Ma quale utopia!
Torna in libreria «Noi» fantascienza dall’Urss Il
romanzo scritto nel 1920 Evgenij Zamjatin è stato ritradott
o da Voland:
una critica dei totalitarismi e del pensiero unico, prima del Grande
Fratello
di Jolanda Bufalini l’Unità 4.7.13
QUANDO SONO INIZIATI I CLICK
PER LE ESPULSIONI ON LINE DEI DISSIDENTI M5S, sono andata a prendere, da
uno scaffale alto della libreria, il vecchio grosso volume pubblicato
negli Anni Ottanta dagli Editori Riuniti, Noi della Galassia, che
raccoglie romanzi e racconti di fantascienza sovietici, il primo è My,
(«Noi»), di Evgenij Zamjatin, romanzo precursore della letteratura
anti-utopica, strumento affilato della critica dei totalitarismi nati
dalla lodevole intenzione di offrire alla comunità umana una formula di
felicità. È stato, quindi, con piacere che abbiamo scoperto che la casa
editrice Voland, seguendo lo stesso filo di pensiero, ha scelto di
concludere proprio con una nuova traduzione di Noi, la serie di «Sirin
classica», di cui il capolavoro di Zamjatin è il numero 10 (pagine 282,
euro 10,00).
È vero che nell’epoca del pensiero unico (di pensieri
unici non comunicanti fra loro) l’incubo di Zamjatin potrebbe
attagliarsi ad altri ambiti e non solo allo streaming grillesco.
Scrive
nella postfazione il traduttore Alessandro Niero: «In tempi di internet
l’invasività dei mezzi di controllo preconizzata dallo scrittore nel
1919-1920 rimane o torna prepotentemente attuale, specie se si coniuga
con la lobotomia non dirò televisiva ma più genericamente da schermo a
cui tutti, chi più chi meno, siamo sottoposti»... «Noi conserva intatto
il suo fascino di ritratto “futuribile” anche qualora lo si svincoli dal
contesto che gli era più prossimo della neonata società comunista e lo
si riallacci a istanze fantascientifiche, a noi relativamente vicine».
Al
traduttore è toccata una fatica improba perché la lingua di Zamjatin,
tutta dentro la tempesta sperimentale degli Anni Venti, è aguzza e
sincopata e lui «più propenso alla sottrazione che all’aggiunta,
all’implicito più che all’esplicito, in ciò aiutato dal russo che
consente di recuperare in sinteticità e addensamento ciò che l'italiano
tende a distendere e dispiegare».
Noi è un romanzo visivo più che di
parola, la musica essendo uno zumzum meccanico, un ticchettio di
orologi, un rombare di aeromobili, è un claustrofobico sogno di
trasparenze, poiché la casa di vetro, la vita organizzata, l’amore
codificato e sottomesso al benessere generale sono i principi su cui
poggia l’idea della società felice finalmente liberata dalla libertà.
La
precoce critica (il Grande Fratello orwelliano è del 1924, quando già i
totalitarismi del Novecento avevano avuto modo di dispiegarsi) di ciò
che si andava costruendo nella società post rivoluzionaria, si
accompagna con la diffidenza verso le potenzialità della scienza e della
possente rivoluzione tecnologica, sicché il lettore precipita, leggendo
dentro un quadro di Leger, dentro un futurismo algido e azzurro di
cieli senza una nuvola. E il primo segno dell'irruzione
dell’irrazionale, della v-1, si manifesta come la penombra delle
palpebre-tende di I-330, la fascinosa e sfuggente corruttrice che
penetra come un veleno nel convinto costruttore dello Stato Unico,
dell’Integrale che conquisterà l’universo.
La costruzione del mondo
parallelo di Zamjatin è quasi perfetta, nel senso che nel racconto del
mondo nuovo, felice perché privo ormai da secoli della libertà, che ha
interiorizzato il limite come condizione fondamentale per estromettere
il caos selvaggio della natura, il linguaggio non fa ricorso al noto per
inventare ambienti, luoghi, percorsi, archeologia, insieme alle
caratteristiche fisiche dei protagonisti, il poeta con la nuca a
cassetta, la spia, il custode, con il corpo S e il passo ciabattante.
Solo
di rado, come un sassolino per Pollicino, fanno capolino le idee
dell’autore, come nella meditazione dell’appunto 11: «Gli antichi
sapevano che lassù dimorava il loro scettico più grande, annoiato: Dio.
Noi sappiamo che lassù dimora il nulla azzurro cristallino, nudo,
indecente. Adesso io non so cosa ci sia lassù: ho appreso troppe cose.
La conoscenza assolutamente persuasa della propria infallibilità è una
fede»
Verità nascoste
Todorov: “Se il capolavoro nasce in un clima di terrore”
Da Bulgakov a Pasternak, a Vasilij Grossman i grandi romanzi sovietici scritti in segretodi Tzvetan Todorov Repubblica 4.7.13
I regimi totalitari che hanno proliferato in Europa nel corso del XX secolo hanno impedito ai loro popoli di cercare da soli la verità: quella relativa alla società in cui vivevano, quella nascosta nell’intimo di ognuno o anche quella riguardante il mondo fisico circostante. Al posto della libera e autonoma ricerca della verità, vigeva la docile sottomissione ai diktat del Partito al potere.
Vittime di un tale sistema coercitivo, gli artisti e gli scrittori sudditi degli Stati totalitari sono stati costretti a scegliere tra linee di condotta diverse. Alcuni hanno sposato il dogma ufficiale, come se esso corrispondesse alle loro più profonde convinzioni in materia di verità e di giustizia. Altri hanno optato per il silenzio, ossia hanno rinunciato a qualunque tipo di libera espressione, vale a dire alla loro vocazione primaria. Altri ancora hanno scelto l’esilio (...). In ultimo, un gruppo relativamente poco numeroso di scrittori e di artisti si è adoperato a percorrere una strada diversa, quella che consiste nel vivere una doppia vita: un’esistenza pubblica conforme agli obblighi ufficiali, e un’altra del tutto privata, interiore, nascosta, votata alla produzione di un’opera libera da ogni condizionamento esterno. È un tipo di sdoppiamento che si è verificato perlopiù in Unione Sovietica. Ci sono tre famosi romanzi sovietici che sono stati scritti in queste condizioni: Il Maestro e Margheritadi Michail Bulgakov, Il Dottor Zivagodi Boris Pasternak, Vita e destino di Vasilij Grossman. Tutti e tre gli scrittori nominati ammettono la possibilità che della loro opera venga vietata la pubblicazione, o quella di essere puniti per l’audacia dimostrata nel dedicarvi la propria vita; eppure tutti e tre procedono instancabilmente nella sua stesura. Bulgakov concepisce l’idea del proprio romanzo intorno al 1928, scrive una prima versione frammentaria e ne dà subito lettura a un gruppo di amici — tra i quali, secondo una legge statistica dell’Urss, è presente almeno un delatore. E infatti nello stesso 1928 un rapporto dettagliato sulle reazioni degli ascoltatori alla lettura di Bulgakov approda negli uffici della polizia politica: i presenti si sono resi conto all’istante che il libro è impubblicabile in quella forma, e che gli attacchi contro la società contemporanea in esso contenuti sono troppo brutali.
Dopo aver terminato una prima versione, Bulgakov la fa avere alla moglie con la seguente annotazione:«Mettila nel comò, dove già riposano in pace le mie commedie assassinate ». Tuttavia non manca di aggiungere: «In ogni caso non conosciamo il futuro che ci aspetta». E continua a correggere il romanzo fino alla morte, avvenuta nel 1940. Ventisei anni dopo, nel 1966-1967, le sue speranze si realizzano. La vedova — la quale avrebbe dichiarato: «Pur di far pubblicare i libri di Misha mi sarei concessa a chiunque» — riesce a vincere le resistenze e a far uscireIl Maestro e Margherita, sia pure con qualche taglio, nella stessa Unione Sovietica. Il libro è talmente in contrasto con tutte le pubblicazioni ufficiali che l’effetto è esplosivo: scrivendo in segreto, senza mirare alla pubblicazione immediata, lo scrittore ha prodotto un’opera più vera di tutte quelle dei colleghi.
Pasternak sogna di scrivere un’opera in prosa dedicata alla storia della sua generazione, quella degli anni precedenti la Seconda guerra mondiale, ma solo all’indomani della vittoria sul nazismo e della presa di coscienza che tale trionfo non sta arrecando alcun miglioramento alle condizioni di vita della popolazione sovietica, s’impegna nella realizzazione del progetto che gli sta a cuore. Ancor più di Bulgakov, sul cui destino non ha mancato di riflettere, è consapevole di dover scegliere tra due obiettivi: cercare la verità in piena solitudine o proporsi di raggiungere il pubblico del suo tempo. «Devo rinunciare a una parte della mia identità, se intendo realizzare qualcosa di autentico», scrive alla ex moglie, facendole capire che, se vuole sentirsi libero, il prezzo da pagare è quello. E aggiunge: «Per la prima volta in vita mia ho voglia di scrivere qualcosa divero» — il che equivale a tenerlo nascosto. È una decisione che procura a Pasternak uno stato di beatitudine della durata di dieci anni, dal 1945 al 1955, in pratica il decennio della stesura del romanzo.
Dopo aver rinunciato alla propria personalità pubblica, Pasternak ha la sensazione di coincidere pienamente con se stesso, sa dove si trova la verità e quale ruolo gli sta riservando il destino. La morte di Stalin, nel 1953, il timido processo di destalinizzazione inaugurato da Kruscev scuotono un poco la sua decisione, ma non al punto da farlo desistere dall’impresa. «Il mio romanzo non può essere accettato per come è ora», scrive a un amico, e aggiunge: «Eppure deve essere stampato così com’è: inaccettabile». Sappiamo com’è andata: il clima di “disgelo” gli fa ritenere che la pubblicazione sia diventata in qualche modo possibile e manda il manoscritto a una rivista, mentre il corrispondente italiano dell’Unità a Mosca, Sergio d’Angelo, lo convince a prestargliene una copia. La rivista sovietica rifiuta di pubblicarlo e Pasternak deve arrendersi all’evidenza: criticare il dogma ufficiale è inaccettabile e il divieto durerà finché durerà la dittatura del proletariato imposta dal comunismo. Nel frattempo d’Angelo ha spedito il manoscritto a Feltrinelli, che lo pubblica in italiano nel 1957. E l’anno successivo l’autore riceve il premio Nobel per la Letteratura. (...) Grossman ha deciso di raccontare l’epopea di Stalingrado e della guerra condotta dai sovietici contro l’esercito tedesco nel momento stesso in cui hanno luogo le battaglie, che segue da vicino in qualità di corrispondente militare. Si mette al lavoro fin dal 1945, ma deve ben presto prendere atto che le autorità intendono scomporre in due il suo progetto. Un primo volume, intitolatoPer una giusta causa, è portato a termine nel 1949 e viene proposto al direttore di un rivista. Dopo molti tira e molla sarà pubblicato nel 1952, e immediatamente attaccato dalla stampa ufficiale. Nel frattempo Grossman ha iniziato la stesura del secondo volume dell’opera, quello che si chiamerà Vita e destino.
Ne ha rivelato l’esistenza e il contenuto solo a pochi amici intimi. Conclude il romanzo nel 1960 e, come Pasternak, s’illude che l’antistalinismo di Kruscev possa renderne possibile la pubblicazione. Il redattore capo della rivista alla quale spedisce il ma-noscritto si spaventa a tal punto per quello che sta leggendo da avere l’impressione di esserne contaminato; per evitarlo lo mette subito nelle mani della polizia politica. La quale, poco dopo, fa irruzione in casa dello scrittore, confisca tutte le copie del manoscritto di cui dispone e non risparmia neppure la macchina per scrivere (...).
Grossman non viene destinato al gulag, come sarebbe accaduto sotto la dittatura di Stalin. Un amico intimo dichiara: «Si tratta dell’arresto dell’anima senza il corpo — ma che cos’è mai un corpo senz’anima?» Le autorità si accontentano di convocarlo e di annunciargli che un’eventuale pubblicazione del suo libro sarebbe più nociva al regime di una bomba atomica (il più grosso complimento mai rivolto a un libro); potrà essere pubblicato, ma non prima di 250 anni! Perprudenza, Grossman ha nascosto altre due copie del libro in casa di amici fidati. Dopo la sua morte (nel 1964), uno di loro decide di spedire il manoscritto all’estero, impresa che, in assenza di strumenti elettronici — e anche di fotocopiatrici — presuppone l’attivazione di una vera e propria rete di solidarietà. Il romanzo esce in Occidente nel 1980, in Urss nel 1988, ventotto anni dopo il suo compimento.
Tutti e tre i romanzi nominati, ognuno dei quali ha qualità e difetti di differente natura, sono stati scritti in piena libertà di coscienza, con la speranza pur fuggevole di una loro pubblicazione, ma anche con la ferma decisione dei loro autori di non scendere a patti, in caso di rifiuto. (...) Nel mondo della creazione artistica l’illusione della libertà atrofizza la ricerca personale; e le catene visibili diventano, per i più audaci, uno stimolo a impegnarsi nella ricerca della verità. Sta a noi trovare un mezzo meno doloroso di quello sperimentato dagli artisti del passato, per scuotere quell’illusione.
(Traduzione di Sergio Arecco)
Todorov: “Se il capolavoro nasce in un clima di terrore”
Da Bulgakov a Pasternak, a Vasilij Grossman i grandi romanzi sovietici scritti in segretodi Tzvetan Todorov Repubblica 4.7.13
I regimi totalitari che hanno proliferato in Europa nel corso del XX secolo hanno impedito ai loro popoli di cercare da soli la verità: quella relativa alla società in cui vivevano, quella nascosta nell’intimo di ognuno o anche quella riguardante il mondo fisico circostante. Al posto della libera e autonoma ricerca della verità, vigeva la docile sottomissione ai diktat del Partito al potere.
Vittime di un tale sistema coercitivo, gli artisti e gli scrittori sudditi degli Stati totalitari sono stati costretti a scegliere tra linee di condotta diverse. Alcuni hanno sposato il dogma ufficiale, come se esso corrispondesse alle loro più profonde convinzioni in materia di verità e di giustizia. Altri hanno optato per il silenzio, ossia hanno rinunciato a qualunque tipo di libera espressione, vale a dire alla loro vocazione primaria. Altri ancora hanno scelto l’esilio (...). In ultimo, un gruppo relativamente poco numeroso di scrittori e di artisti si è adoperato a percorrere una strada diversa, quella che consiste nel vivere una doppia vita: un’esistenza pubblica conforme agli obblighi ufficiali, e un’altra del tutto privata, interiore, nascosta, votata alla produzione di un’opera libera da ogni condizionamento esterno. È un tipo di sdoppiamento che si è verificato perlopiù in Unione Sovietica. Ci sono tre famosi romanzi sovietici che sono stati scritti in queste condizioni: Il Maestro e Margheritadi Michail Bulgakov, Il Dottor Zivagodi Boris Pasternak, Vita e destino di Vasilij Grossman. Tutti e tre gli scrittori nominati ammettono la possibilità che della loro opera venga vietata la pubblicazione, o quella di essere puniti per l’audacia dimostrata nel dedicarvi la propria vita; eppure tutti e tre procedono instancabilmente nella sua stesura. Bulgakov concepisce l’idea del proprio romanzo intorno al 1928, scrive una prima versione frammentaria e ne dà subito lettura a un gruppo di amici — tra i quali, secondo una legge statistica dell’Urss, è presente almeno un delatore. E infatti nello stesso 1928 un rapporto dettagliato sulle reazioni degli ascoltatori alla lettura di Bulgakov approda negli uffici della polizia politica: i presenti si sono resi conto all’istante che il libro è impubblicabile in quella forma, e che gli attacchi contro la società contemporanea in esso contenuti sono troppo brutali.
Dopo aver terminato una prima versione, Bulgakov la fa avere alla moglie con la seguente annotazione:«Mettila nel comò, dove già riposano in pace le mie commedie assassinate ». Tuttavia non manca di aggiungere: «In ogni caso non conosciamo il futuro che ci aspetta». E continua a correggere il romanzo fino alla morte, avvenuta nel 1940. Ventisei anni dopo, nel 1966-1967, le sue speranze si realizzano. La vedova — la quale avrebbe dichiarato: «Pur di far pubblicare i libri di Misha mi sarei concessa a chiunque» — riesce a vincere le resistenze e a far uscireIl Maestro e Margherita, sia pure con qualche taglio, nella stessa Unione Sovietica. Il libro è talmente in contrasto con tutte le pubblicazioni ufficiali che l’effetto è esplosivo: scrivendo in segreto, senza mirare alla pubblicazione immediata, lo scrittore ha prodotto un’opera più vera di tutte quelle dei colleghi.
Pasternak sogna di scrivere un’opera in prosa dedicata alla storia della sua generazione, quella degli anni precedenti la Seconda guerra mondiale, ma solo all’indomani della vittoria sul nazismo e della presa di coscienza che tale trionfo non sta arrecando alcun miglioramento alle condizioni di vita della popolazione sovietica, s’impegna nella realizzazione del progetto che gli sta a cuore. Ancor più di Bulgakov, sul cui destino non ha mancato di riflettere, è consapevole di dover scegliere tra due obiettivi: cercare la verità in piena solitudine o proporsi di raggiungere il pubblico del suo tempo. «Devo rinunciare a una parte della mia identità, se intendo realizzare qualcosa di autentico», scrive alla ex moglie, facendole capire che, se vuole sentirsi libero, il prezzo da pagare è quello. E aggiunge: «Per la prima volta in vita mia ho voglia di scrivere qualcosa divero» — il che equivale a tenerlo nascosto. È una decisione che procura a Pasternak uno stato di beatitudine della durata di dieci anni, dal 1945 al 1955, in pratica il decennio della stesura del romanzo.
