L'Avanguardia russa, la Siberia e l'Oriente. Kandinsky, Malevič, Filonov, Gončarova
Trasgressivi e conformisti
Alberto Arbasino Corriere Della Sera
L'avanguardia russa tra Buddha e Shiva
Maurizio Cecchetti Avvenire 12 novembre 2013
L'educazione siberiana
Riti sciamanici e spiritualità indiana Così l'avanguardia guardava a Oriente
A Palazzo Strozzi le radici del modernismo russo. Da Kandinsky a Malevic: 179 tra dipinti e oggetti
Riti sciamanici e spiritualità indiana Così l'avanguardia guardava a Oriente
A Palazzo Strozzi le radici del modernismo russo. Da Kandinsky a Malevic: 179 tra dipinti e oggetti
di Marco Gasperetti Corriere 29.9.13
I due universi dell'Avanguardia si mostrano e si ibridano, apparentemente incongrui, negli sguardi bifronti verso oriente ed occidente. Manifestandosi nel simbolismo dell'aquila bicipite, sigillo della Russia imperiale, o negli occhi bianchi e inquieti dei lupi che nella notte di ghiaccio siberiana (come li ha perpetuati nel 1912 Aleksej Stepanov), fissano orizzonti opposti. E ancora nel Cerchio nero di Kazimir Malevic, un'improbabile porta d'accesso e di fuga dal mondo (bianco) dello sfondo verso altre dimensioni artistiche e filosofiche e nella Macchia nera, capolavoro di Wassily Kandinsky. Oppure nell'unione dissacrante dei volti umani e animali nella Scena della vita dei selvaggi di Pavel Filonov (i buoi hanno sembianze umane, gli uomini bovine) che sembrano cibarsi nel folclore della tradizione contadina e allo stesso tempo trasfigurarsi nello sciamanesimo, che come un vento freddo siberiano, ha spazzato le certezze occidentali della Grande Madre Russia. Un caleidoscopio di opposti disegnato in un capitolo di storia anch'esso incongruo: la vigilia della Rivoluzione d'Ottobre, che avrebbe imposto altri canoni, materialisti e realisti, e in parte cancellato e represso questi fermenti straordinari.
I due universi dell'Avanguardia si mostrano e si ibridano, apparentemente incongrui, negli sguardi bifronti verso oriente ed occidente. Manifestandosi nel simbolismo dell'aquila bicipite, sigillo della Russia imperiale, o negli occhi bianchi e inquieti dei lupi che nella notte di ghiaccio siberiana (come li ha perpetuati nel 1912 Aleksej Stepanov), fissano orizzonti opposti. E ancora nel Cerchio nero di Kazimir Malevic, un'improbabile porta d'accesso e di fuga dal mondo (bianco) dello sfondo verso altre dimensioni artistiche e filosofiche e nella Macchia nera, capolavoro di Wassily Kandinsky. Oppure nell'unione dissacrante dei volti umani e animali nella Scena della vita dei selvaggi di Pavel Filonov (i buoi hanno sembianze umane, gli uomini bovine) che sembrano cibarsi nel folclore della tradizione contadina e allo stesso tempo trasfigurarsi nello sciamanesimo, che come un vento freddo siberiano, ha spazzato le certezze occidentali della Grande Madre Russia. Un caleidoscopio di opposti disegnato in un capitolo di storia anch'esso incongruo: la vigilia della Rivoluzione d'Ottobre, che avrebbe imposto altri canoni, materialisti e realisti, e in parte cancellato e represso questi fermenti straordinari.
La cosa più sorprendente, nella mostra
sontuosa L'Avanguardia Russa La Siberia e l'Oriente (Palazzo Strozzi
sino al 19 gennaio) è che queste suggestioni, questo clima inquieto di
trasformazione alchemica, è avvertibile come una vibrazione, passo dopo
passo, dipinto dopo dipinto, scultura dopo scultura. E non è soltanto
Wassily Kandinsky a monopolizzare «inevitabilmente» l'esposizione e
neppure le opere straordinarie (molte delle quali esposte per la prima
volta in occidente) di Benois, Bakst, Larionov, Malevic, Filonov e
Goncarova e di altri 42 artisti, ma questa atmosfera «altra» ricreata
alla perfezione dai curatori John Bowlt e Nicoletta Misler e
dall'allestimento dell'architetto Luigi Cupellini.
Quella di Palazzo
Strozzi è un'esperienza unica tra le emanazioni di 130 opere (79
dipinti, acquerelli e disegni; 15 sculture e 36 oggetti
etnoantropologici e incisioni popolari) e le «scenografie» delle undici
sezioni (mura bianco ghiaccio, altre dai colori che evocano le antiche
pareti di legno, foto delle steppe, strutture lignee ottagonali) che
accende sensibilità individuali e costruzioniste come in un cammino
storico-artistico verso l'ignoto. Anzi, gli ignoti, generati dall'unione
tra le culture occidentali e orientali e il sommovimento comunista
prossimo a deflagrare. Fuoco e ghiaccio, spiritualità e materialismo,
ignoto e realismo.
Ci si potrebbe perdere nella mostra fiorentina,
come nella tundra e nella steppa, se non ci fossero i punti di
riferimento delle undici sezioni. Dedicate alle fonti esotiche dalla
Grecia al Siam, all'incantesimo dell'Oriente, al Giappone, alla Cina
come impero dei segni. E ancora agli influssi delle stampe orientali,
alle immagine taumaturgiche, agli idoli lunatici e agli spiriti silvani.
E a quel panteismo artistico che pervade tutta la rassegna.
C'è
anche un filo d'Arianna. Che si dipana partendo dal Grande Viaggio,
quello dello zarevic Nicola II ventiduenne e futuro zar di tutte le
Russie, il 26 ottobre 1890, s'imbarca a Trieste per l'Oriente. Un
viaggio iniziatico tra Cina e Giappone, Ceylon e Giava, Siam e India nel
quale raccoglie migliaia di regali preziosi (oggi conservati
all'Ermitage e al museo antropologico di San Pietroburgo) e che nel 1893
diventano protagonisti di una mostra a San Pietroburgo. I doni ricevuti
dal principe ereditario svelano nuovi interessi, aprono nuovi orizzonti
nell'arte.
«Che in parte sono già presenti nella cultura russa —
spiega Nicoletta Misler — come l'animismo, lo spiritualismo quella sorta
di panteismo artistico. La grande Russia non è formata da colonie,
nonostante le distanze e le differenze, ma da un impero che ne è la sua
stessa essenza. Queste culture conviveranno anche dopo la Rivoluzione
d'Ottobre e neppure la repressione stalinista riuscirà ad estirparle».
