di Gian Arturo Ferrari Corriere 14.10.13
Nei
corridoi semivuoti della Fiera di Francoforte il declino italiano
diventa palpabile. Spazi abbandonati, con rade sedie. Stand — quelli
rimasti — con dimensioni ridotte, in una patetica ostentazione di
parsimonia. Esondazione dei vicini. Turchi proliferanti, di nuovo
conquistatori. Azerbaigiani con imbarazzanti ritratti del loro leader,
identici a quelli di Berlusconi. Islamici e slavi assortiti
tutt'attorno, in un assedio sempre più stretto. Gli altri stanno meglio:
francesi in compagnia di cinesi e giapponesi, inglesi insieme agli
americani, tedeschi — perché padroni di casa, ma soprattutto perché
tedeschi — da soli. A casa nostra gli sguardi un po' febbrili e un po'
fissi di chi pensa solo al taglio dei costi e all'abbassamento dei
prezzi, senza aver ben chiaro che la seconda mossa annulla la prima.
Idee poche, immaginazione e inventiva — quel che si suol stucchevolmente chiamare creatività — ancor meno.
Stanno
male anche gli inglesi, ma per ragioni diverse. Hanno confidato
ciecamente nella grande distribuzione e il canale si è mangiato il
prodotto. A forza di trattare i libri come merendine, vendono solo i
libri che parlano di merendine (o giù di lì). Noi invece diamo
l’impressione di un corridore sfiancato, che si è prodotto in un grande
sforzo, ma che adesso non ce la fa più. E che forse non arriverà mai al
traguardo.
Centocinquant’anni fa, al momento dell’unificazione, piu’
di tre quarti della popolazione italiana era costituito da analfabeti.
Di vera editoria non era proprio il caso di parlare. In una prima fase,
eroica, abbiamo, noi italiani, costruito insieme una scuola e
un’editoria. Tra le due guerre ci siamo dotati anche noi, come i Paesi
europei cui guardavamo, di una grande editoria nazionale. Nel secondo
dopoguerra, singolare caso di made in Italy, abbiamo inventato, noi
italiani, un nuovo modello di editoria, poi copiato e ricopiato da molte
parti. L’ editoria di cultura, miscela di acume e di eleganza, prima
Einaudi e poi Adelphi. Nell’ ultima ventina d’anni abbiamo pensato di
essere arrivati (e in parte ci siamo arrivati davvero) nella prima
categoria dei Paesi del libro. Profitti più che buoni, nascita di un
mercato di massa, una struttura editoriale a gruppi, cioè più
efficiente, l’inizio di una proiezione internazionale.
Ma i primi
venti di crisi hanno abbattuto queste fragili illusioni. Il mercato ha
l’acqua alla gola, i produttori pensano ai loro altri settori di
attività, ancor più vacillanti, gli italiani hanno abbandonato gli
investimenti all’estero e dall’estero nessuno investe in Italia. I
francesi sono in Gran Bretagna, gli spagnoli in Francia, i tedeschi
dovunque, ma gli svedesi in Germania. L’industria libraria — che in
narrativa e saggistica è praticamente tutta a capitale europeo — non ha
più frontiere, tranne che nella negletta Italia.
Le responsabilità
sono, come sempre, di tutti e di nessuno. Sono della mano pubblica, che
ha martoriato una scuola già debole. E non ha saputo creare una platea
di lettori perché non ha mai davvero creduto che leggere libri fosse uno
degli attributi essenziali della cittadinanza moderna. Sono del
privato, che non è mai riuscito a mettere sensatamente insieme
proprietà, management e competenza editoriale. Sono del Paese nel suo
insieme, che non ha mai avuto la capacità di vedere pubblico e privato
come facce della stessa medaglia e li ha lasciati lì a ignorarsi o a
guardarsi in cagnesco.
L’industria culturale non è la cultura e
l’industria libraria è solo una parte dell’industria culturale. Ma
dovrebbe essere chiaro a tutti che nel ventunesimo secolo non si dà
cultura senza industria culturale e che a sua volta l’industria
culturale è una delle poche sicure industrie del futuro. Di quello
italiano, soprattutto. Per questo quel che sta accadendo è davvero
allarmante. Non è il solito piagnisteo perché non siamo arrivati
abbastanza in alto. È il contrario, è il senso di vuoto di chi si
accorge di esser giunto in cima alla parabola e vede di fronte a sé solo
la discesa, non si sa quanto precipitosa. Non c’è un Moody’s o uno
Standard and Poor’s dell’editoria, ma se ci fosse ci avrebbe già
declassato. Culturalmente parlando stiamo per diventare, o forse siamo
già diventati, un Paese di seconda categoria. Non è, forse, una
tragedia. Basta saperlo.
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