Risvolto
Ambizione, capacità di giudizio, carisma, audacia, agilità nel combattimento, buona organizzazione dell'esercito, istinto strategico, volontà di terrorizzare e di lasciare un segno, e infine la divina provvidenza - o semplicemente un po' di fortuna. Ecco le dieci chiavi del successo di un condottiero, ecco cos'hanno in comune Alessandro Magno, Annibale il Cartaginese e Giulio Cesare, simboli di culture differenti, separati da una manciata di secoli l'uno dall'altro, tutti e tre legati a un mito antico, il mito dello statista-soldato. In una narrazione basata su rigorosi fatti storici ma anche su aneddoti e dettagli che compongono un mosaico colorato e vario, Barry Strauss ci fa assistere alla nascita e al declino di tre uomini uniti dal comune dono di saper ispirare, plasmare, comandare. Tre generali, tre battaglie e un solo disegno: una vita totalmente dedita al combattimento. Tre geni del comando, né buoni né cattivi, semplicemente grandi.
Ambizione, capacità di giudizio, carisma, audacia, agilità nel combattimento, buona organizzazione dell'esercito, istinto strategico, volontà di terrorizzare e di lasciare un segno, e infine la divina provvidenza - o semplicemente un po' di fortuna. Ecco le dieci chiavi del successo di un condottiero, ecco cos'hanno in comune Alessandro Magno, Annibale il Cartaginese e Giulio Cesare, simboli di culture differenti, separati da una manciata di secoli l'uno dall'altro, tutti e tre legati a un mito antico, il mito dello statista-soldato. In una narrazione basata su rigorosi fatti storici ma anche su aneddoti e dettagli che compongono un mosaico colorato e vario, Barry Strauss ci fa assistere alla nascita e al declino di tre uomini uniti dal comune dono di saper ispirare, plasmare, comandare. Tre generali, tre battaglie e un solo disegno: una vita totalmente dedita al combattimento. Tre geni del comando, né buoni né cattivi, semplicemente grandi.
Annibale, guerriero perfetto ma eroe delle cause perse
Umiliò i Romani, poi Cartagine lo tradì negandogli i rinforzi
di Paolo Mieli Corriere 30.9.13
Polibio
ne lodò esplicitamente «il modo di esercitare il comando, il valore e
la forza sul campo». Napoleone Bonaparte ne esaltò la grandezza e lo
collocò sullo stesso piano di Alessandro Magno e Giulio Cesare. Sigmund
Freud, fin da giovane, ne scrisse con ammirazione, idealizzandolo come
un «semita» che aveva avuto il coraggio di sfidare Roma. Nel 1934, il
presidente turco Mustafa Kemal Ataturk gli dedicò un panegirico a
Libissa, luogo in cui 2117 anni prima il comandante cartaginese si era
dato la morte con il veleno per non essere catturato dai romani.
Panegirico che doveva suonare a monito nei confronti di Benito
Mussolini, il quale si proponeva come restauratore dei fasti di
quell'antica Roma che, pur dopo essere stata da lui umiliata, alla fine
era riuscita a sconfiggere il generale africano. In anni recenti gli
afroamericani lo hanno considerato il grande eroe nero dell'antichità
(anche se probabilmente non era di pelle scura). Adesso, in un libro che
sta per essere pubblicato da Laterza, L'arte del comando (nella
convincente traduzione di Giuliana Scudder), Barry Strauss sostiene che,
per certi versi, il grande generale cartaginese superò Alessandro e
Cesare. «Probabilmente», scrive, «fu Annibale il più grande comandante,
sia in combattimento sia sul campo... Con la battaglia di Canne realizzò
uno degli esempi di accerchiamento più eleganti e distruttivi che gli
annali della storia militare ricordino». Si può dire che fu «l'eroe
della cause perdute e delle battaglie perfette».
Come Alessandro
con Filippo II, Annibale aveva appreso l'arte militare dal padre:
Amilcare Barca. Quando attaccò Roma aveva 29 anni e da 20 non aveva più
messo piede a Cartagine. A fianco del padre, in Spagna, aveva fatto sua
l'«abilità del sorprendere». Quando varcò le Alpi, portando con sé gli
elefanti, «lasciò il nemico a bocca aperta». Accerchiò i romani «con una
serie di stratagemmi inauditi»: riuscì «a forzare le porte di una città
inespugnabile»; caricò il nemico con la cavalleria da un nascondiglio
alle sue spalle; in una notte riuscì a portare in salvo il suo esercito
sotto il naso dei romani. Non ebbe remore di carattere umanitario: la
prima cosa che fece, quando nel 218 a.C. giunse in Italia, fu massacrare
gli abitanti di Torino per spezzare la resistenza nell'area
circostante; e quando 15 anni dopo, nel 203 a.C., lasciò l'Italia,
uccise gli italici che si rifiutavano di seguirlo. Ugualmente crudeli,
del resto, furono gli altri due condottieri: Alessandro rase al suolo
Persepoli con una dose non necessaria di sadismo; Cesare, scrive
Plutarco, sterminò in Gallia un milione di persone (e ne ridusse in
schiavitù altrettante).
Roma controllava i mari e i porti vitali
della Sicilia e della Sardegna. Così Annibale, non potendo cercare
rifornimento nei porti delle due isole, fu costretto a compiere un
viaggio di 1.600 chilometri, dalla Spagna meridionale all'Italia
settentrionale. A quei tempi Roma aveva a disposizione un esercito
potenziale di 760 mila uomini, Annibale di 60 mila, che si sarebbero
ridotti a 26 mila dopo l'attraversamento delle Alpi. La sua arma
principale, oltre a quella di colpire il nemico a sorpresa, era (avrebbe
dovuto essere) quella di provocare defezioni nel campo degli alleati di
Roma. Ci riuscì davvero e fino in fondo solo con i celti. In ogni caso
comunicava agli italici di essere sulle loro terre non come
conquistatore, ma come liberatore e, dopo ogni vittoria, riduceva in
schiavitù i romani, ma liberava tutti i prigionieri italici.
Annibale,
a detta di Strauss, «impersonò la figura del vendicatore e del
liberatore e trovò la via per avvicinarsi agli dei». A Cartagine promise
di restituire l'onore perduto a causa dell'antica sconfitta subita da
Roma nella Prima guerra punica; agli italici disse che avrebbe loro
restituito «la libertà dalla dominazione romana» (anche se Cartagine,
diffidente nei confronti della famiglia Barca, nel momento decisivo gli
lesinò gli aiuti). Affermò, Annibale, di essere protetto dal dio
cartaginese Melqart, da Ercole e si descrisse come un eroe tratto dalla
mitologia celtica. Ma, precisa Strauss, «a differenza di Alessandro non
dichiarò mai di essere un dio, e si limitò ad affermare di essere sotto
la protezione divina». Per questo «il fascino che Annibale esercita sui
diseredati ha radici solide». Nessuno stratega «è riuscito a realizzare
una invasione così rischiosa come la marcia di Annibale attraverso i
Pirenei, il Reno e le Alpi fino in Italia; nessun comandante ha ottenuto
una vittoria tattica così definitiva come quella di Annibale a Canne...
Nessuno ha saputo riorganizzare con tanta fermezza i popoli invasi come
lui quando entrò in Italia al grido "l'Italia agli Italici"». Dopo
«aver sfidato un impero arrogante e averlo scosso fino alle radici,
perse tutto; ma conservò la propria dignità; nella sconfitta reinventò
se stesso come amministratore, ricominciò la lotta contro Roma in
Oriente, e rifiutò l'umiliazione di una marcia trionfale del nemico…
Morì da sconfitto, ma non piegato».
Tito Livio definì il conflitto
che oppose Annibale a Roma (218-201 a.C.) «la più memorabile di tutte
le guerre che vennero mai combattute». «A mio parere», ha scritto Werner
Huss in Cartagine (Il Mulino), «i romani non potevano accampare nessuna
valida ragione di diritto internazionale quando nel 218 a.C. entrarono
nella guerra che doveva decidere dell'egemonia nell'area del
Mediterraneo occidentale». Questo semplice fatto «fu però messo in ombra
dalle affermazioni dei politici e storici romani, che da un lato
ritennero politicamente inopportuno dire la nuda verità, dall'altro
erano intimamente convinti che ogni guerra combattuta da Roma fosse una
"guerra legittima"». Se i romani, prima dello scoppio della guerra, si
videro costretti ad agire in base a un pretesto giuridico — il presunto
obbligo di alleanza nei confronti della città iberica di Sagunto, cuneo
romano nella Spagna cartaginese, espugnata da Annibale nel 219 a.C. —
questo, secondo Huss, «non solo dimostra che erano consapevoli della
illegittimità della loro azione, ma lascia anche pensare che si
rendessero pienamente conto della grande importanza della loro
decisione».
