Risvolto
È un’idea malsana che quando c’è guerra c’è storia, quando c’è pace no.
Il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato.Si parla e si scrive molto di guerre, di eccidi e di violenze. È il
racconto del sangue versato. Ma non saremmo qui se qualcuno non avesse
lavorato per risparmiare il sangue.
Persone e gruppi, come quei soldati della Grande Guerra che
concordavano tregue fra le trincee opposte. Popoli che misero in salvo i
loro concittadini ebrei o che nascosero e protessero migliaia di
militari sbandati e di prigionieri di guerra. Diplomazie e governi che
hanno tramato la pace, non sempre la guerra.
Senza Mandela e Tutu non ci sarebbe stata una transizione pacifica in
Sudafrica, senza King un così forte movimento per i diritti civili,
senza il Dalai Lama una nonviolenza tibetana, senza Ibrahim Rugova una
kosovara e, soprattutto, una nonviolenza tout court senza Gandhi.
La conta dei salvatiè dedicato a queste storie. Storie molto
diverse per le caratteristiche e per l’attenzione storica e mediatica
che hanno ottenuto (o non ottenuto). Tutte mostrano due verità. La
prima: il sangue può essere risparmiato anche da chi non ha potere, o ha
un potere minimo. La seconda: se è importante raccontare una guerra,
ancora più importante è descrivere come un conflitto non è deflagrato. Per capire come si può fare, e con che mezzi.
Non è la guerra che fa la storia
Il saggio di Anna Bravo: l’analisi degli sforzi compiuti per evitare i conflitti
di Guido Crainz
«Il
sangue risparmiato fa storia come il sangue versato»: nell’introduzione
de La conta dei salvati (Laterza, pagg. 246, euro 16) Anna Bravo
dichiara bene la ragion d’essere del libro, una ricognizione non delle
guerre ma degli sforzi compiuti per evitarle o per contenerne gli
effetti devastanti (“Dalla Grande guerra al Tibet, storie di sangue
risparmiato”, per citare il sottotitolo). Un rovesciamento dichiarato,
in altri termini, di quella «mutilazione della storia» che fa delle
guerre «qualcosa di simile ai buchi neri del cosmo che attirano,
assorbono, inghiottono tutto quel che gli sta intorno»: fanno
scomparire, ad esempio, l’intenso lavorio volto a evitarle o a
ritardarle. In questo modo, osserva la Bravo, la gerarchia dei temi di
ricerca viene quasi a fornire una veste parascientifica alla visione del
mondo che fa della guerra la dimensione normaledella storia.
È un
viaggio affascinante e non privo di rischi, quello della Bravo, e si
muove fra questioni differenti ed eterogenee. Non manca naturalmente
l’esperienza di Gandhi («il padre del sangue risparmiato, indiano e
britannico »), con la lettura della non violenza come approdo. E altre
pagine sono dedicate all’azione delle diplomazie internazionali nei
decenni che precedono la prima guerra mondiale, con il progressivo
perdere d’efficacia delle strategie di dissuasione e contenimento. Vanno
poi letti insieme, pur nella loro grande diversità, i due capitoli che
riguardano differenti forme dell’agire «senz’armi controHitler» nella
seconda guerra mondiale. In riferimento all’Italia sono ripresi temi che
la Bravo stessa ha contribuito ad imporre, in polemica con il
privilegiamento quasi esclusivo della Resistenza armata. In realtà
proprio le molteplici forme di «resistenza civile» fanno comprendere una
più ampia coralità dell’opposizione al fascismo e al nazismo: dalla
protezione agli sbandati dell’8 settembre («il popolo italiano difendeva
il suo esercito, visto che si era dimenticato di difendersi da sé», per
dirla con Luigi Meneghello) sino all’aiuto, denso di rischi, a migliaia
di ex prigionieri alleati o agli ebrei.
L’analisi si estende poi
alle forme di resistenza non armata in Europa, sulla scia di un
pionieristico lavoro di diversi anni fa di Jacques Sémelin. E si misura
in modo diretto con l’esperienza della Danimarca: analizza cioè i modi
con cui vengono utilizzati gli spazi che il nazismo lascia nominalmente
alle istituzioni danesi fino al ‘43, dopo un’invasione che la Danimarca
ha subito senza combattere. Viene analizzata dunque un’opposizione non
militare che ha differenti forme e culmina con il salvataggio di massa
degli ebrei: quasi una anticipazione di quel che oggi chiamiamo
«interposizione non violenta » contro i massacri di civili, osserva la
Bravo. Impossibile anch’essa, naturalmente, se la guerra contro il
nazismo non fosse stata dichiarata e combattuta dagli Alleati, ma non
per questo meno degna di riflessione e studio.
I nodi sottesi a
queste pagine ritornano poi nell’analisi della resistenza non violenta
nel Kossovo degli anni novanta. Al centro vi è qui la figura di Ibrahim
Rugova, con la ricerca di una via che escludesse l’uso delle armi e
vedesse all’opera anche uno Stato parallelo: sino al momento in cui,
stritolata dagli eventi, essa apparve quasi subalterna a Milosevic, di
fatto una rinuncia all’autodifesa. Gli stessi nodi ritornano infine
quando lo sguardo si sposta al Tibet del Dalai Lama: realtà remota e
anomala, certo, ma capace di riproporre in altre forme gli stessi
«chiaroscuri della storia ». Le stesse, intricate e talora irrisolte
questioni su cui il libro propone riflessioni non scontate.
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