La
mostra è promossa e organizzata da Fondazione Palazzo Strozzi, Mibac,
sovrintendenza al polo museale fiorentino, museo statale di San
Pietroburgo, galleria Tretyakov di Mosca e con la partecipazione di
Comune, Provincia e Camera di Commercio di Firenze, Regione Toscana e
con il sostegno della Banca CR di Firenze.
Fiabe, demoni e giganti: la bellezza (letteraria) del doppio
di Roberta Scorranese Corriere 29.9.13
«Gratta gratta, sotto ogni russo troverai un tartaro», recita un proverbio moscovita. Più che di affinità elettive, il sapere popolare evoca un Paese vastissimo, multiforme, dove le contrapposizioni, come i confini, si dissolvono nella nebbia. D'altra parte, fino a due secoli fa, la Russia era semplicemente «l'Oriente» per molti europei. Un Oriente vago, dagli echi mongoli o siberiani, alimentati da una letteratura che elevò a poesia certe fiabe della steppa, tramandate oralmente durante i lunghissimi pomeriggi bui nelle dimore aristocratiche.
Ma un tartaro lo si trova anche grattando sotto i demoni di Dostoevskij, sotto i broccati delle dinastie narrate da Tolstòj, persino dietro la resistenza passiva messa in piedi da Oblomov, l'accidioso personaggio di Goncarov. Perché il dividersi tra un'anima «orientale» e una «occidentale», non è stata solo una prerogativa delle Avanguardie in mostra a Palazzo Strozzi: l'oscillazione tra il «primitivismo» delle tradizioni dei confini e l'educazione alla modernità delle corti dell'ovest (come quella francese), ha attraversato tutta la letteratura russa dell'Ottocento, ora in silenzio ora con fragore.
La stessa rivoluzione narrativa di Puškin è una mescolanza di folclore e nitidezza realistica: nel poema Ruslan e Ljudmila (1820) ci sono «maghi dal volto sereno», cavalieri, lance e teste di gigante che spuntano nella steppa. Ma non si pensi alla tradizione cavalleresca occidentale: l'epos russo è altra cosa. È difesa dell'innocenza originaria, è barriera contro il moderno. Fino al cinismo.
Ed è forse questo l'humus da cui nasce l'altra grande figura letteraria russa: l'antieroe di Lermontov. O di Dostoevskij, l'uomo dal rigoroso senso della giustizia interiore che l'ambiente cerca di guastare, il difensore di una purezza primitiva destinata a tramutarsi in cupo pessimismo. Ma in questo richiamo ad un'origine (o presunta tale), non c'è nostalgia.
Anzi. «Lermontov è un uomo che vive tutto nel presente (...) e il presente vive in ogni goccia del suo sangue», osservava il critico Vissarion Belinskij. Così come la ferita morale di Raskolnikov (in Delitto e castigo di Dostoevskij) è forte, fa male ancora oggi e ancora oggi accende la discussione.
Nel 1836, poi, la polemica tra «occidentalisti» e «slavofili» esplode con la pubblicazione della prima versione russa delle Lettres sur la philosophie de l'histoire in cui il filosofo Piotr Caadaev afferma senza mezzi termini: «Noi siamo, per così dire, stranieri a noi stessi (...) È la naturale conseguenza di una cultura tutta importata e d'imitazione. Non c'è da noi uno sviluppo interiore, un progresso naturale». Ne nasce un putiferio, un dibattito che resterà vivo fino al secolo scorso.
Eppure, quel che oggi il lettore innamorato coglie, è semplice e nitido: questa doppia anima russa è stata la linfa stessa della sua bellezza letteraria. Alto e basso. Il linguaggio del Viaggiatore incantato di Nikolaj Leskov (la cui forza narrativa, tra dialetti e etimologie popolari, ha ispirato un magnifico saggio di Walter Benjamin); il mondo contadino di Nikolaj Nekrasov e il suo «infinito amore per il popolo», come ebbe a dire Dostoevskij.
Accanto a questo gusto pittorico del racconto, c'è l'eco delle religioni orientali nelle opere di Gurdjieff, l'attrazione per la cultura slava da parte del «poeta viandante» Velimir Chlebnikov (futurista, uomo che visse in un ossessivo nomadismo). In quest'altalena tra culture si ritrova un doppio percorso, quasi una lacerazione irrorata di fantasia, favola, follia. In un modo tutto particolare di sentire la realtà, prima ancora che di vederla. Come scrive Dostoevskij in una lettera a Nikolaj Ljubimov: «Nei Demoni c'è una quantità di personaggi che mi sono stati contestati come meramente fantastici. Ma in seguito, che lei lo creda o no, sono stati tutti confermati dalla realtà, il che significa che erano stati esattamente intuiti». In quell'espressione, «esattamente intuiti» c'è un mondo intero.
I giovani leader antizaristi che conquistarono il balletto
Diaghilev li volle con sé, col teatro girarono il mondodi Francesca Bonazzoli Corriere 29.9.13
«L'immagine esteriore della Goncarova. La prima cosa: coraggio virile. Della superiora di un monastero. Di una giovane superiora. La franchezza dei lineamenti e dello sguardo, la serietà - oh non severità - di tutta la fisionomia. Una persona che prende tutto sul serio. Quasi senza un sorriso, ma quando il sorriso c'è - incantevole». Così la poetessa Marina Cvetaeva descriveva Natalija Goncarova, la giovane aspirante artista che nel 1900 incontrava Michail Larionov «un immenso e bruciante figlio del popoloi mpulsivo, generoso e imprevidente, un lottatore nato, d'incurabile romanticismo», secondo le parole di un altro poeta, Guillaume Apollinaire.
La coppia di punta dell'avanguardia russa, dunque, non poteva essere caratterialmente più diversa. Eppure Goncarova e Larionov, dai banchi della Scuola di pittura, scultura e architettura di Mosca non si separarono più. Lei, pronipote della moglie di Puskin, era nata nel villaggio di Nagaevo, vicino a Tula, nella Russia centrale; mentre nello stesso anno, il 1881, lui nasceva a Tiraspol', in Moldavia, allora Bessarabia. Appartenevano insomma anche col carattere — l'uno riservato, l'altro esuberante — a due Russie diverse, quella del Nord e del Sud. Dal 1905 al 1915, per dieci anni, sono la coppia leader dei pittori di sinistra che contestava la società zarista e il perbenismo borghese. Lui si era ritagliato un ruolo più teorico, con la stesura di manifesti e dichiarazioni artistiche; lei si concentrava sulla pittura tanto che, quando nel 1913 allestì a Mosca la prima personale, espose oltre settecento opere. Sergej Diaghilev ne rimase impressionato e scrisse: «Questa donna trascina tutta Mosca e tutta San Pietroburgo dietro di sé: non si imita solo la sua opera, ma la sua personalità: si è dipinta dei fiori sul corpo. E immediatamente la nobiltà e la bohème l'hanno seguita con cavalli, case, elefanti, disegnati e dipinti sulle gote, sulla fronte e sul collo, oppure con il viso pitturato metà di blu e metà di ocra».
