In tempi di crisi la filosofia riscopre la felicità
lunedì 8 aprile 2013
L'idea di felicità dalla filosofia alla popsofia
"Filosofia politica" dedica i suoi ultimi numeri (36 e 32 euro) al tema della felicità privata e pubblica
In tempi di crisi la filosofia riscopre la felicità
Libri, r
iviste, film affrontano di nuovo il tema
di Roberto Esposito Repubblica 6.4.13
È
possibile, e che senso ha, in tempo di crisi strutturale, parlare di
felicità? Si tratta di un tema scomparso dal nostro orizzonte di attesa o
di una inesauribile riserva di senso di cui comunque non possiamo fare a
meno? Una risposta positiva a queste domande viene adesso dalla rivista
Filosofia politica, che dedica ben due fascicoli, curati
rispettivamente da Carla De Pascale e da Laura Bazzicalupo,
all’argomento. Il presupposto di partenza è che intanto l’inverno che ha
congelato ogni aspettativa di benessere, prima o poi dovrà dare luogo a
una nuova primavera. Ma, ancora di più, la circostanza che il concetto
di felicità è emerso in superficie, o si è radicalmente rinnovato,
proprio nelle situazioni di crisi. È quanto è accaduto nella stagione
delle guerre di religione in Inghilterra, quando filosofi come Hobbes e
Locke l’hanno posto al centro del proprio pensiero; e poi, ancora di
più, durante la rivoluzione francese, allorché le riflessioni di
Rousseau e Voltaire sembrano essersi realizzate in una pratica di
felicità pubblica. È allora che, forse con un eccesso di ottimismo,
Saint-Just ha ritenuto possibile non vedere più, in territorio francese,
“né un infelice né un oppressore”. Quando Bentham, qualche decennio
dopo, misurerà l’arte di governo sul parametro della “maggior felicità
per il maggior numero di uomini”, l’incontro tra felicità e politica
sembrerà cosa fatta.
In realtà quello che può apparire un percorso
rettilineo si spezza in segmenti non sempre conseguenti e a volte
contrastanti. Un solco profondo separa la felicità-sicurezza di Hobbes
dalla felicità-libertà di Locke, così come dalla felicità sociale di
Bentham e Mill. Una concezione relazionale della felicità si stabilizza
solamente nella seconda metà del XIX secolo, lungo una linea che
condurrà all’idea di Welfare in quello successivo. Per essere poi
rimessa radicalmente in discussione nell’ultimo trentennio, quando in
America come in Europa si sono affermate nuove politiche neoliberali,
orientate al successo individuale. I processi di indebitamento che hanno
condotto alla crisi non sono estranei all’idea che la felicità sia
proporzionale alla quantità di piacere cui ciascuno, indipendentemente
dagli altri e a volte anche a loro danno, riesce a conseguire.
D’altronde il dichiarato diritto alla felicità, contenuto nel preambolo
alla Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti, riguarda
essenzialmente il singolo individuo piuttosto che la comunità nel suo
insieme. È vero che esso, almeno in linea di principio, è attribuito a
tutti, senza distinzione di genere, classe o razza. Ma proprio tale
principio è stato troppe volte smentito dai fatti. È troppo facile
ritenere che il black dream di Martin Luther King si sia pienamente
realizzato nell’elezione di Obama. Raffaele Laudani nel suo saggio su
“La felicità nera. Contro-storia di un mito americano”, compreso nei
fascicoli richiamati, osserva che l’uragano Katrina, col suo impatto
asimmetrico sulle vite degli abitanti di New Orlenas, ha rimarcato
ancora una volta la soglia escludente che passa tra la condizione dei
bianchi e quella dei neri.
Neanche l’epopea narrata da Chris Gardner
nel suo The Pursuit of Happines, trasformato in grande successo
hollywoodiano da Gabriele Muccino nel film La ricerca della felicità,
riesce a perforare del tutto il velo della retorica del self made man.
La struggente storia di amore di un padre nei confronti del figlio, che
esso narra, resta interna al mito americano dell’uomo sempre in grado di
modificare il proprio destino sociale, passando dal ghetto di San
Francisco ai grattacieli di Wall Street. È vero che un nuovo filone di
studi – di cui parla nel suo saggio Nadia Urbinati – interpretato da
autori come Amartya Sen e Martha Nussbaum, sta forzando le griglie
asfittiche della tradizione liberale con robusti innesti di filosofia
sociale. Lo spostamento dell’attenzione dalle regole astratte alle reali
condizioni di esistenza ha prodotto una conversione del concetto di
happiness.
Esso, più che ai soli interessi materiali, è relativo al
complesso delle prospettive e delle opportunità che danno senso alla
vita delle persone.
Del resto già Richard Easterlin, secondo il
paradosso che ha preso il suo nome, ha rilevato che la felicità
personale dipende poco dal livello del reddito. Come quando si acquista
un bene di consumo, essa aumenta fino ad un certo punto, per poi
diminuire, delineando una curva ad U rovesciata. Acquisire sempre nuovi
beni materiali è come correre su un tapis roulant, in cui si resta nel
medesimo punto. Per mantenere il livello di soddisfazione raggiunto, si
richiedono piaceri sempre più intensi, velocemente assimilati e così
svuotati. Naturalmente ciò vale soltanto al di sopra di una certa soglia
di benessere – che oggi spesso è divenuta di pura sussistenza. In
simili condizioni l’idea di felicità è destinata a ruotare ancora una
volta sul proprio cardine. Più che qualcosa cui tendere invano, essa
diventa un dispositivo critico nei confronti dei vincoli, sempre più
stretti, che ci vengono imposti dall’esterno. Anziché forma di adesione
alla realtà, l’idea di felicità diventa terreno di elaborazione di nuove
immagini di esistenza più confacenti all’incontro, sempre rimandato,
tra libertà e giustizia.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento