Risvolto
"Si può debellare la Mafia coi metodi mafiosi? Si può combatterla servendosi dei mafiosi nei momenti elettorali? Si può restituire ai cittadini colla iniquità fatta regola la fede nella giustizia? No, mille volte no!”: è il 1900, e con queste parole Napoleone Colajanni denuncia la penetrazione del sistema mafioso in Sicilia e lungo la penisola italiana. Partendo dalla cronaca dell’omicidio di Emanuele Notarbartolo – ex direttore del Banco di Sicilia ucciso per essere andato contro gli interessi di mafiosi e importanti funzionari di Stato – l’autore traccia un lucido quadro dell’origine della malavita organizzata nel nostro Paese: in un’inchiesta dalle impressionanti somiglianze con la situazione contemporanea, Colajanni racconta accordi tra politici e cosche mafiose, descrive questori che occultano prove per proteggere assassini e indaga quella zona grigia fatta di omertà, depistaggi e voti di scambio. La sua è un’accusa dura e coraggiosa, fondamentale per comprendere la genesi del devastante intreccio tra pezzi dello Stato e potere mafioso che ancora oggi avvelena l’Italia.
"Si può debellare la Mafia coi metodi mafiosi? Si può combatterla servendosi dei mafiosi nei momenti elettorali? Si può restituire ai cittadini colla iniquità fatta regola la fede nella giustizia? No, mille volte no!”: è il 1900, e con queste parole Napoleone Colajanni denuncia la penetrazione del sistema mafioso in Sicilia e lungo la penisola italiana. Partendo dalla cronaca dell’omicidio di Emanuele Notarbartolo – ex direttore del Banco di Sicilia ucciso per essere andato contro gli interessi di mafiosi e importanti funzionari di Stato – l’autore traccia un lucido quadro dell’origine della malavita organizzata nel nostro Paese: in un’inchiesta dalle impressionanti somiglianze con la situazione contemporanea, Colajanni racconta accordi tra politici e cosche mafiose, descrive questori che occultano prove per proteggere assassini e indaga quella zona grigia fatta di omertà, depistaggi e voti di scambio. La sua è un’accusa dura e coraggiosa, fondamentale per comprendere la genesi del devastante intreccio tra pezzi dello Stato e potere mafioso che ancora oggi avvelena l’Italia.
Un secolo dopo l’uscita, torna il celebre saggio di Colajanni sulla criminalità
E già allora si parlava di trattative fra lo Stato e i boss
Cent’anni di mafia
Affari, politica e banche all’alba del ‘900
di Attlio Bolzoni Repubblica 3.7.13
Ogni volta che se ne parla ci sorprendiamo sempre, come se l’avessimo
appena scoperta. Eppure la conosciamo da molto tempo. Noi italiani
abbiamo poco più di centocinquant’anni e – ufficialmente – anche la
mafia ha la nostra età. Siamo nati insieme, siamo cresciuti insieme. È
vissuta con noi e fra noi, a volte abbiamo fatto finta di non vederla,
altre volte non abbiamo potuto ignorarla. Ma è rimasta sempre lì, in
mostra o mascherata, aggressiva o silenziosa.
La mafia - questa è ormai la parola italiana più conosciuta al mondo,
più di pizza, più di spaghetti - in verità è sempre stata uguale a se
stessa e sempre diversa. Si è semplicemente adattata ai cambiamenti
della società, nascondendosi, mimetizzandosi. Era rurale ed è diventata
urbana, si è trasformata in multinazionale, prima della droga e poi
della finanza.
In un recentissimo passato c’è chi si è spinto ad affermare che la sua
storia sia stata, né più né meno, la storia d’Italia. Un punto di vista
un po’ azzardato che non ne facilita la sua comprensione, facendoci
vedere la mafia anche dovenon c’è e – soprattutto - a non farcela vedere
mai dove invece c’è. Allora, forse, sarebbe meglio riconoscere che
dentro la storia della mafia c’è anche un pezzo importante della storia
d’Italia. E che la storia della mafia ci aiuta a capirne alcuni passaggi
fondamentali.
Un saggio di centotredici anni fa appena ristampato –Nel regno della
Mafia (Bur Saggi Rizzoli, pagg. 162, euro 10,00) – ci ricorda come quel
«dibattito» sul rapporto fra la mafia e lo Stato sia fatalmente senza
fine. E «l’odore»che si respira fra le pagine di questo pamphlet ci
trasferisce (ci scaraventa, forse sarebbe meglio dire) dall’Italia del
1900 all’Italia di oggi. Sembra scritto ai giorni nostri il libro di
Napoleone Colajanni, cospiratore mazziniano, ex garibaldino di
Castrogiovanni – l’attuale Enna, al centro della Sicilia - poi
«agitatore » politico e poi ancora deputato repubblicano diventato
famoso per avere scoperchiato con le sue denunce il primo grande
scandalo nazionale, quello della Banca Romana.
La tentazione che viene leggendolo, è quella di mantenerne intatta la
trama sostituendo qua e là i nomi citati da Colajanni con alcuni dei
nostri ultimi illustri uomini politici, alcuni funzionari di alto rango,
alcuni capi mafiosi.
Pensare però che in questi centotredici anni non sia cam-biato nulla –
proprio nulla? - significherebbe fare un favore (un altro) alla mafia e
non tenere ragionevolmente conto dei passi avanti fatti (per esempio la
«rivoluzione giudiziaria» di Giovanni Falcone e quel capolavoro che
èstato il suo maxi processo a Cosa Nostra) e della nascita e
dell’evoluzione – pur con tutti i suoi limiti e le sue derive – di quel
movimento che ha preso il nome di «antimafia».
È indubbio comunque che il racconto di Colajanni, e l’analisi che fa di
quella società di fine Ottocento, ci ripropone storicamente sconvolgenti
somiglianze con quella contemporanea.
Napoleone Colajanni scrive tanto di mafia ma anche tanto di corruzione. E
di vergognose scorribande bancarie, di coinvolgimenti fra sicari e
«galantuomini » del Parlamento, di complotti di giudici e complotti
contro giudici, di depistaggi, di una sbirraglia al servizio dei
potenti, di trattative fra Stato e crimine, di oppressione «legale e
illegale », di voto di scambio, di grandi elettori briganti, di Destra e
Sinistra che si confondono, di «anarchia di governo», di «ministri
conniventi coi delinquenti».
La tentazione, pagina dopo pagina ritorna sempre: è stato davvero
scritto più di un secolofaNel regno della Mafia? Sicuramente Colajanni
si è rivelato uno straordinario «cronista», meridionalista schierato
contro le perversioni dello Stato unitario, sempre al fianco del
proletariato contadino delle Calabrie e delle Puglie – così venivano
chiamate allora - schiacciato dalla sconsiderata e criminale decisione
di dividere, «spaccare» l’Italia fra Nord e Sud.
La sua denuncia più clamorosa, come abbiamo già accennato, fu quella
contro il «buco» della Banca Romana, che nel passato era stata la Banca
dello Stato Pontificio. Con le sue interpellanze parlamentari (e grazie a
un dossier ricevuto segretamente sulle manovre occulte nell’istituto di
credito), Colajanni nel 1893 provocò con una coraggiosissima campagna
politica la caduta del governo Giolitti. Un inizio di Tangentopoli
dell’età umbertina. Un ammanco di 9 milioni di lire, l’immissione di
banconote false (stampate in doppia serie) per arricchire senatori e
ministri, concessioni disinvoltedi mutui a imprenditori legati alla
prima grande speculazione edilizia di Roma. Ci furono arresti e indagati
celebri, ci furono anche funzionari della banca che si suicidarono. A
cosa ci riporta tutto questo, se non agli avvenimenti degli ultimi anni
in un’Italia dove politica e banche e finanza si sono intrecciate,
sostenute e spremute a vicenda?
Nel libro si rivela anche una delle tante trattative fra Stato e mafia.
Parlarne, ancora oggi fa paura. Se ne discute con stupore. Prima o dopo
quella parola trattativa – negli articoli di stampa o nelle dispute si
colloca prudentemente sempre un aggettivo, presentandola come
improbabile o addirittura inverosimile. Quindi, una volta
diventa«presunta», un’altra volta «ipotetica ». È un’ipocrisia tutta
italiana per non vedere quello che abbiamo avuto sempre sotto gli occhi
da centocinquanta anni.
La storia della mafia è una storia infinita di trattative con lo Stato:
c’è un filo che - dall’Unità d’Italia allo sbarco degli alleati,
passando per il fascismo – ci trascina fino alle stragi del 1992.
Nel Regno della Mafiasi ricordano «transazioni» fra boss e autorità di
polizia, si citano «relazioni amichevoli fra delegati di sicurezza
pubblica con noti ladri », si racconta di questori che occultavano prove
per proteggere assassini. Intese. Sodalizi. Lo dicevamo all’inizio: la
mafia cambia sempre ma è sempre la stessa. Qualcuno oggi sostiene che si
arriverà – o ce l’abbiamo già? - ad una mafia senza mafiosi. Sempre
meno caratterizzata con il territorio, meno «tipica», molto diversa da
quella che abbiamo imparato fin qui a conoscere.
Cosa dire di più? Forse è Colajanni stesso che ci dice tutto, nelle
ultime righe del suo libro: «Per combattere e distruggere il regno della
Mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di
essere il Re della Mafia».
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