domenica 29 settembre 2013
Il sen. Mario Tronti ha già nostalgia del governo con Angelino Alfano
di Mario Tronti l’Unità 29.9.13
Adesso
il passaggio si fa stretto. La più fervida fantasia non avrebbe
immaginato questo esito catastrofico della cosiddetta seconda
Repubblica. Era nata sulla retorica del «nuovo è bello» e muore nelle
convulsioni delle più antiche pratiche eversive. Perché di questo si
tratta: un sovversivismo che, attraverso una strategia di allargamento
del conflitto, va all’attacco non più del solo potere giudiziario, ma
del potere esecutivo e di quello legislativo, governo e Parlamento. E
non risparmia la figura di garanzia del Capo dello Stato. «Inquietante»,
si è detto, autorevolmente.
Questo senso di inquietudine, politica,
sulla sorte delle istituzioni, va in questo particolare momento
trasmesso al Paese intero, va calato nell’opinione del cittadino comune,
depositato nella coscienza popolare. Ecco il compito del partito, che
qui, in questi casi, ritrova la sua funzione di raccordo tra società e
Stato. Funzione indispensabile e insostituibile, se si vuole
riconsegnare dignità all’agire
pubblico. Va rivendicata con orgoglio,
e sottolineata con forza, la differenza di qualità tra centrosinistra e
centrodestra, nella situazione presente. Va segnato con nettezza il
confine tra responsabilità e avventurismo, perché tutti possano vedere. E
non per liquidare subito, domani, un accordo di governo. Ma per
intervenire con l’iniziativa sul campo avverso, perché esplodano le sue
contraddizioni interne. È vero che c’è lì dentro una «minoranza
silenziosa», come sottolineava ieri Massimo Franco sul Corriere. Tutti
sanno, lo sanno i firmatari dei prestampati, lo sa il plurimputato in
attesa di ulteriori condanne definitive, che il destino del personaggio è
segnato. La rabbiosa reazione di questi giorni nasce da questa
consapevolezza. Il campo della sinistra deve mostrare misura e
determinatezza. Niente cedimenti ma anche nessuna ordalìa, nessun
giudizio di Dio. Le sentenze si rispettano, ma anche la persona,
qualunque persona, nel dramma che vive in quel determinato momento della
sua vita, va rispettata. La morte in esilio di Craxi, un personaggio
divenuto un duro avversario, che tutti abbiamo giustamente contrastato,
non è un buon ricordo repubblicano. Il presidente Napolitano ha
richiamato molto questa categoria del rispetto, rievocando una figura di
intellettuale coinvolto in politica, come quella di Luigi Spaventa.
L’ha legata alla rivendicazione di un confronto politico civile. Mi ha
colpito la commozione del presidente, quando richiamava altri tempi in
cui questa civiltà del confronto non era mai venuta meno, pur in mezzo a
contrapposizioni che, misurate con quelle di oggi, apparivano ed erano
persino più severe e profonde. Nella maledetta prima Repubblica
novecentesca, questa era la norma condivisa, e mai veniva superato il
limite della rispettosa reciproca considerazione tra le grandi forze
politiche e soprattutto nei confronti del comune terreno istituzionale.
Questo
discorso mi permette di avanzare una raccomandazione. Approfittiamo di
questo passaggio stretto per allargare lo sguardo. Se sarà dato tempo e
in queste ore francamente non lo sappiamo a un dibattito congressuale
disteso in un tempo sia pur breve, e sulle idee più che sulle persone,
andrebbe avviata una seria, argomentata, approfondita riflessione sulle
premesse storico-politiche che hanno portato a questo esito minaccioso e
destabilizzante. È urgente una rivisitazione del ventennio
berlusconiano, a partire però dalle cause vere che lo hanno reso
possibile: dal dopo ’89 ai primi anni Novanta, dalle scelte della
sinistra di allora, e del cattolicesimo democratico di allora, dalla
dissoluzione dei grandi partiti, dalla involuzione istituzionale, che
nell’illusione di una semplificazione dei canali del consenso attraverso
l’elezione diretta di tutto quello che c’era da eleggere, ha provocato
quella crisi di rappresentanza della società da
parte della politica,
che sta davanti a noi come uno spazio vuoto da riempire con
intelligenti riforme dello Stato e dei partiti.
E qui bisogna essere
chiari. Non si può ridurre la complessità della domanda sociale, in una
società frantumata comprendente una molteplicità selvaggia di figure di
lavoro e di figure di impresa, di condizioni di vita bipolarizzate tra
privilegio e miseria, di sensibilità umane cresciute nell’acculturazione
di massa, di bisogni negati e diritti sovraeccitati, non si può
rappresentare questo multiverso di nuovo popolo nella semplificazione di
un nome sulla scheda, di una faccia sui manifesti, di una
personalizzazione sul messaggio. Non basta quanto abbiamo visto in
questo ventennio, non è sufficiente lo sfascio che si è procurato con
questo sistema? Provaci ancora, Sam, magari da quest’altra parte? No, ci
vuole un soggetto politico, che aderisca con la sua struttura
organizzata a tutte le articolazioni di questo corpo sociale complesso,
tanto più dentro una crisi che lo ha fatto emergere a coscienza,
coscienza ancora confusa, elettoralmente ondivaga, perché non più
orientata, non più diretta, non più appunto politicamente rappresentata.
La sinistra non soffre per difetto di consenso, soffre per difetto di
classi dirigenti, non perché non sa comunicare, ma perché non ha niente
da dire, perché è stata svelta a buttar via le idee del passato e
altrettanto svelta ad andare a prendere le idee del presente dal
vocabolario dell’avversario di classe. E la parte di società che si
riconosceva in essa non l’ha più riconosciuta. Farsi riconoscere
autorità dalla propria parte è la condizione per meritare il rispetto
della parte opposta, conquistando così pezzi del suo consenso. Una nuova
generazione vuole cimentarsi in questo esercizio di alta politica?
Ottimo. Vigileremo.
P.S. Accade qualcosa di simile, sempre, quando
non si tiene in pugno la prospettiva, si lasciano andare le cose, si
segue la corrente, quando si crede, e si fa credere, che il buono viene
dal senso comune e il cattivo dal buon senso.
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