venerdì 26 aprile 2013

Tradotto "Le rane" di Mo Yan


Le rane
Mo Yan: Le rane, Einaudi

Risvolto
Le rane, ultimo romanzo del premio Nobel Mo Yan, è lo splendido, conturbante ritratto di una donna la cui vita attraversa e definisce la storia della Cina di oggi. Le sue scelte, le sue decisioni sono complesse, controverse, spesso discutibili: perché complesso e sofferto è il giudizio di Mo Yan sul suo paese. 
Il drammaturgo Kedou, «Girino», (alter ego di Mo Yan), racconta in quattro lunghe lettere indirizzate a un amico, l’immaginario scrittore giapponese Sugitani Yoshihito (in realtà Kenzaburo Oe, grande amico di Mo Yan), la storia della zia paterna «venerata come la benevola Guanyin, dea della fertilità, e allo stesso tempo, odiata come il boia inesorabile che esegue le condanne a morte». Il Partito ha offerto alla zia «Gugu» una sommaria educazione medica e, dall’inizio degli anni Cinquanta, la donna diventa l’unica levatrice della sua regione. Non solo: da quando, nel 1965, il Partito, preoccupato per la crescita esponenziale della popolazione, inizia una campagna per il controllo delle nascite, Gugu si impegna in aborti e vasectomie forzate con lo stesso zelo con cui prima faceva nascere i bambini. La fedeltà agli ordini del Partito, però, sarà la rovina sua e delle persone che ama. Una donna, per non abortire, si getta nel fiume e annega. Un’altra – la moglie di suo nipote – è costretta a interrompere la gravidanza nonostante sia fuori tempo massimo, e muore. Fino a quando, una notte, tornando a casa, Gugu si smarrisce in una zona paludosa: il gracidare delle rane le ricorda il pianto dei bambini mai nati, i corpi gelidi degli animali, come piccoli feti abortiti, la circondano, la ricoprono, sconvolgendola. Cittadina di un paese che non riconosce, la Cina potenza economica globale di oggi, Gugu farà i conti con le conseguenze delle sue azioni, scoprendo il modo imprevedibile per cambiare vita e espiare le sofferenze che ha inflitto. Mai come ne Le rane Mo Yan aveva saputo distillare la sua particolare, obliqua visione della Cina, plasmandola nella storia di un personaggio epico e tragico, Gugu, e dell’universo che le ruota attorno.

Mo Yan e la Cina: «La vita è una rana»Il dramma degli aborti forzati, le scelte «obbligate» «Racconto una generazione, ma dietro ci sono io»

di Marco Del Corona e Paolo Salom Corriere 26.4.13


Anche le rane hanno la voce di un premio Nobel. Perché un premio Nobel può scegliere le rane per dare voce a uno dei temi che spaccano il cuore del suo Paese. È così che Mo Yan, lo scrittore che l'anno scorso ha regalato alla Cina un riconoscimento d'importanza epocale, è sceso nel pantano avvelenato e doloroso della politica del figlio unico. E ha affrontato la contraddizione fra la gioia del mettere al mondo un figlio e l'obbrobrio degli aborti forzati, pratica che tuttora sopravvive là dove la solerzia criminale dei funzionari locali ha la meglio sulle direttive più moderate emanate a Pechino. Le rane è uscito nella Repubblica Popolare nel 2009 e si inerpica, con la varietà di registri che hanno reso unica la prosa di Mo Yan, sull'esistenza di una ostetrica di campagna. Figura doppia: eroica nel portare alla luce bambini in circostanze difficili e poi — quando Pechino impone per legge il controllo delle gravidanze — ferocemente coraggiosa e coerente, a suo modo, nell'obbedire all'ordine di evitare nascite. Una stakanovista degli aborti.

