martedì 2 luglio 2013
Emanuele Severino pro domo sua
Ogni cosa è destinata a tornare: è questa la fonte del sapere
di Emanuele Severino Corriere 1.7.13
La vita dell'uomo incomincia con un Rifiuto. La vita cosciente, dico,
cioè quella in cui il mondo si manifesta. Tale Rifiuto nega che il
giorno sia notte, l'acqua aria, gli alberi stelle, il freddo caldo, la
vita morte: nega che qualcosa sia altro da ciò che esso è. Già Platone
avverte che questa negazione è presente anche nel sogno e perfino nella
pazzia. Nei primi decenni del Novecento il sociologo-etnologo Lévy-Bruhl
tende invece a sostenere la tesi che nella «mentalità primitiva» quel
Rifiuto è assente o quasi. Autori come Bergson, Durkheim, Mauss mostrano
in molti modi la insostenibilità di questa tesi. E infatti come sarebbe
possibile, per l'uomo, compiere il gesto più semplice, ad esempio bere
dell'acqua, se la «mentalità primitiva» credesse che l'acqua sia pietra
(o fuoco, aria)? Anche il primitivo può vivere perché si rifiuta di
crederlo.
Tale Rifiuto sta all'«origine» e alle «fondamenta» della vita umana, la
«domina» e la «comanda»: tutte parole, queste, che corrispondono
all'antica parola greca arché, che viene tradotta anche con «principio».
Già per la filosofia greca il Rifiuto che qualcosa sia altro da sé è
l'arché di tutta la conoscenza. Ma la filosofia intende il Rifiuto
originario in un modo radicalmente nuovo. Prima di essa il Rifiuto è un
voler negare che il giorno sia notte, l'acqua pietra, e così via. La
filosofia sostiene che queste negazioni non sono semplicemente un
«volere», ma un sapere assolutamente non smentibile: il sapere che sta
al fondamento di ogni altro sapere e di ogni agire e che quindi è la
verità originaria. Aristotele dice appunto che tutte queste negazioni
sono espresse da un'unica arché, che è «la più salda» di tutte le
conoscenze. Più tardi questa arché sarà chiamata «principio di non
contraddizione».
Più tardi ancora, tuttavia, varie forme del pensiero filosofico
riterranno che il tentativo di separare questo principio dalla volontà,
facendone la suprema «verità» incontrovertibile, è destinato a fallire.
Ad esempio lo ritengono Nietzsche e Dostoevskij, e prima di loro Giacomo
Leopardi e (secondo alcuni) Hegel. Lo ritiene gran parte della
filosofia contemporanea. Per Popper tale principio è sì il fondamento
dell'atteggiamento «razionale»: senza di esso crollerebbe l'intero
edificio della scienza; sennonché, per lui, ciò che fa scegliere tale
atteggiamento è una «fede irrazionale»; e quindi è innanzitutto il
principio di non contraddizione ad esser dominato e guidato da una
volontà («fede») senza verità. Al di sotto della propria maschera tale
principio è in effetti, nelle sue diverse configurazioni e formulazioni
storiche, un grande dogma, è appunto la volontà che le cose stiano nel
modo da esso prescritto. (Anche la filosofia ha sostanzialmente
trascurato l'unico grande tentativo, compiuto da Aristotele, di
sottrarre quel principio all'arbitrio della volontà). Tale principio
serve certamente a vivere, rileva Nietzsche, ma che una cosa serva e sia
utile non significa che essa sia vera.
Ma tutta la vicenda che abbiamo sin qui sommariamente richiamata — la
storia cioè del Rifiuto originario — copre e nasconde qualcosa di
essenzialmente più profondo e decisivo.
Da un lato copre e nasconde il Rifiuto autentico, ossia l'autentica
negazione che le cose siano altro da ciò che esse sono: il Rifiuto che
dunque non è né volontà, né il fallito tentativo filosofico di liberare
il Rifiuto dalla volontà. Dall'altro lato quella vicenda copre e
nasconde il sapere più alto. Esso dice che proprio perché nessuna cosa
può essere altro da ciò che essa è (proprio perché ogni cosa è se
stessa), proprio per questo ogni cosa è eterna. Ogni cosa — dunque ogni
stato di cose, ogni stato del mondo e dell'anima, ogni situazione ed
evento, e il contenuto di ogni istante del tempo.
La teoria della relatività afferma sì che ogni stato del mondo (ossia
del cronotopo quadridimensionale) è eterno, ma non lo afferma perché
ogni cosa non può essere altro da sé: lo afferma invece sulla base della
logica scientifica, che è ipotetica, e quindi controvertibile,
falsificabile. Anche la teoria della relatività appartiene alla vicenda
che copre e nasconde sia il Rifiuto autentico, sia l'Eternità (anch'essa
da intendere autenticamente, cioè in senso essenzialmente diverso da
quello che le compete lungo tale vicenda).
Ci si è rivolti da tempo, e procedendo da prospettive diverse, ai miei
scritti, che indicano il senso autentico del Rifiuto e dell'Eternità
come un dito indica la Luna. Restando in debito, verso molti miei
critici, di una risposta adeguata alle loro osservazioni, mi limito qui a
richiamare alcuni degli interventi più recenti. Suggestive e
ricchissime le indagini contenute nel sesto tomo di Filosofia e
idealismo di Gennaro Sasso (Bibliopolis, 2012). Che termina il suo libro
con uno struggente «Congedo» dai suoi lettori. Vorrei invitare Sasso a
rimuoverlo, quel congedo, a non restargli fedele, innanzitutto perché
egli ha ancora molto da dire, e poi anche perché possa continuare il
nostro colloquio — che generosamente, anche in queste sue pagine,
considera importante per lo sviluppo delle sue ricerche. Egli sa bene
che cosa intendo quando parlo del senso autentico del Rifiuto e
dell'Eternità.
Lo sa bene, e sostanzialmente lo condivide, anche Leonardo Messinese,
che, dopo altri due libri recentemente dedicati ai miei scritti,
pubblica ora Stanze della metafisica. Heidegger, Löwith, Carlini,
Bontadini, Severino (Morcelliana, 2013) e Né laico, né cattolico.
Severino, la Chiesa, la filosofia (Dedalo, 2013). Messinese è un
pensatore, e sacerdote, che tenta acutamente e coraggiosamente di porre
la Luna, indicata dal mio dito, alla base di ogni sapienza. Un tentativo
compiuto anche da Francesco Totaro nel suo importante volume Assoluto e
relativo. L'essere e il suo accadere per noi (Vita e Pensiero, 2013).
Molto interessante e ricco di spunti anche il modo in cui Nello Barile,
nel suo Iperparmenide. Scienza, cultura e comunicazione. Oltre il
postmoderno (Mimesis, 2012) si rivolge alla Luna e al mio dito.
Sta uscendo in questi giorni presso l'Editrice Laterza L'uso giuridico
della natura, di Natalino Irti, dove egli riprende il nostro
pluridecennale colloquio. Con un agio maggiore di quello che qui mi è
consentito prenderò in considerazione queste sue pagine, come al solito
di grande apertura e penetrazione, in un altro mio intervento. Qui mi
limito a ringraziare di cuore Irti per avermi generosamente dedicato il
suo libro. Già la dedica dice molto sul senso del nostro colloquio: «A
Emanuele Severino nella concordia discors del pensiero». Mi sembra che
la concordia sia destinata a crescere.
Carlo Sini scrive invece che, sì, io lo costringo ad «arrendersi»
(perché lo colgo in contraddizione), ma che egli può replicare dicendo:
«Sì, mi contraddico, e allora?!» (La verità è un'avventura, Gruppo
Abele, 2013). Allora, rispondo, se non gli importa contraddirsi, non gli
importa che la verità non sia un'avventura e nemmeno che ogni
affermazione contenuta in questo e negli altri suoi libri sia la
negazione di ciò che essa afferma. Sì che ad esempio, quando egli scrive
che noi «siamo quel che abbiamo e che per il fatto stesso di averlo
siamo destinati a perderlo», egli è disposto a contraddirsi e a
riconoscere che noi non siamo quel che abbiamo e non siamo destinati a
perderlo. Certo, se si ha presente (come mi sembra che accada a Sini e a
tanti altri) quella forma dogmatica dove il «principio di non
contraddizione» è la semplice volontà che il mondo non sia
contraddittorio, allora — se la cosa serve, se è vantaggiosa, se rende
vincenti — ci si può certo disinteressare del proprio contraddirsi. A
uno che gli aveva fatto notare che stava contraddicendosi, Stalin
rispose appunto: «Sì, compagno, mi contraddico, e allora?!».
Raffinato e penetrante come gli altri scritti di Alessandro Carrera,
anche La consistenza della luce. Il pensiero della natura da Goethe a
Calvino (Feltrinelli, 2010). Scrive Carrera che il suo saggio fa parte
di una trilogia incominciata con La consistenza del passato: Heidegger
Nietzsche Severino (Medusa, 2007), dove si esamina, dopo Heidegger e
Nietzsche, «la radicale confutazione, da parte di Severino, di ogni
ipotesi heideggeriana, nietzscheana o altrui, in base alla quale il
passato sparirebbe nel non essere o non potrebbe sopravvivere se non
manipolato dal presente e per i fini del presente». Sì, la consistenza
del passato è implicata dall'Eternità di ogni cosa. Non nel senso che
questa luce che viene dalla finestra debba esistere in ogni tempo, ma
nel senso che il fluire del tempo non porta via con sé, nel nulla,
questa luce, che invece è, eterna — e che, sì, ora è già scomparsa, ed è
un passato, ma come ogni altra cosa è destinata a ritornare.
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