domenica 29 settembre 2013
"Sono stato sessualmente molto attivo, ma senza nessun coinvolgimento": Luca Canali rivela ad Antonio Gnoli il segreto di Pulcinella del lavoro intellettuale
Nato a Roma nel 1925, ha partecipato alla Resistenza con il Partito d’Azione
Poeta, docente universitario saggista e scrittore, è uno dei più grandi latinisti italiani
Il grande latinista racconta memorie politica, incontri e ossessioni private
“La storia insegna che il mondo è un incubo senza risveglio”
“I miei stessi idoli erano canaglie. Cesare? un criminale di guerra”
“Dagli studi alla famiglia, ho barato in tutto e la mia figlia segreta non sa che sono suo padre”
intervista di Antonio Gnoli Repubblica 29.9.13
Ad
ascoltare Luca Canali, illustre latinista e scrittore, mentre narra la
sua vita, sembra di piombare nel Grande Romanzo dell’Infelicità: «Non
amo la solitudine, non l’ho scelta. Essa mi pesa enormemente. Eppure è
qui, accanto a me, esigente nel rivendicare ogni volta il suo diritto.
Faccio fatica a capire il senso di qualcosa che negli anni è diventata
una prigione». Canali ha quasi 90 anni. Vado a trovarlo nel piccolo e
modesto appartamento romano, pensando all’uomo la cui vita è stata
illuminata dai lampi dell’antichità e da una remota militanza politica.
Strane mescolanze in un’esistenza segnata da malattie dell’anima e da
insidiosi pensieri: «Non ho mai voluto essere il migliore, e se qualche
volta ciò è accaduto, la mia mente mi obbligava a pensare di essere
nessuno». Epica di autolesionista, penso. Ma se scavo nel suo volto,
ancora bello e grifagno, colgo una beffarda infelicità, e vi leggo il
benvenuto ai piccoli inferni quotidiani.
Vive sempre così appartato?
«Ahimè,
non sono quel che si dice un tipo mondano. Però non deve pensare che
sia sempre stato così. Soprattutto da bambino avevo parecchi amichetti.
Mia madre mi portava al Pincio, oppure sciamavo sotto casa. La mia è
stata un’educazione stradaiola».
Chi erano i suoi?
«Mio padre
faceva il carbonaio, mia madre era una maestrina. Lei si innamorò di
quest’uomo strano, un donnaiolo impenitente. Soffrì di gelosia, come io
avrei sofferto per tutto il resto. Abitavamo a Roma in via Gesù e Maria,
una traversa di via del Babuino. Proprio davanti casa c’era un
postribolo. Un altro era in via Laurina, uno in via della Fontanella, e
uno in via Panisperna».
Anche quella fu un’educazione?
«Li ho
frequentati, a volte ci andavo senza una necessità precisa. Per fiutare
l’ambiente, perdendomi in certe sensazioni. Erano luoghi di
interclassismo patetico e di superflue perversioni. Frequentato da
vecchi renitenti alla leva del tempo che passa. Di non rassegnati. Ma
anche luoghi creativi. Un grande latinista, Antonio La Penna, mi diceva:
Luca, a me le migliori idee sono venute al casino».
Anche lei è un grande latinista.
«La ringrazio per il grande. La mia carriera di studioso fu frammentaria,incerta, pericolosa».
Andiamo con ordine. Dove ha studiato?
«Mia
madre, ambiziosetta, mi mandò prima dalle suore inglesi e poi al
Visconti: otto anni tra ginnasio e liceo. Frequentato da gente chic. Ero
il solo a evidenziare un certo complesso di inferiorità. Vestivo male,
portavo i maglioni dismessi da mio padre. Devo dire che i compagni di
classe non avevano atteggiamenti di superiorità, erano i professori a
discriminarmi un po’».
E lei subiva?
«Cercavo il riscatto negli
studi. Mi mostrai bravo in latino e greco. Un professore di storia
dell’arte, che sarebbe morto combattendo contro i tedeschi sotto le mura
di San Paolo, ci aprì la testa leggendoci I fiori del male di
Baudelaire eLe elegie duinesidi Rilke. Cominciai così ad amare la
letteratura. A 16 anni scrissi le mie prime poesie che Ungaretti, con
mia sorpresa, pubblicò sullaFiera letteraria.A giugno, quando finiva la
scuola, con i compagni andavamo a fare il bagno al Tevere. Non dal
“Ciriola”, dove spesso c’era Pasolini, ma da Ercole Tugli. Ci capitava
di incontrare spesso Sandro Penna, del quale divenni amico».
Che ricordo ne ha?