Proprio l'incontro con Diaghilev rappresenterà per entrambi una svolta, nell'arte come nella vita. L'impresario dei Balletti Russi, infatti, incaricò Natalija di disegnare costumi e scenografie per «Le coq d'or» di Rimskij-Korsakov. La Goncarova si ispirò all'amato repertorio primitivista con richiami alle icone, ai lubki (le stampe popolari), ai giocattoli, ai pizzi e fu un grande successo. Da quel momento anche Larionov venne coinvolto nell'attività di Diaghilev e il suo impegno fu tale che abbandonò la pittura per mettersi a progettare anche le coreografie. Il teatro portò la coppia a viaggiare a Parigi, in Svizzera, Spagna e dal 1919 a trasferirsi definitivamente a Parigi.
È così che l'intonazione folkloristica e primitivista del periodo moscovita si andò attenuando. Se nel 1913 nel manifesto del Raggismo Larionov proclamava «Viva il bellissimo Oriente! Viva il carattere nazionale! Siamo contrari all'Occidente che ha banalizzato le forme nostre e quelle orientali e che livella tutto»; se la Goncarova, in una serata del 1911 al Museo politecnico sosteneva davanti ai colleghi pittori che «Il cubismo è una buona cosa, ma non è poi così nuovo; le "streghe" di pietra degli sciti, le bambole di legno dipinte vedute nelle fiere, sono anch'esse delle opere cubiste», dopo il trasferimento a Parigi i due fanno i conti con il fatto che anche le altre avanguardie europee avevano il loro primitivismo cui guardare, a cominciare dall'arte africana che innescò il cubismo di Picasso. Sia Larionov che Goncarova si confrontarono con tali pitture e il loro radicalismo si trasformò in mediazione fra cultura russa e cultura occidentale.
Ben diversa dal radicalismo dell'approccio teorico del sacerdote ortodosso Pavel Florenskij, studioso di matematica, fisica e arte. Per lui il valore delle antiche icone è tutt0altro che semplicemente etnico o decorativo: «Fra tutte le dimostrazioni filosofiche dell'esistenza di Dio», scrive Florenskij a proposito della celebre icona medievale di Rublëv «suona come la più pervasiva quella di cui non si fa menzione nei manuali: si può formulare con il sillogismo: Esiste la Trinità di Rublëv, perciò Dio è».
Una posizione teoretica radicale che manderà piuttosto i suoi riverberi sul Suprematismo, magico e spirituale, di Malevic.
Ma il Giappone reagì alle notti disinvolte del rampollo Romanov
di Serena Vitale Corriere 29.9.13
Il viaggio in terre orientali che il futuro zar Nicola II intraprese alla fine dell'Ottocento rientra evidentemente nella tradizione del «Grand Tour», ma ebbe anche un forte significato politico, culturale e, non da ultimo, simbolico. Questo lungo itinerario attraverso l'Eurasia non nasceva da smanie espansionistiche della Russia, ma era piuttosto un modo per riaffermare la sua potenza sui mari. Il ventiduenne erede al trono si imbarcò su una fregata dal nome evocativo, «Pamiat' Azova», «Ricordo di Azov»: memoria del viaggio nel Sud compiuto da Pietro il Grande che aveva compreso la necessità di una flotta degna di una potenza imperiale per assicurare alla Russia l'agognato sbocco sul mare, e insieme memoria del famoso viaggio di Caterina in Crimea (la zarina e il suo seguito ovviamente si fermarono anche ad Azov, definitivamente sottratta al dominio turco) che nel 1787 aveva sancito la potenza militare russa nei confronti dell'Impero Ottomano.
Nel caso dello zarevic Nikolaj c'era un altro aspetto non meno importante: la presenza del giovane rampollo di casa Romanov aveva il compito di confortare le popolazioni di domini lontani, gli abitanti di un impero sterminato, dai confini difficili da tracciare. Alcune regioni degli Urali, oltretutto, poco tempo prima avevano dovuto affrontare una terribile carestia.
Infine, il viaggio del giovane era dovuto anche a motivi squisitamente privati: il ventiduenne erede al trono (che peraltro aveva un relazione con la ballerina classica Matilda Kshesinskaja) era innamorato di Alice, principessa d'Assia e del Reno, ed era deciso a sposarla. Lo zar Alessandro III si opponeva a un matrimonio che non giudicava opportuno dal punto vista della strategia diplomatico-politica: i nove mesi di assenza avrebbero aiutato il figlio, credeva, a dimenticare l'una e l'altra donna. Invano: dovette poi benedirne il matrimonio con la donna che divenne la zarina Aleksandra Fjodorovna.
In Giappone, mentre in un corteo di risciò attraversava Otsu, lo zarevic subì un attentato da parte del poliziotto Tsuda Sanzo; l'uomo lo colpì al capo con una sciabola, anche se non mortalmente. Sono ancora controversi i motivi del gesto — probabilmente si trattava di fanatismo religioso. I giapponesi, come è noto, sono molto attenti ai rituali (sociali e religiosi) e, a quanto pare, il principe aveva avuto una condotta non propriamente morigerata (a Nagasaki, in privato, aveva frequentato un locale malfamato, si era fatto fare un tatuaggio), né tutti i dignitari russi che lo accompagnavano avevano mostrato il dovuto rispetto nei luoghi di culto. All'attentato, che avrebbe potuto avere gravissime conseguenze, fino alla guerra, nei rapporti fra i due Imperi, seguirono le scuse del Giappone, e lo stesso imperatore Meiji andò al capezzale del giovane ferito.
(Testo raccolto da Roberta Scorranese)
Serena Vitale è scrittrice e slavista. Il suo ultimo libro è «A Mosca, a Mosca!» (Mondadori)
Pittori o sciamani? Quando i russi si innamorarono dell'Oriente
- il Giornale Mar, 29/10/2013
Fuoco e ghiaccio
A Firenze la mostra sull’Avanguardia Russa che guardava a Oriente
A Palazzo Strozzi le opere di Malevic, Kandinskij, Bakst, Filonov e Gontcharova, ma anche ottimi artisti minori Un fil rouge che si srotola fino al Giappone. Peccato per l’allestimento fin troppo didascalico
di Marco Di Capua l’Unità 2.11.13
MATCH GEOPOLITICO E GUERRA CULTURALE SEMIFREDDA TRA DUE GRANDI MOSTRE ATTUALMENTE IN ITALIA. PERCHÉ, mentre a Palazzo Reale di Milano dominano Gli Irascibili, e cioè Jackson Pollock & Company, e dunque in filigrana leggi l’America liberal che dai Kennedy arriva a Obama, a Palazzo Strozzi di Firenze c’è Putin. Nel senso che questa interessantissima esposizione, L’Avanguardia russa. La Siberia e l’Oriente (fino al 19 gennaio) respira forte, a pieni polmoni, il vento di recupero nazionale e imperiale che oggi soffia da Mosca e in tutte le direzioni e le terre e le piccole patrie dell’ex Urss.