Se poi dobbiamo accettare la massima napoleonica
secondo cui «in guerra non sono gli uomini ma l'uomo che conta», ha
scritto Basil H. Liddell Hart in Scipione Africano (Bur), «il fatto più
significativo è che Alessandro e Cesare ebbero il terreno spianato dalla
debolezza e dall'ignoranza dei comandanti che li contrastarono».
Annibale, no. Solo Annibale («al pari di Scipione») combatté
regolarmente contro generali esperti. Però, prosegue Liddell Hart, «le
sue tre vittorie decisive — Trebbia, Trasimeno e Canne — vennero
riportate su generali non solo ostinati e precipitosi, ma anche
scioccamente refrattari a qualsiasi tattica che contasse sull'astuzia
piuttosto che sul puro e semplice impiego della forza bruta». Annibale
ne era consapevole, tant'è che alla vigilia della battaglia della
Trebbia, esaltando l'attitudine a individuare le opportunità e la
prontezza nel coglierle, avvertì i suoi: «Avete a che fare con un nemico
ignaro di queste arti della guerra». Barry Strauss lo descrive invece
come un generale senza scrupoli che «con una élite esperta e un piccolo
esercito riesce a mettere fuori combattimento un gigante d'argilla»:
tipo Hernán Cortés, che nel 1519 con appena seicento uomini affrontò gli
aztechi e nel 1521 avrebbe conquistato l'intero Messico.
Già
Pirro, re dell'Epiro, nel 280 a.C. aveva invaso l'Italia meridionale e
aveva quasi piegato Roma. Generale dotato dello stesso carisma di
Annibale, scrive Strauss, «anche Pirro aveva un esercito piccolo ma
esperto, completo di cavalleria e di elefanti... Al contrario di
Annibale, aveva anche numerosi alleati italici». Vinse due importanti
battaglie campali contro Roma, ma subì perdite talmente gravi che le
vittorie si trasformarono in sconfitte: Roma rifiutò di arrendersi,
riguadagnò gli alleati che fornirono nuove truppe e ottenne l'appoggio
di Cartagine, timorosa che Pirro potesse invadere la Sicilia. Così,
cinque anni dopo, nel 275 a.C., il re dell'Epiro fu costretto a
tornarsene a casa a mani vuote.
Annibale, passate le Alpi, dove,
come si è detto, aveva perso oltre la metà del suo esercito, anziché
fermarsi a riprendere fiato, come tutti si aspettavano, inflisse due
terribili sconfitte ai romani: sul Ticino, dove umiliò Scipione, padre
di quello che sarebbe divenuto l'Africano, e sulla Trebbia, dove circa
28 mila uomini (due terzi dell'esercito di Roma) furono uccisi o presi
prigionieri. Qui Tito Sempronio Longo non ebbe il coraggio di dire a
Roma la verità circa l'accaduto e raccontò che una tempesta «aveva
ostacolato la vittoria». Nel 217 a.C., l'anno successivo a quello del
passaggio delle Alpi, Annibale attraversò gli Appennini e si impantanò
nelle paludi dell'Arno, un luogo acquitrinoso, che causò notevoli
perdite alle armate cartaginesi. Ma anche stavolta non si perse d'animo e
inflisse ai romani un nuovo scacco sulle rive del Trasimeno. Tra
uccisi, feriti o catturati, altri 30 mila romani furono fatti fuori,
mentre l'esercito di Annibale subì la perdita di 1.500 uomini,
prevalentemente celti. Qui si pone per la prima volta la questione di
Maarbale, il valoroso generale cartaginese che, secondo gli approfonditi
studi di Dexter Hoyos, già allora avrebbe fatto pressione per attaccare
immediatamente Roma, che dista appena 137 chilometri dal luogo della
battaglia e che in quel momento era difesa da non più di 10 mila militi.
Ma Annibale sceglie di aggirare la città nemica per dirigersi verso
sud, in cerca di nuovi alleati e di una ricompensa per le sue truppe. E
gli storici sono pressoché unanimi nel giudicarla una buona scelta.
