CITTÀ RIBELLI
Forme di vita oltre l'ambivalenza
ARTICOLO - Benedetto Vecchi il manifesto 2013.10.01 - 10 CULTURA
Nelle metropoli l'intreccio tra finanza e produzione è ormai
inestricabile. Luogo di massima oppressione. E di diffuse pratiche di
resistenza ad essa Il capitale e la metropoli, un binomio che mostra le
sue caratteristiche nei momenti di crisi e dunque di svolta nel regime
di accumulazione.
È questo il punto di avvio di David Harvey nel suo Città ribelli (il
Saggiatore) che ha un obiettivo ambizioso: tratteggiare un punto di
vista forte non solo sulle trasformazioni urbane, ma anche di
comprendere fino in fondo il ruolo svolto dal capitale finanziario nel
far ripartire lo sviluppo economico ridisegnando i rapporti sociali e di
classe nelle metropoli. In una successione storica e geografica che
parte dalla «Parigi capitale del XIX secolo» per passare alla Los
Angeles del XXI secolo, approdando infine alla prometeica trasformazione
urbana cinese degli ultimi dieci anni, il geografo americano applica
creativamente la versione dei cicli economici di Giovanni Arrighi alle
metropoli.
Per Arrighi, il capitale finanziario interviene nella fase
discendente di un ciclo economico, quando cioè il centro dello sviluppo
capitalistico perde la sua spinta propulsiva e il denaro deve svolgere
un ruolo di supplenza rispetto a quelli svolti da commerci, manifattura e
dallo Stato nel garantire la produzione di ricchezza. Per estensione,
Harvey sostiene che la metropoli è il luogo dove il capitale manifesta
la sua crisi e dove la finanza garantisce una «distruzione creatrice» di
nuovi assetti urbanistici che garantiscono l'investimento di eccedenza
di capitale che la «normale» produzione di merci non riesce ad
assorbire. Poco interessa se tale eccedenza viene investita in una città
o in un'altra sia dello stesso stato-nazione che di altri paesi. Il
capitale è mobile e può facilmente spostarsi perché la controrivoluzione
neoliberista ha cancellato barriere normative e confini nazionali.
L'analisi
di Harvey è rilevante perché assegna alla metropoli un ruolo strategico
nella gestione della crisi economica. Vengono così al pettine tutti i
nodi dei rapporti sociali. La metropoli è dunque il luogo dove la
produzione di merci ha il suo habitat; ma è anche il contesto in cui le
classi vengono continuamente rimodellate.
Non è infatti un caso che
il geografo americano critichi la cultura dominante nella sinistra, sia
statunitense che europea, quando assegna alla classe operaia centralità
nel conflitto sociale. Sono altri i soggetti che entrano in campo nella
metropoli. Possono essere donne, piccoli artigiani, professional
declassati, ma non sono certo «tute blu». Si tratta di un «proletariato»
che fa del diritto alla città una griglia politica per affermare
diritti sociali di cittadinanza e una contestazione dell'uso
capitalistico del territorio, attraverso la sperimentazione di forme di
vita altere rispetto ai rapporti di potere dominanti. È su questo
crinale che l'analisi di David Harvey manifesta la sua ambivalenza. Il
«proletariato» indicato da Harvey ha bisogno di una sintesi politica che
non può essere certo garantita dalle forme politiche «classiche» (il
partito o il sindacato). Da qui l'invito a lavorare per una Comune del
XXI secolo. Nulla da obiettare, così come è convincente la
sottolineatura della «precarietà» come condizione sempre più
generalizzata delle relazioni tra capitale e lavoro vivo.
Ciò che
merita di essere discusso è la progressiva trasformazione della
metropoli in un conclamato habitat produttivo dove forme di vita,
riproduzione della stessa forza lavoro sono diventate attività
lavorativa o processi di valorizzazione del lavoro vivo. Il richiamo
alla formula del «comune» non ha nessuna eco esotica, bensì è la realtà
del moderno regime di accumulazione. Da questo punto di vista, la
centralità è da assegnare al lavoro vivo, perché la metropoli è un
caleidoscopio di produzione immateriale (high-tech, ma anche le imprese
che gestiscono la riproduzione della forza-lavoro dopo la
privatizzazione del welfare state) e produzione materiale. La finanza,
in questo caso più che ruolo suppletivo svolge un ruolo di governance
dello sviluppo capitalistico.
Non è certo la prima volta che il
capitalismo vede all'opera questo protagonismo della finanza. È accaduto
nel settore high-tech, dove il capital venture assieme alla funzione
normativa dello stato ha consentito la cosiddetta «rivoluzione del
silicio». Sta accadendo nel bio-tech, dove la finanza e le norme della
proprietà intellettuale sono gli strumenti di governo di un settore
produttivo - le biotecnologie e le «tecnologie della vita» - che cresce
in concomitanza proprio con la dismissione del welfare state. È la
regola per quanto riguarda le trasformazioni urbane.