Vita. Vita della Cina. E letteratura. La letteratura secondo Mo Yan: «Anche se io scrivo partendo da vicende mie personali — spiega al "Corriere" — in realtà racconto una generazione. Ho sempre pensato che la buona letteratura dovrebbe permettere al lettore di ritrovare se stesso nelle pagine che scorre, dovrebbe suscitare emozioni condivise. La buona letteratura consente allo scrittore di raccontare il proprio mondo emozionale e di esperienze. Allo stesso tempo, rappresentando le storie e l'universo interiore delle persone comuni, è in grado di fondere universalità e particolarità. Può darsi che lo scrittore non se ne renda conto quando prende la penna in mano, ma è qualcosa che accade comunque. Da sé».
Del retroterra intimo che nutre la materia di Le rane Mo Yan aveva parlato già anni fa. «Spero che così i lettori comprendano quant'è preziosa la vita e capiscano la nascita, evento fondamentale che nella Cina contemporanea s'è fatto tortuoso e difficile». Mo Yan, padre di una figlia che ora ne cura alcuni aspetti degli affari, non ha nascosto nulla: «Personalmente — aveva dichiarato nel 2010 alla rete tv Phoenix — non trovo buona la politica del figlio unico. Senza la pianificazione delle nascite sarei stato padre di due o anche tre figli. Da giovane non me ne rendevo conto». Ha ammesso che l'aborto cui si sottopose la moglie «è sempre un grande dolore» e «un'enorme ombra». Rimpiange — lui, di famiglia contadina dallo Shandong — di non avere avuto un maschio, confessa l'«invidia» che lo coglie quando vede «due sorelle scherzare fra di loro». E tuttavia il Mo Yan iscritto al Partito comunista, membro della Conferenza consultiva (una sorta di camera minore del Parlamento) e vicepresidente dell'Associazione degli scrittori («un ruolo senza sostanza, però») ha in altre occasioni riconosciuto che «trent'anni fa la Cina era stata obbligata ad abbracciare la politica del figlio unico».
Travaglio intimo, dieci anni di lavoro, più revisioni, le lodi del «Quotidiano del popolo» dopo la sua pubblicazione nel 2009 per aver saputo affrontare un tema che, anche all'interno delle gerarchie, viene valutato in modi opposti: c'è chi vorrebbe smantellare e chi mantenere la pianificazione demografica. Le rane, che martedì 30 aprile Einaudi manda nelle librerie italiane nella traduzione di Patrizia Liberati e a cura di Maria Rita Masci, gioca fin dal titolo la carta dell'ambiguità (o meglio: della ricchezza di senso), complici le caratteristiche della lingua cinese: Wa, il titolo originale, significa appunto «rana», ma con un accento diverso vuol dire «bambino», e Nuwa, poi, è addirittura la mitologica progenitrice dell'umanità. È in questo reticolo di allusioni che si muove la «zia» del libro: il solito intrico di storie e sottotrame, perché «con i miei romanzi — aggiunge ora Mo Yan — io desidero soltanto raccontare emozioni, destini di uomini e donne: un processo che non ha confini nazionali o culturali».
Il premio Nobel, spiega ancora al «Corriere», ha cambiato in parte il mondo intorno a lui: «Ma io da sempre non amo mettermi in mostra. Preferisco fare le cose in modo tranquillo, ma questo non è più possibile. Nello Shandong vogliono costruire un grande parco a tema dedicato a me e ai miei lavori? Questo genere di cose non mi piace».
Effetti collaterali di un riconoscimento che la Cina ha accolto come un riconoscimento al suo status che non poteva essere rimandato: «I premi alla letteratura dovrebbero servire a suscitare più attenzione per quello che scrivono gli autori. Tuttavia ammetto che più di 10 anni fa ho davvero preso in considerazione di poter vincere il Nobel, poi ho smesso di pensarci perché se uno scrittore non mette tutte le sue energie nella scrittura ma cerca di rispondere ai cosiddetti criteri del premio Nobel finisce coll'abbassare la qualità delle proprie opere. Ogni premio è uguale: più ci pensi, più s'allontana da te; se non ci pensi, ti si avvicina silenzioso».
Dopo il premio, Mo Yan è stato investito dalle critiche per il suo ruolo «collaterale» se non proprio «organico» al potere e per la freddezza nei confronti del Nobel per la Pace imprigionato, il critico letterario dissidente Liu Xiaobo (una sola dichiarazione esplicita di simpatia e poi un ritrarsi sull'argomento: «Trovate interessante costringere una persona a ripetere quello che ha già detto?», ci aveva confidato).
Ma pur senza pronunciarne il nome, Mo Yan ora accetta di rispondere a una domanda su Gao Xingjian, lo scrittore ora naturalizzato francese che nel 2000 ottenne un Nobel non considerato dalla Cina: «Gli scrittori hanno nazionalità, la letteratura no: non ha confini. E dunque la buona letteratura appartiene a tutta l'umanità». Con questo stato d'animo Mo Yan attenua la durezza di alcuni suoi giudizi sui nuovi scrittori, che aveva definito non in grado di descrivere la Cina attuale: «Ogni epoca ha la sua letteratura. Ai giovani diamo tempo: prima o poi produrranno opere importanti».
E poi c'è sempre il mondo. Il mondo che lo legge, che ha imparato a conoscerlo. E il mondo dei suoi libri, dove, a partire da Sorgo rosso, gli stranieri — siano i tedeschi che prima colonizzano lo Shandong o gli invasori giapponesi — sono descritti come individui strani, spesso crudeli e orribili, anche se nelle Rane il padre della protagonista, un dottore dell'esercito rivoluzionario, «era stato allievo di Norman Bethune», canadese, leggendaria figura di medico unitosi ai comunisti. «Nei miei romanzi ci sono in realtà anche figure positive di stranieri. Per esempio, in Grande seno, fianchi larghi il missionario svedese Ma Luoya è un personaggio estremamente coraggioso e di buon cuore. È vero che in Sorgo rosso i giapponesi non ne escono molto bene, però ho anche scritto di un ufficiale a cavallo nipponico che, ferito, mostrò a mio nonno una fotografia della moglie e del figlio e di come quel gesto lo rese "simpatico" ai miei. Comunque, in futuro mi regolerò su un principio: se ci saranno stranieri nel racconto appariranno per quello che sono. Per spiegarmi meglio: se l'economia della storia lo richiederà, i personaggi avranno una loro vita e caratteristica autonome che non necessariamente coincideranno con la visione dell'autore». I premi restano fermi, le storie no.

Mo Yan e l'esercito cinese di quei bambini mai nati
La protagonista di Le rane è la metafora dell'intero Paese: prima ostetrica e poi costretta dal regime a procurare abortiLuca Doninelli - il Giornale Gio, 09/05/2013 

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