Ne parliamo tra un attimo, però prima, già che ci siamo andati e abbiamo toccato con mano, diciamo ciò che nella mostra è proprio brutto. Mio Dio, l’allestimento. Un disastro.
In totale e quasi simpatica controtendenza con il trend attuale tutto less is more perfino ove si tratti di mettere i cartellini coi nomi degli autori e le date, ecco un massiccio bombardamento a tappeto di intrusioni storico-didascalico-pedagogiche, viste come trionfo, intaso e accumulo ossessivo del «tranquilli, adesso vi spieghiamo tutto noi!», attraverso tazebao e manifesti esplicativi e perfino disquisizioni sporgenti ad altezza ginocchio (attenti alla rotula!), con invasive domande tipo: «che rapporti hai con il cyber-spazio?». E ciò accanto o sotto, magari, a un incolpevole Malevic.
IL DIRETTORE RISPONDE
Giro il mio disagio al Direttore di Palazzo Strozzi, James Bradburne, e lui cortesemente ma fermamente obietta così: «Da noi, pannelli e didascalie per famiglie accompagnano ogni allestimento, e in questo caso in cui il tema è complesso un simile accompagnamento era ancora più necessario. Non mi sembra che all’estero si tenda a ridurre l’apparato didattico, era una tendenza ormai superata e risalente agli anni Ottanta. Palazzo Strozzi si basa sulla ricerca, e la ricerca ha dimostrato che gli oggetti “parlano da sé” solo a coloro che sono già informati, una piccola parte del pubblico. Una presentazione “non mediata” fa parte di un approccio non più giustificabile né dalla teoria né dalla pratica. Desideriamo far partecipare il visitatore. Di qui la presenza di domande nel percorso per famiglie e bambini. La dimensione dei testi è dovuta a una precisa volontà di leggibilità».
Ok, ma non ci sono già tutte quelle robe tecnologiche, nelle salette apposite? Non bastano quelle per i piccini, per altro sveltissimi sui touch screen? Bisogna asfissiare e alla fine tramortire così un’opera d’arte? È vero che da una mostra dobbiamo ricavare significati, un qualche senso, ma ciò spetta allo sguardo e a menti concentrate. Accidenti, soprattutto quando contempliamo opere che nacquero invocando una qualche purezza. Il silenzio. Dico questo davanti a una parete, proprio all’inizio del percorso, dove il Cerchio nero di Malevic è confinato sulla sinistra di un pannello che a destra e al centro esibisce la megaspiegazione del quadro medesimo. Stupefacente.
E veniamo al bello. La mostra, curata da John Bowlt, Nicoletta Mister e Evgenia Petrova (catalogo Skira), presenta 130 pezzi, e cioè 79 dipinti, 15 sculture e 36 oggetti di tipo etnoantropologico, per cui qui non solo quadri ma il senso profondo di una fascinazione e di un richiamo, quella per i misteriosi e leggendari Orienti, covati nella pancia turbolenta dell’Avanguardia russa tra Otto e Novecento.
Ci sono i bei nomi: oltre a Malevic, Kandinskij, la stupenda, barbarica Gontcharova, Larionov, Léon Bakst, Filonov, Burljuk. Ma ecco anche, tra i molti, pittori meno noti come lo stupendo, solido fauve Ilja Maskov, Petr Kontchalovskij, o come quel povero Gurkin, che amava dipingere sciamani e laghi ghiacciati e che nel 1937 fu fucilato con l’accusa di spionaggio a favore del Giappone. Infatti qui, ecco un sacco di stampe giapponesi, perché l’occhio laggiù cadeva di preferenza, come si sa. Meno si sapeva dei culti sciamanici delle popolazioni siberiane che sedussero fior di intellettuali. In mostra tamburi rituali e statue paleolitiche e idoli, simboli inquieti degli spiriti dei boschi e del deserti, vezzeggiati e stilisticamente copiati tali e quali nei lavori dei giovani, ferventi primitivisti di allora.
Non sapevo affatto, né me lo immaginavo, che esattamente un secolo fa, nel 1913, fu innalzato a San Pietroburgo il primo tempio buddista, sotto la doppia bandiera russa e tibetana: Nicola II e molti della sua corte erano interessatissimi al Buddismo, praticavano la meditazione, collezionavano oggetti venuti dal Tibet. Dunque, non solo l’orrido Rasputin attorno a quello stravagante, tragico trono?
Ora: un martellamento ritmico di danza pagana echeggia, notoriamente, nella Sagra della Primavera di Stravinsky, ma facendo il viaggio mentale ispirato da questa mostra ti ricordi un’altra cosa. Anzi due, una buona e una cattivissima. Quella buona è Derzu Usala, il piccolo uomo delle grandi pianure. È il film di Akiro Kurosawa, tratto dalle memorie di viaggio in Siberia di Arsenev, del 1923. L’aria e le date e le facce sono quelle lì. Lo spirito di Derzu si aggira per queste sale. Quella cattiva riguarda la storia di Roman Von Urgen-Sternberg, Il Barone sanguinario nel racconto di Vladimir Pozner pubblicato da Adelphi. Accidenti: quando dici il richiamo dell’Oriente, del Buddismo... E poi lo impasti con la reazione, con il viscerale, disperato disgusto per ciò che è «moderno». Urgen, a capo di un ferocissimo esercito paranazista e razzista di mongoli, cosacchi e tibetani si credette Gengis Khan, terrorizzò intere popolazioni a est della Russia, ammazzò migliaia di comunisti e di ebrei, e finì, con gran sollievo generale, fucilato su ordine di Lenin.
Storie di fango e di sangue, figure del Buddha assise tra i falò di accampamenti notturni, di assedi, di massacri. Che l’aria a Palazzo Strozzi non sia esattamente quella di un delicato, tenero vagheggiamento new age lo conferma la presenza del tatuatissimo Nicolai Lilin lo scorso 29 ottobre. Sapete, quello di Educazione siberiana. L’argomento che propone è: «La mia Siberia. Una terra di confini e al centro dell’Universo». (Prima dell’uso leggere attentamente le avvertenze).