«Un
conversatore lamentoso ma non privo di fascino. Era come se la vita
ogni volta gli morisse sulle labbra. Ricordo il suo incedere lento.
Veniva giù da Ponte Vittorio, non lontano dal vicolo dove abitava, a
braccetto della madre. Un gay d’altri tempi. Con i miei amici di scuola
cominciammo a occuparci di politica. Scoprii l’esistenza del Partito
Comunista. Si avvicinava la fine della guerra. Riparai in montagna per
sfuggire alla ferma milita-re e infine mi iscrissi al partito.
Quanto è rimasto nel Pci?
«Sono
stato nel partito dal 1945 al 1958. Ho diretto cinque sezioni romane,
l’ultima in borgata. Il segretario della federazione, Otello Nannuzzi
che aveva preso il posto di Aldo Natoli, mi disse: Luca, hai diretto
solo sezioni borghesi, ti manca la classe operaia. E andai al
Prenestino, dove rimasi un paio d’anni. Non ho mai pensato di fare una
vera carriera politica, per mancanza di vocazione al compromesso. Poi
nel 1958 – c’erano già stati i fatti di Ungheria – fui radiato dal
partito. Buttarono fuori anche Tommaso Chiaretti, Mario Socrate, Dario
Puccini e tra i pittori: Vespignani e Attardi. Venimmo accusati di
revisionismo senza principi. Io nel frattempo mi ero iscritto
all’università. E alla fine mi laureai con una tesi su Lucrezio».
Con chi?
«Con
il terribile Ettore Paratore. Mi diede 110. Commentò, in seguito, che
non poteva dare la lode a un comunista. Divenni suo assistente».
Era un uomo difficile. Un conservatore a oltranza, come poteva conviverci?
«Mi
stimava. Era famoso perché bocciava a ripetizione. Ma era un genio,
coltissimo. Aveva solo un debole: scriveva romanzi orrendi. Tanto che i
figli, credo, sono stati costretti a farli sparire dalla circolazione.
Nel frattempo mi riavvicinai al partito. Mario Alicata, che si occupava
tra le altre cose anche de
dopo avermi cacciato, mi riprese come
redattore. Ma quando morì, il suo posto di responsabile della cultura fu
assunto da Rossana Rossanda».
Andai da lei e le dissi: scusa, ma lì
io avevo il solo stipendiuccio, e per campare non ho altre entrate. E
lei: hai l’università. E io: ma non prendo una lira. E lei: non ti
preoccupare, vedrai che farai strada. E io, la guardai rassegnato».
«Mica
fu semplice. Comunque divenni professore di ruolo e fui chiamato a
insegnare a Pisa. Ho insegnato per 15 anni. Mi piaceva. Furono anni
splendidi e durissimi. Ma alla fine non resistetti. E lasciai
l’università».
«Ero doppiamente malato. Fui investito da una profonda
depressione, che quando è seria ti viene voglia di ammazzarti; e
l’altra malattia, fastidiosissima e fortemente condizionante, fu una
psiconevrosi fobico ossessiva».
Come si manifestavano le sue ossessioni e fobie?
«Nel
fatto, ad esempio, che le cose dovevano essere disposte in un certo
modo. Ero capace di tornare improvvisamente a casa se solo fossi stato
sfiorato dal dubbio che un certo oggetto era in un posto diverso da dove
io lo immaginavo. O se avevo la sensazione di essermi dimenticato
qualcosa che volevo ricordare, potevo restarne ossessionato per giorni.
Perfino i nomi delle persone costituivano un problema. Se dimenticavo un
nome, mi accadeva di passare nottate su un elenco telefonico per vedere
se casualmente riaffiorasse. Tutto poteva trasformarsi in una
ossessione».
Depressione e fobie però le ha superate.
«In forma blanda ancora ci sono».
Come le ha curate?
«Per
anni, in un paesaggio di flebo e di lenzuola, mi sono imbottito di
farmaci. E sono stato diverse volte in cliniche psichiatriche tentando
di curarmi. Dalla depressione si può uscire; con le psiconevrosi è più
difficile».
Si ricorre alla psicoanalisi.
«Ho fatto centinaia di
sedute analitiche. Inutili. Da un punto di vista psicofisico il periodo
migliore furono gli anni dell’impegno nel partito. Ero guarito. Forse
perché ci credevo davvero.Forse perché io, che non ho mai avuto una
fede, lì, avevo una fede. Poi, quando seppi dei crimini staliniani mi
cascò il mondo addosso».
Perché dice che quelle malattie ancora non l’hanno abbandonata del tutto?
