martedì 1 ottobre 2013

Dal marxismo al populismo antimoderno: una raccolta di articoli di Serge Latouche


Nell'argomentare le ragioni della decrescita, Latouche postula qui un Marx del tutto immaginario. Riporto a questo proposito alcune considerazioni che svolgevo nel mio saggio Modern Communism versus "nostalgia for community" in Karl Marx, in J. Zimmer, D. Losurdo (Hrsg.), Die Idee der buergerlichen Gesellschaft. Hegel und die Folgen, atti del simposio della Societas Hegeliana, Documenta Universitaria, Girona 2006 [SGA].

[...] Nessuna discontinuità presenta, rispetto all’atteggiamento qui messo in evidenza, la lettera di Marx a Vera Zasulič dell’8 marzo 1881, spesso strumentalmente utilizzata ai fini dell’invenzione di un grottesco Marx “comunitarista”. Intervenendo sulla questione dell’obščina russa, esaltata dai populisti e dai bakuniniani come base economico-sociale per un passaggio diretto della Russia dal feudalesimo in dissoluzione al socialismo, Marx certamente afferma che essa «è il punto di appoggio della rigenerazione sociale in Russia». Egli avverte, però, che affinché ciò accada è necessario «eliminare le influenze deleterie che l’assalgono da tutte le parti», nonché «assicurarle condizioni normali di sviluppo organico» (Marx-Engels, 1960, p. 237 = MEW, Bd. 35, p. 167). La cautela di queste parole si spiega con l’intenzione di Marx di non sconcertare eccessivamente i suoi interlocutori: l’obščina era infatti guardata con speranza anche dai dirigenti del gruppo protosocialista russo, decisamente ancora immaturi sul piano teorico e politico ma senz’altro più preparati dei loro epigoni attuali. La sua volontaria cripticità si scioglie infatti completamente nelle tormentate bozze preparatorie della lettera (Marx-Engels, 1960, pp. 237-44 = MEW, Bd. 19, pp. 384-406). Qui Marx demolisce la mitologia nostalgica della comune rurale russa. Il suo modello strutturale non è la comunità antica bensì quella germanica, nella quale già abbastanza definito è il «dualismo» tra la proprietà collettiva della terra e il suo uso ormai interamente privato (la terra viene periodicamente assegnata in parcelle ai membri della comunità). Privata è anche la proprietà della casa e della corte rustica, con tutte le possibilità di accumulazione individuale, e di conseguente differenziazione sociale, che ciò comporta. La comune russa è dunque propriamente una «fase di trapasso» dalla comunità originaria alla «formazione secondaria», e cioè «dalla società basata sulla proprietà comune» a quella «basata sulla proprietà privata», nonché «sulla schiavitù e sul servaggio». Già questo basterebbe a chiudere il discorso con i “marxisti comunitaristi”. Marx però aggiunge anche altro. Egli afferma l’assoluta insufficienza dell’obščina, che sconta la necessità di «spogliarsi gradatamente dei suoi caratteri primitivi», dei suoi elementi naturalistici dunque, per compiere un salto di qualità e «svilupparsi» fino a divenire «elemento della produzione collettiva su scala nazionale». Proprio i residui naturalistici della comune, assieme agli influssi dovuti alla diffusione dei metodi capitalistici, che generano conflitto tra i contadini poveri e i kulaki, sono le «le influenze deleterie che l’assalgono da tutte le parti» di cui parla la lettera. Infine, vediamo quali sono le condizioni nelle quali, nonostante tutto ciò che abbiamo detto sinora, la comune può essere un utile strumento di organizzazione sociale. La prima è la «contemporaneità della produzione capitalistica», che potrebbe consentire all’obščina di far proprie «tutte le conquiste positive» del capitalismo senza pagarne lo scotto. La Russia, infatti, non vive «isolata dal mondo moderno» ma nella Modernità - che i panslavisti o i populisti vogliano o meno - è ormai immersa. La seconda condizione è la contemporaneità della «crisi» del capitalismo, ormai «in lotta e con la scienza, e con le masse popolari, e con le stesse forze produttive generate dal suo seno». La contemporaneità, cioè, della lotta di classe consapevolmente organizzata e condotta sulla base dei principi politici del socialismo scientifico. Determinante è dunque l’«ambiente storico» in cui l’obščina si colloca. Solo grazie all’appropriazione delle moderne tecniche produttive capitalistiche essa può porsi all’altezza del «lavoro cooperativo organizzato su vasta scala» e introdurre l’uso delle «macchine», della «coltura meccanica», degli «utensili», degli «ingrassi», dei «metodi agronomici». Ma questa «metamorfosi», che le darà una «pelle nuova», avrà un senso socialmente positivo solo se sarà inquadrata nel contesto di una trasformazione generale della società russa, nel quadro cioè di un processo politico rivoluzionario. «Per salvare la comune russa», insomma, «occorre una Rivoluzione russa», una rivoluzione socialista. A dire il vero, nemmeno questo, forse, potrebbe bastare, senza un collegamento con il più generale movimento rivoluzionario internazionale. Infatti, come Marx precisa nella prefazione alla 2° edizione russa del Manifesto del partito comunista, pubblicata nel 1882, solo «se la rivoluzione russa diverrà il segnale di una rivoluzione proletaria in Occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino a vicenda», la comunità rurale «potrà servire come punto di partenza ad uno sviluppo in senso comunistico» (Marx-Engels, 1960, p. 246 = MEW, Bd. 19, pp. 295-6). Rinunciamo qui a citare per esteso le ulteriori precisazioni fornite su questo tema da Engels, dato che la sua immeritata fama di “travisatore” del pensiero marxiano renderebbe tale sforzo inutile. In ogni caso, sulla base di quanto abbiamo visto, ci pare di poter dire che - con buona pace del sogno populista di una rigenerazione comunitaria dalla “barbarie” del Novecento - anche sulla questione dell’obščina la miglior interpretazione dell’autentico pensiero di Marx sia stata, una volta di più, il programma di Lenin [...].