Firenze
Quel vento d’Oriente sull’avanguardia russa
di Paolo Russo Repubblica 24.11.13
FIRENZE La mostra di Palazzo Strozzi è affascinante, nevralgica, di rara complessità. E viene da lontano. Fu infatti a fine Ottanta che James Bradburne, dal 2006 direttore della Fondazione Strozzi, la concepì negli Usa con noti specialisti. Come John Bowlt, oggi fra i curatori deL’Avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente (fino al 19 gennaio), con Nicoletta Misler ed Evgenija Petrova, direttrice del Museo Russo di San Pietroburgo. Con 130 fra dipinti, acquerelli, disegni, grafiche e sculture – di, fra i tanti, Kandinskij, Malevic, Larionov, la Goncarova, Filonov – poste in dialogo con 36 preziosi reperti etnoantropologici della Russia asiatica, la mostra ritesse la smisurata, fittissima rete di relazioni fra le culture orientali – anche esterne allo sconfinato impero: Mongolia, Persia, Siam, Cina, Giappone – e parte delle avanguardie russe, suprematismo in primis, del primo Novecento. Che, con modi ed esiti certo non univoci ma tutte egualmente avvinte dall’Oriente, vi si ispirarono, traendone irrinunciabili modelli e fondante diversità, spirituale e/o formale, dai coevi “ismi” europei.
In quella enorme macchina sincretica, raccontano la mostra e il bel catalogo (Skira), agirono lo sguardo zarista a Est, le spedizioni geografiche, viaggi e collezionismo anche di tanti artisti, esotismo e cineserie, le forti migrazioni interne con conseguenti flussi di culture e religioni (San Pietroburgo inaugura, fra India e Art Nouveau, il suo tempio buddista nel 1915), fino alla programmatica resistenza all’Occidente razionale e scientifico in cui la cultura russa fra Otto e Novecento non voleva riconoscersi (e col quale farà comunque i conti).
Risulta fortissimo, in quegli anni, il richiamo dei russi d’Europa verso una intensa spiritualità e l’alterità – un’alterità comunque riconoscibile: la Grande Madre Russia – delle sterminate distese siberiane, della loro natura, colori e luci, dei loro antichissimi usi, popoli e riti magici, così come delle millenarie culture confinanti. Rivelatore e motore di questo “risveglio della memoria”, il viaggio dello zarevic, il futuro Nicola II, che partito da Trieste il 26 ottobre 1890, visitò via mare Grecia, Egitto, India, Indonesia, Siam, Cina e Giappone, tornando – dopo aver inaugurato a Vladivostok il terminale dell’ancora erigenda Transiberiana e percorso in trionfo l’intera Siberia – a San Pietroburgo il 4 agosto 1891, con 1313 fra doni e reperti. Che nel 1893, in una mostra epocale, rafforzeranno la passione per la ritrovata sorella asiatica.
Vent’anni dopo, nella Parigi capitale del mondo, il grande Diaghilev di quella Russia arcaica, esotica e fiammeggiante, esporterà una versione di “scandaloso” successo coi suoi Ballets Russes, il carisma di Nijinski, il genio di Rimski-Korsakov e Stravinskij, pennelli e fantasia di Alexandre Benois, Bakst e Roerich, tutti ben documentati in mostra. Il cui percorso e pregio non son certo solo artistici. Tuttavia, nella sua scelta copia di opere d’arte e reperti, oltre ad un’interessante antologia di artisti russi poco o punto noti, spiccano numerosi i capolavori. E si fa torto al loro numero citando solo alcuni dei maggiori: Il vuoto, Statue di sale e Natura morta con scultura della Goncarova; l’attrazione sciamanica del Kandinskij di Ovale bianco e Ovale grigio, i suoi Macchia nera e Due ovali; il Filonov inafferrabile diCosmo, Oriente-Occidente e Occidente-Oriente; Borisov con la misterica Eclisse nella Novaja Zemlija; l’apocalittico Bakst di Terror Antiquus, fino alla spiritualità assoluta dell’immenso Malevic di Cerchio nero e Supremus n. 58.
di Roberta Scorranese Corriere 29.9.13
«Gratta gratta, sotto ogni russo troverai un tartaro», recita un proverbio moscovita. Più che di affinità elettive, il sapere popolare evoca un Paese vastissimo, multiforme, dove le contrapposizioni, come i confini, si dissolvono nella nebbia. D'altra parte, fino a due secoli fa, la Russia era semplicemente «l'Oriente» per molti europei. Un Oriente vago, dagli echi mongoli o siberiani, alimentati da una letteratura che elevò a poesia certe fiabe della steppa, tramandate oralmente durante i lunghissimi pomeriggi bui nelle dimore aristocratiche.
Ma un tartaro lo si trova anche grattando sotto i demoni di Dostoevskij, sotto i broccati delle dinastie narrate da Tolstòj, persino dietro la resistenza passiva messa in piedi da Oblomov, l'accidioso personaggio di Goncarov. Perché il dividersi tra un'anima «orientale» e una «occidentale», non è stata solo una prerogativa delle Avanguardie in mostra a Palazzo Strozzi: l'oscillazione tra il «primitivismo» delle tradizioni dei confini e l'educazione alla modernità delle corti dell'ovest (come quella francese), ha attraversato tutta la letteratura russa dell'Ottocento, ora in silenzio ora con fragore.
La stessa rivoluzione narrativa di Puškin è una mescolanza di folclore e nitidezza realistica: nel poema Ruslan e Ljudmila (1820) ci sono «maghi dal volto sereno», cavalieri, lance e teste di gigante che spuntano nella steppa. Ma non si pensi alla tradizione cavalleresca occidentale: l'epos russo è altra cosa. È difesa dell'innocenza originaria, è barriera contro il moderno. Fino al cinismo.
Ed è forse questo l'humus da cui nasce l'altra grande figura letteraria russa: l'antieroe di Lermontov. O di Dostoevskij, l'uomo dal rigoroso senso della giustizia interiore che l'ambiente cerca di guastare, il difensore di una purezza primitiva destinata a tramutarsi in cupo pessimismo. Ma in questo richiamo ad un'origine (o presunta tale), non c'è nostalgia.
Anzi. «Lermontov è un uomo che vive tutto nel presente (...) e il presente vive in ogni goccia del suo sangue», osservava il critico Vissarion Belinskij. Così come la ferita morale di Raskolnikov (in Delitto e castigo di Dostoevskij) è forte, fa male ancora oggi e ancora oggi accende la discussione.
Nel 1836, poi, la polemica tra «occidentalisti» e «slavofili» esplode con la pubblicazione della prima versione russa delle Lettres sur la philosophie de l'histoire in cui il filosofo Piotr Caadaev afferma senza mezzi termini: «Noi siamo, per così dire, stranieri a noi stessi (...) È la naturale conseguenza di una cultura tutta importata e d'imitazione. Non c'è da noi uno sviluppo interiore, un progresso naturale». Ne nasce un putiferio, un dibattito che resterà vivo fino al secolo scorso.
Eppure, quel che oggi il lettore innamorato coglie, è semplice e nitido: questa doppia anima russa è stata la linfa stessa della sua bellezza letteraria. Alto e basso. Il linguaggio del Viaggiatore incantato di Nikolaj Leskov (la cui forza narrativa, tra dialetti e etimologie popolari, ha ispirato un magnifico saggio di Walter Benjamin); il mondo contadino di Nikolaj Nekrasov e il suo «infinito amore per il popolo», come ebbe a dire Dostoevskij.