«Perché
ancora oggi mi sdraio sul letto, chiudo gli occhi, e desidero non
risvegliarmi più. E il risveglio è orrendo. Ancora oggi ho l’ossessione
che non mi fa uscire da Roma. Sono decenni che non faccio una
villeggiatura».
Si è dato una spiegazione?
«Non c’è spiegazione».
Non c’entra forse quel mondo antico che ha studiato?
«Non lo so. Francamente adoro la storia romana».
Cosa le ha insegnato?
«Che
la storia è realismo e brutalità. Come diceva Stephen Dedalus: la
storia è un incubo dal quale cerco inutilmente di svegliarmi. È un
continuo scorrere di sangue, un moltiplicarsi di guerre e di morti. I
miei stessi idoli erano delle canaglie. Cesare? Un criminale di guerra.
Augusto? Grande politico, pessimo combattente le cui imprese descritte
sono per metà false».
Lei ha anche scritto un Satyricon e collaborato con Fellini.
«Fu
un’esperienza straordinaria vederlo dirigere il film. Il mio rapporto
con lui fu propiziato da Antonello Trombadori. Fellini gli chiese se
conosceva un latinista – senza il basco in testa, precisò ironico – che
lo potesse aiutare non tanto a dirgli cosa fare, quanto cosa non fare.
Aveva delle battute meravigliose. E diventammo amici. Per come si poteva
intendere l’amicizia con lui. Qualcosa di volatile».
Lei ha scritto tantissimo.
«Sì, per anni ha fatto parte della mia terapia».
Citava Joyce, le piace?
«Lo
preferisco a tutti gli altri scrittori del Novecento. Ulisse è il
romanzo del buon umore. Mi attrae proprio per la sua natura così lontana
dalla mia. E poi gronda sensualità: bassa, terrestre, vitale e
avvolgente come una cappa di umidità».
Torniamo al sesso.
«Cosa vuole sapere?».
Dica lei.
«Con
le donne sono stato spesso arrembante. E ho avuto molta fortuna. Ero un
intellettuale colto e bello. Piacevo. Sono stato sessualmente molto
attivo, ma senza nessun coinvolgimento. Ed era chiaramente il sintomo di
una nevrosi».
Ci spieghi.
«Diciamo pure un problema sessuale.
Quando mi innamoravo di una donna e subentravano gli affetti, non
riuscivo più a fare l’amore fisico. Mi sembrava di commettere un
incesto, perché quella donna diventava per me una sorella. Può
immaginare cosa sia stato il mio matrimonio».
È sposato?
«Mia
moglie è morta da parecchi anni. Fu un errore sposarmi. Non ero adatto.
Ha molto sofferto. Mi sono occupato di quell’opera colossale che fu
l’impero romano e la sua caduta e non vedevo che la decadenza era in
casa».
Ha figli?
«Una figlia, ormai grande e...».
E...
«Una figlia segreta, con la quale parlai una sola volta, nascondendole il fatto che ero il padre».
Lo dice con un senso di rimpianto.
«Per
molto tempo questa storia mi ha fatto soffrire. La madre – una donna
importante, con due matrimoni alle spalle – mi impedì di vederla. Poi i
medici mi consigliarono che era meglio così e mi rassegnai».
In fondo, non è stato un uomo fortunato.
«Qualche
fortuna grande, e molte sfortune. Le malattie sono state un grosso
impedimento. Ogni tanto ripenso ai continui litigi tra i miei genitori.
Mia madre disprezzava mio padre e lui se ne fregava. Credo di non avere
mai avuto una vera famiglia».
L’ha condizionata?
«Non ne sono proprio sicuro. Forse ho perfino vissuto più liberamentela mia vita».
Come si vede nell’imminenza dei 90 anni?
«Sono
contento di me ma non della mia vita. La mia mente continua a
funzionare anche quando non vorrebbe. Anche quando vorrei che tutto
tacesse. A volte mi penso morto e immagino il mio corpo che si
decompone. E l’angoscia riemerge. No, non sono stato decisamente
fortunato. Nel gioco non ho avuto belle carte».
Lei ha scritto, ora ripubblicato, quello che in molti ritengono il suo libro più bello:Autobiografia di un baro. Perché “baro”?
«Fa
parte della psicologia insana. Spesso ho la sensazione di barare.
Perché i miei strumenti intellettuali, le mie parole coprono
un’infelicità, un dolore, un fallimento. Ho barato in politica perché
dopotutto non me ne fregava più di tanto; ho barato in famiglia, come
può fare un marito inadatto; ho barato all’università non riuscendo a
dare ciò che avrei potuto, o nascondendo i miei limiti. Solo come
infermo mi pare di avere agito senza trucchi».
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento