'ultimo World Economic Forum di Davos si è scritto che un fantasma stesse perseguitando i potenti della terra, riuniti nella cittadina svizzera: lo spettro di Karl Polanyi, lo scienziato sociale che, con "La grande trasformazione", raccontò l'impatto della società di mercato e dell'industrializzazione sulla civiltà occidentale, e colse meglio di chiunque altro gli effetti politici, culturali e antropologici della crisi degli anni trenta. Oggi, mentre imperversa una nuova Grande recessione, idee che parevano ormai relegate alle librerie polverose dei dipartimenti universitari sono riemerse in tutta la loro attualità. Prima fra tutte, la questione, fondamentale, del ruolo dell'economia nella società. Al centro dei saggi raccolti in queste pagine, scritti tra il 1919 e il 1958 e inediti a livello mondiale, c'è il tentativo di indicare la strada per tornare a un'economia ancorata alla società e alle sue istituzioni culturali, religiose, politiche, in aperta polemica con l'ideologia del "laissez-faire". Storico, giurista, antropologo ed economista, decenni fa Polanyi parlava già dei problemi del nostro presente: le distorsioni della democrazia generate dal liberismo sregolato, le conseguenze del capitalismo sull'ambiente, la tendenza alla mercificazione di ogni cosa, il ruolo del potere pubblico nell'affermazione e nella tenuta del sistema economico.
giovedì 11 aprile 2013
Gli inediti di Karl Polanyi 1919-1958
Risvolto
Durante l'ultimo World Economic Forum di Davos si è scritto che un fantasma stesse perseguitando i potenti della terra, riuniti nella cittadina svizzera: lo spettro di Karl Polanyi, lo scienziato sociale che, con "La grande trasformazione", raccontò l'impatto della società di mercato e dell'industrializzazione sulla civiltà occidentale, e colse meglio di chiunque altro gli effetti politici, culturali e antropologici della crisi degli anni trenta. Oggi, mentre imperversa una nuova Grande recessione, idee che parevano ormai relegate alle librerie polverose dei dipartimenti universitari sono riemerse in tutta la loro attualità. Prima fra tutte, la questione, fondamentale, del ruolo dell'economia nella società. Al centro dei saggi raccolti in queste pagine, scritti tra il 1919 e il 1958 e inediti a livello mondiale, c'è il tentativo di indicare la strada per tornare a un'economia ancorata alla società e alle sue istituzioni culturali, religiose, politiche, in aperta polemica con l'ideologia del "laissez-faire". Storico, giurista, antropologo ed economista, decenni fa Polanyi parlava già dei problemi del nostro presente: le distorsioni della democrazia generate dal liberismo sregolato, le conseguenze del capitalismo sull'ambiente, la tendenza alla mercificazione di ogni cosa, il ruolo del potere pubblico nell'affermazione e nella tenuta del sistema economico.
Durante l'ultimo World Economic Forum di Davos si è scritto che un fantasma stesse perseguitando i potenti della terra, riuniti nella cittadina svizzera: lo spettro di Karl Polanyi, lo scienziato sociale che, con "La grande trasformazione", raccontò l'impatto della società di mercato e dell'industrializzazione sulla civiltà occidentale, e colse meglio di chiunque altro gli effetti politici, culturali e antropologici della crisi degli anni trenta. Oggi, mentre imperversa una nuova Grande recessione, idee che parevano ormai relegate alle librerie polverose dei dipartimenti universitari sono riemerse in tutta la loro attualità. Prima fra tutte, la questione, fondamentale, del ruolo dell'economia nella società. Al centro dei saggi raccolti in queste pagine, scritti tra il 1919 e il 1958 e inediti a livello mondiale, c'è il tentativo di indicare la strada per tornare a un'economia ancorata alla società e alle sue istituzioni culturali, religiose, politiche, in aperta polemica con l'ideologia del "laissez-faire". Storico, giurista, antropologo ed economista, decenni fa Polanyi parlava già dei problemi del nostro presente: le distorsioni della democrazia generate dal liberismo sregolato, le conseguenze del capitalismo sull'ambiente, la tendenza alla mercificazione di ogni cosa, il ruolo del potere pubblico nell'affermazione e nella tenuta del sistema economico.