Accanto a questo gusto pittorico del racconto, c'è l'eco delle religioni orientali nelle opere di Gurdjieff, l'attrazione per la cultura slava da parte del «poeta viandante» Velimir Chlebnikov (futurista, uomo che visse in un ossessivo nomadismo). In quest'altalena tra culture si ritrova un doppio percorso, quasi una lacerazione irrorata di fantasia, favola, follia. In un modo tutto particolare di sentire la realtà, prima ancora che di vederla. Come scrive Dostoevskij in una lettera a Nikolaj Ljubimov: «Nei Demoni c'è una quantità di personaggi che mi sono stati contestati come meramente fantastici. Ma in seguito, che lei lo creda o no, sono stati tutti confermati dalla realtà, il che significa che erano stati esattamente intuiti». In quell'espressione, «esattamente intuiti» c'è un mondo intero.
I giovani leader antizaristi che conquistarono il balletto
Diaghilev li volle con sé, col teatro girarono il mondodi Francesca Bonazzoli Corriere 29.9.13
«L'immagine esteriore della Goncarova. La prima cosa: coraggio virile. Della superiora di un monastero. Di una giovane superiora. La franchezza dei lineamenti e dello sguardo, la serietà - oh non severità - di tutta la fisionomia. Una persona che prende tutto sul serio. Quasi senza un sorriso, ma quando il sorriso c'è - incantevole». Così la poetessa Marina Cvetaeva descriveva Natalija Goncarova, la giovane aspirante artista che nel 1900 incontrava Michail Larionov «un immenso e bruciante figlio del popoloi mpulsivo, generoso e imprevidente, un lottatore nato, d'incurabile romanticismo», secondo le parole di un altro poeta, Guillaume Apollinaire.
La coppia di punta dell'avanguardia russa, dunque, non poteva essere caratterialmente più diversa. Eppure Goncarova e Larionov, dai banchi della Scuola di pittura, scultura e architettura di Mosca non si separarono più. Lei, pronipote della moglie di Puskin, era nata nel villaggio di Nagaevo, vicino a Tula, nella Russia centrale; mentre nello stesso anno, il 1881, lui nasceva a Tiraspol', in Moldavia, allora Bessarabia. Appartenevano insomma anche col carattere — l'uno riservato, l'altro esuberante — a due Russie diverse, quella del Nord e del Sud. Dal 1905 al 1915, per dieci anni, sono la coppia leader dei pittori di sinistra che contestava la società zarista e il perbenismo borghese. Lui si era ritagliato un ruolo più teorico, con la stesura di manifesti e dichiarazioni artistiche; lei si concentrava sulla pittura tanto che, quando nel 1913 allestì a Mosca la prima personale, espose oltre settecento opere. Sergej Diaghilev ne rimase impressionato e scrisse: «Questa donna trascina tutta Mosca e tutta San Pietroburgo dietro di sé: non si imita solo la sua opera, ma la sua personalità: si è dipinta dei fiori sul corpo. E immediatamente la nobiltà e la bohème l'hanno seguita con cavalli, case, elefanti, disegnati e dipinti sulle gote, sulla fronte e sul collo, oppure con il viso pitturato metà di blu e metà di ocra».
Proprio l'incontro con Diaghilev rappresenterà per entrambi una svolta, nell'arte come nella vita. L'impresario dei Balletti Russi, infatti, incaricò Natalija di disegnare costumi e scenografie per «Le coq d'or» di Rimskij-Korsakov. La Goncarova si ispirò all'amato repertorio primitivista con richiami alle icone, ai lubki (le stampe popolari), ai giocattoli, ai pizzi e fu un grande successo. Da quel momento anche Larionov venne coinvolto nell'attività di Diaghilev e il suo impegno fu tale che abbandonò la pittura per mettersi a progettare anche le coreografie. Il teatro portò la coppia a viaggiare a Parigi, in Svizzera, Spagna e dal 1919 a trasferirsi definitivamente a Parigi.
È così che l'intonazione folkloristica e primitivista del periodo moscovita si andò attenuando. Se nel 1913 nel manifesto del Raggismo Larionov proclamava «Viva il bellissimo Oriente! Viva il carattere nazionale! Siamo contrari all'Occidente che ha banalizzato le forme nostre e quelle orientali e che livella tutto»; se la Goncarova, in una serata del 1911 al Museo politecnico sosteneva davanti ai colleghi pittori che «Il cubismo è una buona cosa, ma non è poi così nuovo; le "streghe" di pietra degli sciti, le bambole di legno dipinte vedute nelle fiere, sono anch'esse delle opere cubiste», dopo il trasferimento a Parigi i due fanno i conti con il fatto che anche le altre avanguardie europee avevano il loro primitivismo cui guardare, a cominciare dall'arte africana che innescò il cubismo di Picasso. Sia Larionov che Goncarova si confrontarono con tali pitture e il loro radicalismo si trasformò in mediazione fra cultura russa e cultura occidentale.
Ben diversa dal radicalismo dell'approccio teorico del sacerdote ortodosso Pavel Florenskij, studioso di matematica, fisica e arte. Per lui il valore delle antiche icone è tutt0altro che semplicemente etnico o decorativo: «Fra tutte le dimostrazioni filosofiche dell'esistenza di Dio», scrive Florenskij a proposito della celebre icona medievale di Rublëv «suona come la più pervasiva quella di cui non si fa menzione nei manuali: si può formulare con il sillogismo: Esiste la Trinità di Rublëv, perciò Dio è».
Una posizione teoretica radicale che manderà piuttosto i suoi riverberi sul Suprematismo, magico e spirituale, di Malevic.
Ma il Giappone reagì alle notti disinvolte del rampollo Romanov
di Serena Vitale Corriere 29.9.13
Il viaggio in terre orientali che il futuro zar Nicola II intraprese alla fine dell'Ottocento rientra evidentemente nella tradizione del «Grand Tour», ma ebbe anche un forte significato politico, culturale e, non da ultimo, simbolico. Questo lungo itinerario attraverso l'Eurasia non nasceva da smanie espansionistiche della Russia, ma era piuttosto un modo per riaffermare la sua potenza sui mari. Il ventiduenne erede al trono si imbarcò su una fregata dal nome evocativo, «Pamiat' Azova», «Ricordo di Azov»: memoria del viaggio nel Sud compiuto da Pietro il Grande che aveva compreso la necessità di una flotta degna di una potenza imperiale per assicurare alla Russia l'agognato sbocco sul mare, e insieme memoria del famoso viaggio di Caterina in Crimea (la zarina e il suo seguito ovviamente si fermarono anche ad Azov, definitivamente sottratta al dominio turco) che nel 1787 aveva sancito la potenza militare russa nei confronti dell'Impero Ottomano.