Roma
a questo punto corre ai ripari affidandosi a un dittatore: Quinto Fabio
Massimo, grande esperto nell'arte di temporeggiare, non attaccare
frontalmente l'avversario (limitandosi a infastidirlo con azioni di
guerriglia). Il suo piano, secondo Plutarco, era di «mandare piuttosto
soccorso agli alleati, perché, conservando essi le loro città,
logorassero le forze di Annibale come fiamma che brucia alimentata da
scarsa e leggera materia». Si discute ancora, ha scritto Fabio Mini in
Eroi della guerra. Storie di uomini d'arme e di valore (Il Mulino), se
il Temporeggiatore avesse trovato «una tattica asimmetrica» o fosse
soltanto «un inetto che si accontentava di sopravvivere». Di certo «era
più attento al clima politico del Senato che alla ricerca dello scontro
con Annibale, il quale poté continuare a muoversi con relativa
facilità». Annibale, ha proseguito Fabio Mini, «comprese che la
strategia indiretta del sollevamento locale contro Roma non dava i
frutti sperati e i romani mantennero il controllo del territorio». Ma
«anch'essi erano vicini al collasso psicologico». Tra l'altro, scrive
Strauss, la cultura romana amava l'offensiva e disprezzava la strategia
difensiva, i soldati scalpitavano per la passività del loro comandante e
il popolo di Roma gli diede lo spregiativo nomignolo di «servo di
Annibale». A compensare, parzialmente, questa inattività romana, arriva
la notizia della splendida vittoria navale alla foce dell'Ebro e di
altre prodezze terrestri di un altro Scipione a danno di Asdrubale,
fratello di Annibale, da lui lasciato a presidio della Spagna.
A
fine 217 a.C. il Temporeggiatore lascia l'incarico, viene sostituito da
due consoli e il 2 agosto dell'anno successivo Roma perderà in un giorno
tante persone quante il Giappone oltre duemila anni dopo a Hiroshima.
Stiamo parlando della battaglia di Canne, dove i romani, pur disponendo
del doppio di uomini dei loro nemici, furono travolti da Annibale, che
ne uccise 48 mila e ne fece prigionieri altri 20 mila (il 75 per cento
del loro esercito). I nuovi consoli, Gaio Terenzio Varrone e Lucio
Emilio Paolo, avevano deciso di farla finita con le tattiche di Quinto
Fabio Massimo e di cercare, perciò, lo scontro. Comandavano, però, a
giorni alterni: Paolo, il più prudente, decise il 1° agosto di non
rischiare; Varrone, il giorno successivo, attaccò e per Roma fu la fine.
O quasi. Annibale accerchiò e travolse i romani con un modulo di
battaglia che sarebbe stato studiato nei secoli: nel 1905 la strategia
cartaginese ispirò il piano del generale tedesco Alfred Graf von
Schlieffen, ma nel 1914 l'esercito della Germania imperiale non riuscì
ad applicarlo e a ripetere l'impresa a danno dei francesi. Per Roma
l'agosto del 216 a.C. a Canne fu un ricordo terribile: «L'elenco dei
morti era un "chi è" della élite romana: vi appartenevano 80 senatori o
persone eleggibili come membri del Senato, 29 tribuni militari, numerosi
ex consoli e il console Paolo, uno dei comandanti dell'esercito
romano», nota Strauss. Sopravvisse Publio Cornelio Scipione, che trovò
rifugio a Canosa. E qui torna in scena per la seconda volta Maarbale,
che suggerisce ad Annibale di puntare dritto su Roma. Nel giro di cinque
giorni, gli diceva, avrebbe potuto cenare sul Campidoglio. Si offrì di
andare avanti lui e di affrontare la parte più impegnativa della
battaglia. Ma Annibale gli rispose di no. Al che Maarbale, secondo Tito
Livio, gli avrebbe detto: «Evidentemente gli dei non hanno concesso
tutti i doni a uno stesso uomo: tu, Annibale, sai vincere, ma non sai
approfittare della vittoria». Il grande condottiero cartaginese, però,
non si lasciò persuadere. Pretendeva, prima di impegnarsi nello scontro
decisivo, di avere una migliore disposizione sul campo delle alleanze. A
questo punto Strauss si domanda se Maarbale avesse ragione e, a
differenza di quasi tutti gli storici che si sono occupati delle guerre
puniche, conclude che difficilmente, con la strategia d'attacco
suggeritagli dal proprio braccio destro, il comandante cartaginese
avrebbe costretto Roma alla resa. Forse avrebbe dovuto attaccare Canosa,
per dare un ulteriore colpo all'esercito nemico in rotta e togliere di
mezzo l'uomo che lo avrebbe sconfitto, il giovane Scipione (questo però
Annibale non lo poteva immaginare).