COSÌ IL LAVORO DELL’UOMO DIVENTÒ UNA MERCE
LA GRANDE T
RASFORMAZIONE
Escono gli inediti di Karl Polanyi che sviluppano i temi della sua opera più importante
KARL POLANYI, la Repubblica | 11 Aprile 2013
La società nella quale viviamo, a differenza delle società tribali, ancestrali o feudali, è una società di mercato. L’istituzione del mercato costituisce qui l’organizzazione di base della comunità. Il legame di sangue, il culto degli antenati, la fedeltà feudale sono sostituiti dalle relazioni di mercato. Una siffatta condizione è nuova, in quanto un meccanismo istituzionalizzato offerta/ domanda/ prezzo, ossia un mercato, non è mai stato nulla più che una caratteristica secondaria della vita sociale. Al contrario, gli elementi del sistema economico si trovavano, di regola, incorporati in sistemi diversi dalle relazioni economiche, come la parentela, la religione o il carisma. I moventi che spingevano gli individui a prendere parte alle istituzioni economiche non erano, solitamente, di per sé «economici », ossia non derivavano dal timore di rimanere altrimenti privi degli elementari mezzi di sussistenza. Quel che era ignoto alla maggior parte delle società – o meglio a tutte le società, a eccezione di quelle dellaissez-faireclassico, o modellate su di esso – era esattamente la paura di morire di fame, quale specifico stimolo individuale a cacciare, raccogliere, coltivare, mietere.
Infatti, la produzione e la distribuzione di beni materiali e servizi nella società non sono mai state organizzate, prima del XIX secolo, attraverso un sistema di mercato. Quest’innovazione prodigiosa fu realizzata includendo i fattori della produzione, il lavoro e la terra, all’interno di quel sistema. Il lavoro e la terra furono essi stessi trasformati in merci, cioè, vennero regolati come se si trattasse di beni prodotti per la vendita. Ovviamente essi non costituivano vere e proprie merci, dal momento che o non erano stati affatto «prodotti» (come la terra), o, comunque, non lo erano «per la vendita» (come il lavoro).
La reale entità di un siffatto mutamento può essere misurata se si ricorda che il «lavoro» è soltanto un altro nome per l’uomo, come la «terra» lo è per la natura. La costruzione fittizia della merce consegnò il destino dell’uomo e della natura alle dinamiche di un automa, che si muove sui propri binari ed è governato unicamente dalle proprie leggi. L’economia di mercato creò così un nuovo tipo di società. Il sistema economico o produttivo fu affidato a un dispositivo autoregolantesi. Un meccanismo istituzionale controllava tanto le risorse della natura quanto gli esseri umani nelle loro attività quotidiane.
In questo modo venne a esistenza una «sfera economica», la quale era nettamente separata dalle altre istituzioni sociali. Poiché nessuna comunità umana può sopravvivere senza un apparato produttivo funzionante, ciò ebbe l’effetto di trasformare il «resto» della società in una mera appendice di tale sfera. Questa sfera autonoma, ripetiamo, era regolata da un meccanismo che controllava il suo funzionamento. Di conseguenza, quel meccanismo di controllo divenne determinante per la vita dell’intera compagine sociale. Non v’è da stupirsi che l’aggregazione umana emergente fosse «economica » a un livello al quale in precedenza non ci si era mai nemmeno avvicinati. I «moventi economici» regnavano allora supremi nel loro proprio mondo; l’individuo era costretto ad agire secondo la loro logica, a pena della propria estinzione.
In realtà, l’individuo non è mai stato così egoista come preteso dalla teoria. Benché il meccanismo di mercato renda manifesta la sua dipendenza dai beni materiali, le motivazioni «economiche» non hanno mai costituito per l’uomo l’unico incentivo al lavoro. Invano gli economisti e i moralisti utilitaristi lo hanno esortato a non considerare negli affari se non motivazioni di carattere economico, ad esclusione di tutte le altre. Osservando più da vicino il suo comportamento, è apparso evidente, tutt’al contrario, come questo rispondesse ad una serie di motivazioni di natura significativamente «composita », ivi comprese quelle derivanti dal senso del dovere verso se stesso e verso gli altri (e forse, persino, godendo in segreto del lavoro come fine in sé).
Tuttavia, non dobbiamo qui occuparci dei moventi reali, ma soltanto di quelli presunti, dal momento che le teorie sulla natura umana non sono fondate sulla psicologia, bensì sull’ideologia della vita quotidiana. Di conseguenza, la fame e il profitto vennero isolati come «moventi economici» e si iniziò a presumere che
l’uomo agisse, in concreto, in base a essi, mentre le altre motivazioni apparivano più eteree e distaccate dai fatti prosaici dell’esistenza quotidiana. L’onore e l’orgoglio, il senso civico e il dovere morale, persino il rispetto di sé e la comune decenza, furono ora ritenuti irrilevanti per i rapporti produttivi e significativamente
compendiati nella parola «ideale». Si ritenne, perciò, che nell’uomo fossero presenti due elementi, uno maggiormente attinente alla fame e al profitto, l’altro all’onore e al potere. L’uno «materiale», l’altro «ideale»; l’uno «economico», l’altro «non economico»; l’uno «razionale», l’altro «non razionale».
L’immagine dell’uomo e della società risultante da tale premessa era la seguente. Rispetto all’uomo, fummo indotti ad accettare la teoria per cui i suoi moventi possono essere descritti come «materiali » e «ideali» e gli stimoli, sulla base dei quali è organizzata la vita quotidiana, derivano dai moventi «materiali». Rispetto alla società, fu propugnata una tesi analoga, secondo la quale le sue istituzioni sono «determinate» dal sistema economico. In un contesto di economia di mercato entrambe le asserzioni erano, ovviamente, vere. Ma soltanto all’interno di un simile assetto economico.
Rispetto al passato, tale prospettiva era nulla più che un anacronismo. Rispetto al futuro, essa era un mero pregiudizio. Ciò perché questo nuovo mondo dei «moventi economici» era basato su un errore. Intrinsecamente, la fame e il profitto non sono più «economici » dell’amore o dell’odio, dell’orgoglio o del pregiudizio. Nessun movente umano è di per sé economico. Non esiste alcuna esperienza economica sui generis, nello stesso senso in cui l’uomo può avere esperienze religiose, estetiche o sessuali, che diano origine a moventi i quali tendano globalmente a suscitare esperienze simili. Questi termini non hanno alcun significato immediato in relazione alla produzione materiale.
Così vacue sono, pertanto, le fondamenta del determinismo economico. I fattori economici influenzano il processo sociale (e viceversa) in innumerevoli modi; tuttavia, in nessun caso, se non sotto un sistema di mercato, i suoi effetti si rivelano più che limitanti. Né la sociologia, né la storia contraddicono questo assunto. E gli antropologi negano, a ragione, che la particolare connotazione di una determinata cultura sia dipendente dall’assetto tecnologico o persino dall’organizzazione economica.
Non spetta all’economista, ma al moralista e al filosofo, decidere quale tipo di società debba essere ritenuta desiderabile. Una cosa abbonda in una società industriale, e cioè il benessere materiale, oltre il necessario. Se, in nome della giustizia e della libertà di restituire significato e unità alla vita, fossimo mai chiamati a sacrificare una quota di efficienza nella produzione, di economia nel consumo, o di razionalità nell’amministrazione, ebbene una civiltà industriale potrebbe permetterselo. Il messaggio degli storici dell’economia ai filosofi dovrebbe essere, oggi, il seguente: possiamo permetterci di essere, allo stesso tempo, giusti e liberi.
(Traduzione di Giorgio Resta)
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