La posta in
gioco, allora, è la riappropriazione del comune, che non coincide solo
con l'accesso al comune e degli spazi pubblici, ma anche con lo
sviluppare forme di produzione alternative a quelle dominanti. La
dimensione politica non sta, quindi, solo nella ricerca di una forma
organizzativa adeguata e che non ripercorri i sentieri già battuti in
passato, ma nello sperimentare un comune politico che valorizzi le
differenze della forme di vita presenti nella metropoli. In fondo,
sciogliere le ambivalenza altro non vuole dire che costruire proprio una
Comune, interrompendo così il tempo di vita del capitale.
Il buon diritto alla Comune
Una rete per le mille forme di «attivismo di prossimità» presenti nelle città. Un'intervista con il geografo statunitense, in Italia su invito del Teatro Valle occupato e per presentare il suo nuovo libro «Città ribelli»
ARTICOLO - Roberto Ciccarelli il manifesto 2013.10.01 - 10 CULTURA
«È come un grande terremoto preceduto da piccoli traumi quello che apre
spazi come il teatro Valle, ma anche altrove, nelle fabbriche recuperate
o nell'attivismo nei quartieri» afferma il geografo David Harvey, tra i
più ascoltati intellettuali marxisti nel mondo. Parole che stridono con
la campagna de Il Messaggero e Il Corriere della Sera contro il Valle.
Gli attacchi, anche personali, sono ricominciati il 18 settembre scorso
quando il Valle occupato ha presentato la sua fondazione, finanziata con
250 mila euro da cittadini e artisti, risultato della scrittura
collettiva di uno statuto che rende il teatro un «bene comune», in altre
parole un'istituzione dell'auto-governo. Per i quotidiani, invece, il
teatro sarebbe stato «privatizzato» da una «minoranza», un'accusa che
viene formulata contro tutte le occupazioni, e non poteva mancare anche
nel caso di un teatro che è diventato un simbolo. Il punto di vista di
Harvey, frutto dell'assidua frequentazione delle città globali, è utile
per smontare questa campagna politica. Per usare un'espressione cara al
geografo americano, quello del Valle è uno dei sintomi della «lotta di
classe» che si svolge nelle «città ribelli», titolo del suo ultimo libro
pubblicato in Italia da Il Saggiatore (Il Manifesto, 12 settembre).
La
conversazione è avvenuta nel foyer del teatro affollato da centinaia di
persone, durante una pausa del seminario sulle «lotte spaziali». È
stato organizzato dal gruppo di ricerca Oecumene project, insieme al
Valle, e ha visto partecipazione di filosofi, ricercatori, artisti e
attivisti provenienti da tutta Europa. «Stiamo assistendo a una
rivoluzione urbana - continua Harvey - Nelle città ci sono sempre eventi
che spingono le persone ad aggregarsi credendo di poterla cambiare e di
combattere potenti forze politiche e economiche».
Quali sono le ragioni di questa rivoluzione?
Quello
che trovo interessante nelle città contemporanee è l'esistenza di un
enorme numero di spazi pubblici dove il «pubblico» viene negato oppure
regolato in maniera restrittiva. Ad essere negata molto spesso è la
libertà di movimento, la libertà di incontrarsi, di fare un'assemblea.
Avere spazi aperti è molto prezioso per chi vuole riportare tale libertà
nella città ed estenderla ad un progetto politico più ampio che per me
resta la lotta contro il capitalismo e a favore del popolo. Questa è una
costante in molte città dove esistono movimenti simili a quelli che si
vedono a Roma. È un segno che lascia ben sperare.
Lei sostiene che questi movimenti esercitano un «diritto alla città». In cosa consiste?
Il
diritto alla città non significa avere semplicemente il diritto a ciò
che esiste in una città. Riguarda il potere di trasformarla insieme alla
vita delle persone che ci vivono. La maggior parte delle città sono
dominate da poteri economici e finanziari, da signori del denaro che
detengono un enorme potere. Questi movimenti cercano invece di
esercitare un potere in nome di un diritto a una città alternativa,
fondata su buone relazioni sociali, sulla giustizia sociale, su una
società ecologicamente equilibrata e stabile. Accanto a queste
rivendicazioni ne esistono molte altre e sono utili per ricostruire
un'altra immagine della città rispetto a quella tramandata da duecento
anni di storia del capitalismo.
Il capitalismo ha rivoluzionato
l'urbanistica della città. In che modo il neoliberismo, che è stata una
svolta di particolare rilievo in questa storia, l'ha condizionato negli
ultimi trent'anni?
A mio avviso l'urbanizzazione è stata sempre un
progetto di classe. Un progetto che ha concentrato una grande ricchezza e
altrettanto potere nelle mani di élite molto piccole. Queste persone
hanno espropriato la maggioranza della popolazione della capacità di
contribuire alla vita urbana in un modo diverso. Il progetto ha svuotato
in molti modi la città dalla sua libertà, sostituendola con gli
spettacoli, con il turismo, con il consumismo in eccesso rispetto ai
bisogni sociali che non vengono considerati nella maggior parte delle
grandi città nel mondo. In questo modo si è persa l'idea della città
intesa come un organo politico che permette la raccolta di diverse
cittadinanze. Tutto è stato mercificato e messo nelle mani dei calcoli
dei manager. Marx ha detto una volta che il denaro distrugge la comunità
e la trasforma nella comunità del denaro, proprio com'è diventata oggi
la città. Per questo bisogna ripensarne un'altra a partire dalle persone
e non dai profitti.
Lei descrive un «nuovo proletariato» che vive e
lavora nella città. È composto tra l'altro dai precari, dai lavoratori
autonomi, ad esempio. Qual è il suo ruolo nella trasformazione globale
in atto?
Questo proletariato ha un ruolo molto importante e grandi
potenzialità. Il problema semmai è della sinistra che si è sempre
concentrata sull'idea del lavoro fabbrica e sulla centralità della sua
rappresentanza. Da tempo si lamenta della sua scomparsa, anche perché
sente di avere perso il cuore del suo progetto politico. Ma se si viene
in un posto come questo (Il Valle, n.d.r.) e si entra a contatto con
l'attivismo della specie che si vede qui, sono molti gli elementi che
lasciano credere nell'esistenza di un altro progetto politico che
consiste nel rivendicare il diritto alla città, alla sua riorganizzare e
alla sua trasformazione.
Quali le principali caratteristiche di questo progetto politico?
Il
proletariato è sempre stato impegnato nella produzione e nella
riproduzione della vita urbana. Nella sua storia sono emersi diverse
politiche. Antonio Gramsci, ad esempio, ha teorizzato i consigli di
fabbrica. Ma quando si pose il problema di potenziare l'organizzazione
politica, riconobbe la necessità di associarli all'organizzazione dei
quartieri o del vicinato. Questa idea di organizzazione non raccoglie
solo le sezioni della classe operaia, ma può catturare tutte le classi
lavoratrici. Il progetto consiste nel fare cooperare questa diversità
sociale attraverso l'attivismo di prossimità (neighborhood activism) che
oggi include gli impiegati di banca, gli spazzini, i tassisti e tutti
coloro che producono e riproducono la vita. Se riuscissero ad
organizzarsi, si potrebbe bloccare un'intera città.
Come accadde nel
1990 a Los Angeles con «Justice for Janitors» o a Chicago nel 2006 con
lo sciopero dei lavoratori migranti durato un'intera giornata?
Esatto,
proprio così. Se la sinistra seguisse l'idea di Gramsci di organizzarsi
nei luoghi di lavoro come nei quartieri, si creerebbe un potere duale.
Dal punto di vista storico a me interessa capire come e perché le lotte
nelle fabbriche hanno vinto. Quando è accaduto è stato perché avevano
ricevuto l'appoggio dei quartieri. Riorganizzare in questo modo la vita
di chi lavora nei luoghi della produzione con la vita della popolazione
cittadina, sarebbe un cambiamento drammatico per il funzionamento
attuale della politica.
E in che modo cambierebbe?
Dobbiamo
veramente ripensare il modo in cui ricostituire i movimenti politici dal
basso verso l'alto. La vita urbana è la forma centrale dell'attivismo
politico ed è la portatrice di una potenziale rivoluzione. L'obiettivo
non è solo l'accesso ai mezzi di produzione, che è molto importante, ma
anche la conquista dell'accesso alla città. Il soggetto e l'oggetto di
queste azioni restano, a mio avviso, la produzione e la riproduzione
della città. Oggi esistono molte organizzazioni che si propongono di
farlo insieme alle popolazioni. Sono strutture che assumono anche la
forma di sindacati, sebbene usino spesso altre forme.
Quali, ad esempio?
Sono
molte, anche radicali, e si ispirano ai diritti umani. Li usano per
evitare la legislazione che definisce le condizioni per organizzare e
far funzionare un sindacato. Molto spesso queste leggi escludono diverse
categorie di lavoratori, come ad esempio il precariato. Questo accade
in molti paesi. Si tratta di nuove forme organizzate che agiscono come i
sindacati, anche se non sono come i sindacati tradizionali. Credo che
siano il sintomo di un movimento globale in cui politica non riguarda
più il partito politico tradizionale, né il modo classico di fare
sindacato. Un esempio è senz'altro quello del teatro Valle che si è
dotato di una fondazione. Ciò permetterà di creare una nuova istituzione
che esprime un potere diverso nella città. Non credo che qualcuno ci
abbia pensato prima. Avverto l'esistenza di una grande creatività che
sta cambiando davvero le cose.
Quali sono i rischi che corrono questi movimenti?
Nel
mondo anglosassone c'è sempre il pericolo di tornare nel solco dei
modelli dominanti che spingono queste esperienze a diventare
«Organizzazioni non governative» convenzionali oppure fondazioni di
beneficenza. Ma credo che le persone siano molto consapevoli di questo
pericolo, perché sentono di far parte di un movimento di avanguardia che
non mira semplicemente ad essere istituzionalizzato, ma che vuole
cambiare la città.
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