Serge Latouche: Incontri di “un obiettore di crescita”, Jaca Book

Risvolto

"Crescita, crescita": è la parola magica pronunciata a sazietà per salvarci da crisi che non cessano di succedersi... Questo per la pretesa dell'uomo di credere di poter sfruttare senza limiti i suoi simili e il pianeta e di aver creato un modello destinato a generare sempre maggior ricchezza, sempre maggiore felicità. Tuttavia, a partire dalle tesi di Nicholas Georgescu-Roegen, noi sappiamo che ciò non è possibile, mentre Ivan Illich e André Gorz ci hanno insegnato che è possibile un altro schema di società, capace di rispettare insieme l'ambiente e l'uomo. Gli "incontri" di Latouche sono con gli indios latinoamericani, con l'autarchia italiana tra le due guerre, con i precursori della decrescita, con la mercificazione dei viaggi alle Seychelles, con l'Africa, con la Cina e con i dibattiti e le esperienze in corso in Europa. L'opera ha un andamento quasi biografico con il susseguirsi di avvenimenti, esperienze e riflessioni. Prefazione di Patrick Piro. 



Decrescita con Marx
Il filosofo economista affronta a modo suo il tema dell’anticapitalismo
di Serge Latouche l’Unità 1.10.13


Diciamolo in maniera ancora più chiara: il prezzo da pagare per la libertà è la distruzione dell’economico in quanto valore centrale e, di fatto, unico. È un prezzo davvero tanto alto? Per me, certamente no: preferisco infinitamente avere un nuovo amico piuttosto che un’automobile nuova. Preferenza soggettiva, senza dubbio. Ma «oggettivamente»? Lascio volentieri ai filosofi politici il compito di «fondare» lo (pseudo)-consumo in quanto valore supremo.
Cornélius Castoriadis
Si intitola «Incontri di “un obiettore di crescita”» il libro edito in Italia da Jaca Book
che presenta una serie di articoli di Latouche pubblicati sul settimanale francese «Politis». Ne anticipiamo un capitolo

Uscire dal vicolo cieco della società della crescita, significa trovare le vie che ci consentano di costruire il mondo «altro» della sobrietà volontaria e dell’abbondanza frugale che noi riteniamo possibile; prima però bisogna uscire dai solchi del pensiero «critico», ossia di quelle vecchie idee preconfezionate che costituiscono il valore d’avviamento delle sinistre, di tutte le sinistre. Inventare modi nuovi di fare politica significa ripensare la politica e trovare una soluzione allo stallo della politica politicante. Una delle ragioni, forse la principale, del fallimento del socialismo, è stata la volontà egemonica di un discorso e di un modello. Non che non ve ne fossero parecchi, tra leninismo, stalinismo, maoismo, trotskismo e socialdemocrazia, ma nessuna corrente di pensiero e nessun modello concreto è riuscito ad accogliere la pluralità della verità e la diversità delle soluzioni concrete.
Certo, Marx, nella sua celebre lettera del 1881 a Vera Zasulic, evocava la possibilità di un passaggio diretto dalla comunità contadina tradizionale russa, il mir, al socialismo, saltando la tappa capitalista. La possibilità di un percorso diverso è stata ripresa anche per l’Africa, dopo l’indipendenza; ed è stata nuovamente evocata a proposito degli zapatisti e delle comunità indigene del Messico. Tuttavia, è noto che Engels, dieci anni dopo la morte di Marx, si mostrava molto più scettico sull’argomento e che dopo altri venti anni Lenin attaccava teoricamente e praticamente queste «sopravvivenze», che Stalin avrebbe spietatamente liquidato. I vari «marxismi reali» del Terzo Mondo non si sono mostrati più teneri nei riguardi delle strutture comunitarie precapitaliste. La modernizzazione «socialista» ha fatto tabula rasa del passato con una violenza e un accanimento perfino maggiori di quelli della modernizzazione capitalista, facilitando così il compito della globalizzazione ultraliberista seguita alle sconfitte delle esperienze socialiste. La straordinaria varietà di vie e di voci del primo socialismo (frettolosamente liquidato con l’etichetta di socialismo romantico o utopistico) era stata infatti ridotta al pensiero unico del materialismo storico, dialettico e scientifico. Di conseguenza, la tolleranza della pluralità poteva essere accettata solo come concessione provvisoria tattica, che non modificava l’intolleranza di fondo. Tuttavia, si potrebbe presentare paradossalmente la decrescita come un progetto radicalmente marxista, progetto che il marxismo, e forse lo stesso Marx, avrebbero tradito. La crescita, infatti, non è che il nome «volgare» del fenomeno che Marx ha analizzato come accumulazione illimitata di capitale, fonte di tutti i guasti e le ingiustizie del capitalismo.
È già tutto, o quasi, contenuto nella famosa formula, spesso citata e commentata (e infine rinnegata) dai guardiani del tempio: «Accumulate, accumulate! Questa è la Legge e questo dicono i profeti!». L’essenza del capitalismo risiede nell’accumulazione del capitale, resa possibile dall’estorsione del plusvalore ai salariati. Assicurarsi un profitto soddisfacente è una condizione dell’accumulazione che ha a sua volta come unico fine la realizzazione di un profitto ancora maggiore. Questa logica, come notava già Marx, s’impone ai singoli capitalisti, e chi non vi si adegua sarà eliminato dalla concorrenza tra i capitali. In ultima analisi, dire che la crescita o accumulazione del capitale è l’essenza stessa del capitalismo, la sua finalità, è tanto corretto quanto dire che esso si fonda sulla ricerca del profitto. Il fine e i mezzi sono in questo caso intercambiabili. Il profitto è il fine dell’accumulazione del capitale così come l’accumulazione del capitale è il fine del profitto. Parlare di una crescita o di un’accumulazione del capitale buone, di uno sviluppo buono – come, per esempio, una mitica «crescita messa al servizio di una migliore soddisfazione dei bisogni sociali»–, equivale pertanto a dire che esistono un capitalismo buono (verde o sostenibile, magari) e uno sfruttamento buono.
Per uscire da una crisi che è inestricabilmente ecologica e sociale, bisogna uscire dalla logica dell’accumulazione infinita del capitale e dalla subordinazione di tutte le decisioni essenziali alla logica del profitto. È per questo che la sinistra, se non vuole rinnegare se stessa, dovrà abbracciare senza riserve le tesi della decrescita.

Il 16 la presentazione a Milano
Serge Latouche, presidente dell'associazione «La ligne d'horizon», e professore emerito di Scienze economiche all'Università di Parigi XI e all'Institut d'études du developpement économique et social di Parigi, è il teorico della decrescita. Conosciuto per i suoi lavori di antropologia economica, Serge Latouche critica il concetto di economia intesa in modo formale, ossia come attività di mera scelta tra mezzi scarsi per poter raggiungere un fine. L’intellettuale sarà a Milano il 16, presso la Libreria Jaca Book (Via Frua 11, ore 18.30) per la presentazione di questo libro.

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