Nel caso dello zarevic Nikolaj c'era un altro aspetto non meno importante: la presenza del giovane rampollo di casa Romanov aveva il compito di confortare le popolazioni di domini lontani, gli abitanti di un impero sterminato, dai confini difficili da tracciare. Alcune regioni degli Urali, oltretutto, poco tempo prima avevano dovuto affrontare una terribile carestia.
Infine, il viaggio del giovane era dovuto anche a motivi squisitamente privati: il ventiduenne erede al trono (che peraltro aveva un relazione con la ballerina classica Matilda Kshesinskaja) era innamorato di Alice, principessa d'Assia e del Reno, ed era deciso a sposarla. Lo zar Alessandro III si opponeva a un matrimonio che non giudicava opportuno dal punto vista della strategia diplomatico-politica: i nove mesi di assenza avrebbero aiutato il figlio, credeva, a dimenticare l'una e l'altra donna. Invano: dovette poi benedirne il matrimonio con la donna che divenne la zarina Aleksandra Fjodorovna.
In Giappone, mentre in un corteo di risciò attraversava Otsu, lo zarevic subì un attentato da parte del poliziotto Tsuda Sanzo; l'uomo lo colpì al capo con una sciabola, anche se non mortalmente. Sono ancora controversi i motivi del gesto — probabilmente si trattava di fanatismo religioso. I giapponesi, come è noto, sono molto attenti ai rituali (sociali e religiosi) e, a quanto pare, il principe aveva avuto una condotta non propriamente morigerata (a Nagasaki, in privato, aveva frequentato un locale malfamato, si era fatto fare un tatuaggio), né tutti i dignitari russi che lo accompagnavano avevano mostrato il dovuto rispetto nei luoghi di culto. All'attentato, che avrebbe potuto avere gravissime conseguenze, fino alla guerra, nei rapporti fra i due Imperi, seguirono le scuse del Giappone, e lo stesso imperatore Meiji andò al capezzale del giovane ferito.
(Testo raccolto da Roberta Scorranese)
Serena Vitale è scrittrice e slavista. Il suo ultimo libro è «A Mosca, a Mosca!» (Mondadori)
Pittori o sciamani? Quando i russi si innamorarono dell'Oriente
- il Giornale Mar, 29/10/2013
Fuoco e ghiaccio
A Firenze la mostra sull’Avanguardia Russa che guardava a Oriente
A Palazzo Strozzi le opere di Malevic, Kandinskij, Bakst, Filonov e Gontcharova, ma anche ottimi artisti minori Un fil rouge che si srotola fino al Giappone. Peccato per l’allestimento fin troppo didascalico
di Marco Di Capua l’Unità 2.11.13
MATCH GEOPOLITICO E GUERRA CULTURALE SEMIFREDDA TRA DUE GRANDI MOSTRE ATTUALMENTE IN ITALIA. PERCHÉ, mentre a Palazzo Reale di Milano dominano Gli Irascibili, e cioè Jackson Pollock & Company, e dunque in filigrana leggi l’America liberal che dai Kennedy arriva a Obama, a Palazzo Strozzi di Firenze c’è Putin. Nel senso che questa interessantissima esposizione, L’Avanguardia russa. La Siberia e l’Oriente (fino al 19 gennaio) respira forte, a pieni polmoni, il vento di recupero nazionale e imperiale che oggi soffia da Mosca e in tutte le direzioni e le terre e le piccole patrie dell’ex Urss.
Ne parliamo tra un attimo, però prima, già che ci siamo andati e abbiamo toccato con mano, diciamo ciò che nella mostra è proprio brutto. Mio Dio, l’allestimento. Un disastro.
In totale e quasi simpatica controtendenza con il trend attuale tutto less is more perfino ove si tratti di mettere i cartellini coi nomi degli autori e le date, ecco un massiccio bombardamento a tappeto di intrusioni storico-didascalico-pedagogiche, viste come trionfo, intaso e accumulo ossessivo del «tranquilli, adesso vi spieghiamo tutto noi!», attraverso tazebao e manifesti esplicativi e perfino disquisizioni sporgenti ad altezza ginocchio (attenti alla rotula!), con invasive domande tipo: «che rapporti hai con il cyber-spazio?». E ciò accanto o sotto, magari, a un incolpevole Malevic.
IL DIRETTORE RISPONDE
Giro il mio disagio al Direttore di Palazzo Strozzi, James Bradburne, e lui cortesemente ma fermamente obietta così: «Da noi, pannelli e didascalie per famiglie accompagnano ogni allestimento, e in questo caso in cui il tema è complesso un simile accompagnamento era ancora più necessario. Non mi sembra che all’estero si tenda a ridurre l’apparato didattico, era una tendenza ormai superata e risalente agli anni Ottanta. Palazzo Strozzi si basa sulla ricerca, e la ricerca ha dimostrato che gli oggetti “parlano da sé” solo a coloro che sono già informati, una piccola parte del pubblico. Una presentazione “non mediata” fa parte di un approccio non più giustificabile né dalla teoria né dalla pratica. Desideriamo far partecipare il visitatore. Di qui la presenza di domande nel percorso per famiglie e bambini. La dimensione dei testi è dovuta a una precisa volontà di leggibilità».
Ok, ma non ci sono già tutte quelle robe tecnologiche, nelle salette apposite? Non bastano quelle per i piccini, per altro sveltissimi sui touch screen? Bisogna asfissiare e alla fine tramortire così un’opera d’arte? È vero che da una mostra dobbiamo ricavare significati, un qualche senso, ma ciò spetta allo sguardo e a menti concentrate. Accidenti, soprattutto quando contempliamo opere che nacquero invocando una qualche purezza. Il silenzio. Dico questo davanti a una parete, proprio all’inizio del percorso, dove il Cerchio nero di Malevic è confinato sulla sinistra di un pannello che a destra e al centro esibisce la megaspiegazione del quadro medesimo. Stupefacente.
E veniamo al bello. La mostra, curata da John Bowlt, Nicoletta Mister e Evgenia Petrova (catalogo Skira), presenta 130 pezzi, e cioè 79 dipinti, 15 sculture e 36 oggetti di tipo etnoantropologico, per cui qui non solo quadri ma il senso profondo di una fascinazione e di un richiamo, quella per i misteriosi e leggendari Orienti, covati nella pancia turbolenta dell’Avanguardia russa tra Otto e Novecento.
Ci sono i bei nomi: oltre a Malevic, Kandinskij, la stupenda, barbarica Gontcharova, Larionov, Léon Bakst, Filonov, Burljuk. Ma ecco anche, tra i molti, pittori meno noti come lo stupendo, solido fauve Ilja Maskov, Petr Kontchalovskij, o come quel povero Gurkin, che amava dipingere sciamani e laghi ghiacciati e che nel 1937 fu fucilato con l’accusa di spionaggio a favore del Giappone. Infatti qui, ecco un sacco di stampe giapponesi, perché l’occhio laggiù cadeva di preferenza, come si sa. Meno si sapeva dei culti sciamanici delle popolazioni siberiane che sedussero fior di intellettuali. In mostra tamburi rituali e statue paleolitiche e idoli, simboli inquieti degli spiriti dei boschi e del deserti, vezzeggiati e stilisticamente copiati tali e quali nei lavori dei giovani, ferventi primitivisti di allora.
Non sapevo affatto, né me lo immaginavo, che esattamente un secolo fa, nel 1913, fu innalzato a San Pietroburgo il primo tempio buddista, sotto la doppia bandiera russa e tibetana: Nicola II e molti della sua corte erano interessatissimi al Buddismo, praticavano la meditazione, collezionavano oggetti venuti dal Tibet. Dunque, non solo l’orrido Rasputin attorno a quello stravagante, tragico trono?
Ora: un martellamento ritmico di danza pagana echeggia, notoriamente, nella Sagra della Primavera di Stravinsky, ma facendo il viaggio mentale ispirato da questa mostra ti ricordi un’altra cosa. Anzi due, una buona e una cattivissima. Quella buona è Derzu Usala, il piccolo uomo delle grandi pianure. È il film di Akiro Kurosawa, tratto dalle memorie di viaggio in Siberia di Arsenev, del 1923. L’aria e le date e le facce sono quelle lì. Lo spirito di Derzu si aggira per queste sale. Quella cattiva riguarda la storia di Roman Von Urgen-Sternberg, Il Barone sanguinario nel racconto di Vladimir Pozner pubblicato da Adelphi. Accidenti: quando dici il richiamo dell’Oriente, del Buddismo... E poi lo impasti con la reazione, con il viscerale, disperato disgusto per ciò che è «moderno». Urgen, a capo di un ferocissimo esercito paranazista e razzista di mongoli, cosacchi e tibetani si credette Gengis Khan, terrorizzò intere popolazioni a est della Russia, ammazzò migliaia di comunisti e di ebrei, e finì, con gran sollievo generale, fucilato su ordine di Lenin.
Storie di fango e di sangue, figure del Buddha assise tra i falò di accampamenti notturni, di assedi, di massacri. Che l’aria a Palazzo Strozzi non sia esattamente quella di un delicato, tenero vagheggiamento new age lo conferma la presenza del tatuatissimo Nicolai Lilin lo scorso 29 ottobre. Sapete, quello di Educazione siberiana. L’argomento che propone è: «La mia Siberia. Una terra di confini e al centro dell’Universo». (Prima dell’uso leggere attentamente le avvertenze).
Firenze
Quel vento d’Oriente sull’avanguardia russa
di Paolo Russo Repubblica 24.11.13
FIRENZE La mostra di Palazzo Strozzi è affascinante, nevralgica, di rara complessità. E viene da lontano. Fu infatti a fine Ottanta che James Bradburne, dal 2006 direttore della Fondazione Strozzi, la concepì negli Usa con noti specialisti. Come John Bowlt, oggi fra i curatori deL’Avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente (fino al 19 gennaio), con Nicoletta Misler ed Evgenija Petrova, direttrice del Museo Russo di San Pietroburgo. Con 130 fra dipinti, acquerelli, disegni, grafiche e sculture – di, fra i tanti, Kandinskij, Malevic, Larionov, la Goncarova, Filonov – poste in dialogo con 36 preziosi reperti etnoantropologici della Russia asiatica, la mostra ritesse la smisurata, fittissima rete di relazioni fra le culture orientali – anche esterne allo sconfinato impero: Mongolia, Persia, Siam, Cina, Giappone – e parte delle avanguardie russe, suprematismo in primis, del primo Novecento. Che, con modi ed esiti certo non univoci ma tutte egualmente avvinte dall’Oriente, vi si ispirarono, traendone irrinunciabili modelli e fondante diversità, spirituale e/o formale, dai coevi “ismi” europei.
In quella enorme macchina sincretica, raccontano la mostra e il bel catalogo (Skira), agirono lo sguardo zarista a Est, le spedizioni geografiche, viaggi e collezionismo anche di tanti artisti, esotismo e cineserie, le forti migrazioni interne con conseguenti flussi di culture e religioni (San Pietroburgo inaugura, fra India e Art Nouveau, il suo tempio buddista nel 1915), fino alla programmatica resistenza all’Occidente razionale e scientifico in cui la cultura russa fra Otto e Novecento non voleva riconoscersi (e col quale farà comunque i conti).
Risulta fortissimo, in quegli anni, il richiamo dei russi d’Europa verso una intensa spiritualità e l’alterità – un’alterità comunque riconoscibile: la Grande Madre Russia – delle sterminate distese siberiane, della loro natura, colori e luci, dei loro antichissimi usi, popoli e riti magici, così come delle millenarie culture confinanti. Rivelatore e motore di questo “risveglio della memoria”, il viaggio dello zarevic, il futuro Nicola II, che partito da Trieste il 26 ottobre 1890, visitò via mare Grecia, Egitto, India, Indonesia, Siam, Cina e Giappone, tornando – dopo aver inaugurato a Vladivostok il terminale dell’ancora erigenda Transiberiana e percorso in trionfo l’intera Siberia – a San Pietroburgo il 4 agosto 1891, con 1313 fra doni e reperti. Che nel 1893, in una mostra epocale, rafforzeranno la passione per la ritrovata sorella asiatica.
Vent’anni dopo, nella Parigi capitale del mondo, il grande Diaghilev di quella Russia arcaica, esotica e fiammeggiante, esporterà una versione di “scandaloso” successo coi suoi Ballets Russes, il carisma di Nijinski, il genio di Rimski-Korsakov e Stravinskij, pennelli e fantasia di Alexandre Benois, Bakst e Roerich, tutti ben documentati in mostra. Il cui percorso e pregio non son certo solo artistici. Tuttavia, nella sua scelta copia di opere d’arte e reperti, oltre ad un’interessante antologia di artisti russi poco o punto noti, spiccano numerosi i capolavori. E si fa torto al loro numero citando solo alcuni dei maggiori: Il vuoto, Statue di sale e Natura morta con scultura della Goncarova; l’attrazione sciamanica del Kandinskij di Ovale bianco e Ovale grigio, i suoi Macchia nera e Due ovali; il Filonov inafferrabile diCosmo, Oriente-Occidente e Occidente-Oriente; Borisov con la misterica Eclisse nella Novaja Zemlija; l’apocalittico Bakst di Terror Antiquus, fino alla spiritualità assoluta dell’immenso Malevic di Cerchio nero e Supremus n. 58.
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