Dopo aver rinunciato alla propria personalità pubblica, Pasternak ha la sensazione di coincidere pienamente con se stesso, sa dove si trova la verità e quale ruolo gli sta riservando il destino. La morte di Stalin, nel 1953, il timido processo di destalinizzazione inaugurato da Kruscev scuotono un poco la sua decisione, ma non al punto da farlo desistere dall’impresa. «Il mio romanzo non può essere accettato per come è ora», scrive a un amico, e aggiunge: «Eppure deve essere stampato così com’è: inaccettabile». Sappiamo com’è andata: il clima di “disgelo” gli fa ritenere che la pubblicazione sia diventata in qualche modo possibile e manda il manoscritto a una rivista, mentre il corrispondente italiano dell’Unità a Mosca, Sergio d’Angelo, lo convince a prestargliene una copia. La rivista sovietica rifiuta di pubblicarlo e Pasternak deve arrendersi all’evidenza: criticare il dogma ufficiale è inaccettabile e il divieto durerà finché durerà la dittatura del proletariato imposta dal comunismo. Nel frattempo d’Angelo ha spedito il manoscritto a Feltrinelli, che lo pubblica in italiano nel 1957. E l’anno successivo l’autore riceve il premio Nobel per la Letteratura. (...) Grossman ha deciso di raccontare l’epopea di Stalingrado e della guerra condotta dai sovietici contro l’esercito tedesco nel momento stesso in cui hanno luogo le battaglie, che segue da vicino in qualità di corrispondente militare. Si mette al lavoro fin dal 1945, ma deve ben presto prendere atto che le autorità intendono scomporre in due il suo progetto. Un primo volume, intitolatoPer una giusta causa, è portato a termine nel 1949 e viene proposto al direttore di un rivista. Dopo molti tira e molla sarà pubblicato nel 1952, e immediatamente attaccato dalla stampa ufficiale. Nel frattempo Grossman ha iniziato la stesura del secondo volume dell’opera, quello che si chiamerà Vita e destino.
Ne ha rivelato l’esistenza e il contenuto solo a pochi amici intimi. Conclude il romanzo nel 1960 e, come Pasternak, s’illude che l’antistalinismo di Kruscev possa renderne possibile la pubblicazione. Il redattore capo della rivista alla quale spedisce il ma-noscritto si spaventa a tal punto per quello che sta leggendo da avere l’impressione di esserne contaminato; per evitarlo lo mette subito nelle mani della polizia politica. La quale, poco dopo, fa irruzione in casa dello scrittore, confisca tutte le copie del manoscritto di cui dispone e non risparmia neppure la macchina per scrivere (...).
Grossman non viene destinato al gulag, come sarebbe accaduto sotto la dittatura di Stalin. Un amico intimo dichiara: «Si tratta dell’arresto dell’anima senza il corpo — ma che cos’è mai un corpo senz’anima?» Le autorità si accontentano di convocarlo e di annunciargli che un’eventuale pubblicazione del suo libro sarebbe più nociva al regime di una bomba atomica (il più grosso complimento mai rivolto a un libro); potrà essere pubblicato, ma non prima di 250 anni! Perprudenza, Grossman ha nascosto altre due copie del libro in casa di amici fidati. Dopo la sua morte (nel 1964), uno di loro decide di spedire il manoscritto all’estero, impresa che, in assenza di strumenti elettronici — e anche di fotocopiatrici — presuppone l’attivazione di una vera e propria rete di solidarietà. Il romanzo esce in Occidente nel 1980, in Urss nel 1988, ventotto anni dopo il suo compimento.
Tutti e tre i romanzi nominati, ognuno dei quali ha qualità e difetti di differente natura, sono stati scritti in piena libertà di coscienza, con la speranza pur fuggevole di una loro pubblicazione, ma anche con la ferma decisione dei loro autori di non scendere a patti, in caso di rifiuto. (...) Nel mondo della creazione artistica l’illusione della libertà atrofizza la ricerca personale; e le catene visibili diventano, per i più audaci, uno stimolo a impegnarsi nella ricerca della verità. Sta a noi trovare un mezzo meno doloroso di quello sperimentato dagli artisti del passato, per scuotere quell’illusione.
(Traduzione di Sergio Arecco)
Nessun commento:
Posta un commento