lunedì 27 maggio 2013
Il contributo dei compagni del Fatto quotidiano al sempreverde mito di Stalin
Stai attento, c’è Stalin che ti controlla
La macchina della morte nell’arcipelago del grade terrore
Tiranni. Le foto del gulag, ma in Russia il mito è ben vivo
di Stefano Citati e Micol Sarfatti
La frase “La morte di un uomo è una tragedia, la morte di milioni è
statistica”, non l’ha probabilmente detta Stalin, ma l’ha compiuta.
Instancabilmente, placidamente, Iosif Vissarionovic Dugašvili per anni
ha firmato uno a uno i documenti che mandavano a morte e nei Gulag
milioni di persone, di sovietici, di “anti-rivoluzionari”, di “nemici
del popolo” di cui lui era dittatore assoluto. Assieme alla sua
ristretta cricca - la Piatiorka, il quintetto, 5 persone, sul totale di
15 membri del Politburo - chiusa nel Cremlino degli Zar di Mosca ha
deciso i destini dell’Urss e dei suoi abitanti, come il “piccolo padre”
(lo Zar) aveva fatto nei secoli precedenti.
MA LO HA FATTO meglio, in modo assoluto, come il male che ha prodotto la
macchina della morte assemblata dall’Nkvd (la polizia politica), oliata
dall’ideologia, ingrassata dal sangue dei suoi stessi adepti, in un
vortice continuo di carnefici trasformati per decreto in vittime, in un
frullatore sfrenato di arresti, interrogatori, torture, confessioni,
condanne, fucilazioni, deportazioni nell’arcipelago sempre più vasto
delle necropoli e dei Gulag. Nessuno sapeva, tutti approvavano. Non più
di 200 persone erano a conoscenza delle pianificazioni dei “processi
nazionali” che venivano istituiti per categorie sempre più ampie della
popolazione, ma a tutti era richiesto di approvare le condanne dei
processi simbolici che venivano fatte affiorare come punte dell’iceberg
del Terrore a simboleggiare la catarsi del popolo attraverso il rito del
“demonismo” sconfitto dagli eroi del proletariato.
Adesso possiamo sapere tutto questo. Guardare negli occhi le vittime, i
loro nomi, leggere le loro storie di fantasmi ancora in vita e già morti
nell’ultimo scatto che gli agenti della polizia segreta prendeva per
completare il loro fascicolo. La burocrazia implacabile, meccanizzata,
nella ripetizione ossessiva della compilazione dell’incartamento, della
condanna (ottenuta con il modulo pre-stampato della confessione dove il
colpevole di turno doveva solo apporre la sua firma), del trasporto
verso la fossa comune, le mani legate col fil di ferro, il colpo alla
nuca. Avanti il prossimo.
Così morirono 750mila persone in un anno, tra il 1937 e il 1938, l’apice
del terrore staliniano. Così ogni giorno negli ingranaggi burocratici
dello sterminio politico rimanevano schiacciati a migliaia e in varie
forme (uccisione, prigionia siberiana) gli elementi controrivoluzionari
(articolo 58 del codice penale dell’inflessibile procuratore Vyšinskij),
spremuti per nutrire il sistema ideologico. Ancor prima della
“soluzione finale” organizzata capillarmente dai nazisti - prima
spauracchio di Stalin, poi alleati di comodo, poi quintessenza del
nemico - l’apparato comunista creò la fabbrica della liquidazione, che
conformava l’intera nazione con le troike - i tribunali speciali di 3
membri - le prigioni, le tradotte che portavano i condannati nei campi
della taiga oltre il Circolo polare artico, sulle rive ghiacciate del
Pacifico, nelle steppe delle repubbliche asiatiche.
Correvano gli anni della paura del nemico esterno, c'era da ricompattare
le fila del regime, con il timore che una guerra avrebbe dissolto
l'Urss e scatenato un'altra guerra intestina: una paranoia che Stalin e i
suoi accoliti curano con il metodo feroce della prevenzione del male,
eliminando masse inconsapevoli, profilassi da un virus - la
controrivoluzione - che immaginavano, e minacciavano, incombente. Nei
mesi roventi del terrore il cruccio principale dei funzionari dell’Nkvd
era di stare nella “norma” della morte, le quote prestabilite di vittime
da arrestare ed eliminare. Talvolta si dovevano scusare per aver tolto
di mezzo mille persone in più di quanto deciso dal Politburo, altre
volte si dovevano inventare categorie sociali “nemiche” per mancanza
della quantità di avversari nella loro zona di competenza.
Così finivano nelle maglie della polizia politica vecchi membri del
partito bollati come deviati, giovani lavoratori ritenuti terroristi,
persone il cui nome ricordava l’origine tedesca, polacca, finlandese.
POCHI ANNI prima, quando il mostruoso setaccio sociale si era messo in
moto, era toccato ai kulaki - i contadini proprietari terrieri -
eliminati a milioni tra il ‘30 e il ‘33. Poi, alla fine della guerra
vittoriosa, sarebbe toccato a praticamente tutti gli ufficiali
dell’Armata Rossa entrati in contatto con il nemico nazista. Tra loro
c’era Solgenytsin che coniò l’espressione Arcipelago Gulag, terre emerse
di un oceano segreto, raccontando l’intera trafila dall’arresto nel
cuore della notte alla fine dell’umanità svanita dal corpo umano purgato
dalle sofferenze: il dojdiaga, il relitto schiantato da anni di gelo,
lavoro per completare la “norma” stabilita della produzione, chasa (la
broda del campo), machorka, la sigaretta usata come moneta del Gulag,
sevizie subite dai criminali comuni, veri padroni dei Gulag. Solgenitsin
si scusò con Shalamov, autore dei Racconti della Kolima, Siberia
estrema, per aver riferito orrori che erano poca cosa rispetto a ciò che
furono negli anni del terrore.
Tutti quei volti e quelle storie sono emersi dalle fosse che nutrono le
betulle della tundra, i crepacci, il terreno ghiacciato di cui sono
stati ricoperti, così come dagli archivi metodicamente riempiti con i
nomi, le foto, le confessioni e le condanne. Affiorano grazie alla
perseveranza di un fotografo polacco - Tomasz Kizny - che per anni ha
girato l’ex Urss per testimoniare come il potere assoluto sia stato
capace di uccidere e rinchiudere milioni di volte, e in segreto.
Uccidere talmente da seppellire, e quasi far dimenticare, il terrore
stesso.
il Fatto 27.5.13
Il secolo più crudele e antiumano
di Michail Gorbaciov
IL VENTESIMO SECOLO, che giunge alla sua conclusione, è stato un secolo
di grandissime realizzazioni in molti settori. Le nuove vette raggiunte
dal progresso tecnico scientifico talvolta superano le più audaci
previsioni degli scrittori di fantascienza di un passato ancora recente.
Questo secolo ha in linea di principio creato delle possibilità nuove
per il perfezionamento della vita umana. Ma tali possibilità non si
realizzano. Inoltre il Ventesimo secolo si è rivelato sanguinoso,
crudele, forse il più crudele e antiumano.
Purtroppo questa verità è talmente palese da non richiedere prove.
L’umanità si sta avvicinando alla fine del secolo in uno stato di
inquietudine e, addirittura, di sconcerto. Non a caso si moltiplicano le
previsioni sulla fine del mondo. In realtà noi, verosimilmente,
osserviamo una crisi del modello di sviluppo tecnologico, una crisi
della moderna civiltà tecnica, che ha condotto ad un conflitto sempre
più pericoloso nei rapporti tra Uomo e natura. Ad un conflitto che, se
non verranno prese in tempo le necessarie misure, potrebbe minare le
basi stesse della vita sulla Terra. Osserviamo inoltre una crisi del
modello della vita sociale. La profondissima contraddizione tra uomo e
società, tra uomo e potere, sta diventando insostenibile. La crescente
tensione segna persino i rapporti reciproci tra la gente. Notiamo anche
una crisi nei rapporti mondiali, che sono evidentemente entrati nella
più acuta contraddizione con le esigenze globali della nostra esistenza.
La cultura politica del confronto ereditata dal passato, ostacola il
cammino della realizzazione dell’ormai matura esigenza di riunire le
forze dell’umanità in nome dell’eliminazione delle minacce globali.
Stralci dal discorso tenuto alla Scala di Milano, nel 1993, per il 7°
incontro internazionale per la pace organizzato dalla Diocesi di Milano e
dalla Comunità di Sant’Egidio.
il Fatto 27.5.13
Il fascino del passato
Il mito del carnefice georgiano è più vivo che mai
di Micol Sarfatti
Mosca Nella Russia del nuovo corso, quella degli oligarchi, degli yacht e
dei giovani vestiti solo con capi firmati, gli ideali sovietici trovano
sempre meno spazio. Lo scorso inverno il governo ha persino dovuto
lanciare una campagna pubblicitaria per promuovere i lavori manuali,
perché, anche nella Grande Madre, nessuno vuole più fare l’operaio.
Eppure, in questa Russia che alla steppa preferisce le spiagge esclusive
e strizza l'occhio all'Occidente, il mito del dittatore Josif Stalin è
più vivo che mai. E non è solo appannaggio di turisti in cerca di cimeli
sovietici. Qualche giorno fa Sergei Mironov, il capogruppo del partito
Russia Giusta, ha denunciato la vendita, a prezzi tutt’altro che
concorrenziali, di statuette del “magnifico georgiano” all’interno della
Duma. Con seimila rubli (circa 150 euro ndr) ci si accaparra un busto
da scrivania, per la versione più grande ne servono trentamila (745 euro
ndr). Disponibile anche una statua a grandezza naturale, ma con prezzo
su richiesta.
PROPRIO tra i banchi della Camera bassa russa si trovano alcuni dei più
accesi sostenitori di Stalin. Tra questi c’è Gennady Zyuganov, politico
di lungo corso, secondo classificato alle ultime, contestatissime,
elezioni presidenziali e capo del Kprf, il partito comunista. Ogni anno,
nell’anniversario della morte, questa vecchia icona dell’estrema
sinistra, rende omaggio al dittatore deponendo corone di fiori sulla sua
tomba. Zyuganov non ha mai fatto mistero della sua ammirazione per
Stalin e ha più volte dichiarato che “se fosse vissuto cinque o sei anni
in più l’Urss sarebbe rimasta una potenza per secoli”. La memoria sta a
cuore anche Kazbek Taisaev, segretario locale del Partito Comunista. Lo
scorso 8 maggio, alla vigilia delle celebrazioni per il Giorno della
Vittoria delle forze sovietiche sulla Germania nazista, ha fatto erigere
a Yakutsk, nell’estremo oriente russo, un monumento al sanguinario
georgiano. La levata di scudi da parte di attivisti per i diritti umani e
dissidenti è stata immediata, ma Taisaev ha ribattuto che “le azioni
dei personaggi storici devono essere giudicate in base ai risultati, non
alle emozioni” e la statua è rimasta al suo posto. Andò peggio all’ex
sindaco di Mosca Yuri Luzhkov, che nel 2010, sempre in occasione della
Festa della Vittoria, disse di voler tappezzare la città di manifesti di
Stalin. I comunisti applaudirono l’iniziativa, ma tutti gli altri,
compreso il partito di governo Russia Unita, la condannarono. L’allora
primo cittadino si difese dicendo di non essere un ammiratore del
“Piccolo Padre”, ma “della storia obiettiva, che richiede di non
cancellare coloro che guidavano il nostro Paese”. I manifesti vennero
comunque tolti e, qualche mese dopo, Luzhkov venne pure silurato
dall’allora presidente Medvedev.
La rinnovata passione per Stalin, però, non germoglia solo tra i
politici. Secondo uno studio del Carniegie Endowment for International
Peace, organizzazione no profit per la pace e la cooperazione tra le
nazioni, la popolarità del dittatore sarebbe in aumento anche tra la
popolazione russa. Nel 1989 il rating di Stalin tra i grandi personaggi
era piuttosto basso: 12% contro il 72% di Lenin e il 38% dello zar
Pietro. Oggi è risalito al primo posto con il 49% delle preferenze.
E Vladimir Putin, come si pone nei confronti del leader a cui spesso è
stato accomunato? In tanti vedono nel giro di vite imposto nell’ultimo
anno da Putin a oppositori, attivisti, omosessuali e Ong straniere,
inquietanti similitudini con gli anni ’30 e con i provvedimenti
staliniani. Non a caso uno degli hashtag usati dagli anti-Putin è stato
#ciao37. Creato proprio per paragonare le violente perquisizioni
disposte dal Presidente alle purghe del 1937.
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