Dopo Canne, in ogni caso, la
maggior parte dell'Italia meridionale (ma non di quella centrale) passò
con Annibale e così anche Filippo V di Macedonia. Il condottiero
africano promise che non avrebbe arruolato i loro uomini: gli era
sufficiente che non fossero più a disposizione di Roma. Ma, in un acuto
saggio dedicato a questa vicenda, Siegmund Ginzberg ha fatto notare come
fosse di fatto impossibile mandare in frantumi l'intelaiatura di
rapporti creata dai romani. E ha condiviso la tesi centrale del celebre
libro di Robert O'Connell, The Ghost of Cannae (Random House): «Annibale
analizzava la struttura delle alleanze di Roma come se studiasse una
radiografia ai raggi X, vedeva le strutture ossee; invece avrebbe avuto
bisogno di una risonanza magnetica, che gli mostrasse il tessuto
connettivo fatto dalle relazioni personali che Roma era riuscita a
stabilire tra i membri del proprio gruppo dirigente e quelli dei gruppi
dirigenti degli alleati, nonché i rapporti di clientela... Era proprio
quello l'elemento che teneva insieme l'alleanza romana; Annibale non
riuscì mai a cogliere fino in fondo quanto fosse forte, quindi non
riuscì a spezzarla del tutto, anche dopo aver vinto una battaglia dietro
l'altra».
Ma torniamo al dopo Canne. La città più importante che
passa dalla sua parte è Capua e lì stabilisce il suo quartier generale.
Annibale, ricostruisce poi Fabio Mini, «girovaga per l'Italia
meridionale. Sosta, ozia, attacca, si lascia invischiare nelle
meschinità locali. Dalla Campania organizza una spedizione, attraversa
il Sannio e punta su Roma. Arriva a tre chilometri dalla città e si
ferma. Non ha le forze per distruggerla, né per piegarla; combattendo
sotto le sue mura costituirebbe un obiettivo per tutte le legioni romane
e gli alleati, sa di non avere il controllo delle linee di rifornimento
e non è sicuro del supporto di Cartagine in mano ai politicanti».
Preferisce tornare in Apulia, sconfigge i romani a Oderno e a Locri, ma
quelli riescono a riprendere il controllo del Sannio e della Campania.
In
merito a tali circostanze, Barry Strauss rende esplicito omaggio al
fondamentale volume di Michael Fronda, Between Rome and Carthage.
Southern Italy during the Second Punic War (Cambridge University Press),
nel quale è ben argomentata la tesi secondo cui, avendo Roma un numero
pressoché illimitato di soldati (Polibio ne calcolava circa 800 mila,
comprendendo quelli «prestati» dalle città italiche), l'unica iniziativa
di Annibale che avesse senso strategico era quella di sottrarle il
maggior numero possibile di alleati e con questi alleati la metà degli
uomini in armi su cui avrebbe potuto contare. Cioè quello che provò a
fare. Inviando suo fratello Magone a Cartagine, nel 215 a.C., con un
cesto di anelli d'oro sottratti ai nobili romani uccisi o fatti
prigionieri a Canne, per chiedere un aiuto che il Senato della città
concesse malvolentieri. Roma a questo punto riuscì con un assedio di due
anni, dal 213 al 211 a.C., a riconquistare Siracusa, che era passata
con Cartagine (nella battaglia fu ucciso il grande matematico Archimede,
il quale si era messo a disposizione della difesa della città) e la
Sardegna. Poi attaccò Nuova Cartagine in Spagna. E sfondò nella penisola
iberica. Annibale, scrive Strauss, non aveva tenuto conto di una
fondamentale legge di guerra: se invadete un Paese, non permettete che,
per rivalsa, questo invada il vostro.
Qui entra in scena Publio
Cornelio Scipione, che sarà detto l'Africano. È nato nel 235, ha 12 anni
meno di Annibale, contro il quale ha combattuto, diciassettenne, a
fianco del proprio padre nella battaglia del Ticino: padre che sarà
ferito e che lui stesso trarrà in salvo con un'azione davvero eroica.
Mentre Annibale è in Italia, travolge i romani e conosce successo dopo
successo, Scipione si fa nominare proconsole per la Spagna e riesce a
riconquistare la penisola iberica. Forte di questa impresa, si propone
di attaccare Cartagine, costringendo in questo modo Annibale a tornare
in Africa per difendere la sua città. Ma il Senato lo osteggia, Quinto
Fabio ironizza sulla sua giovane età e, scrive Fabio Mini, «allude al
fatto che si tratti di una sua manovra per avere gloria lontano da dove è
il pericolo, cioè Roma». Quinto Fabio, secondo Mini, attribuisce a
Scipione «un vizio comune a quel tempo come oggi, un vizio di cui lui
stesso era esempio vivente»: le armate «sono reclutate per la protezione
della città, non per i consoli che, come sovrani, le portino per il
mondo ove loro aggrada per motivi di vanità personale». La risposta di
Scipione è caustica: «Affronto il nemico che voi mi assegnate, ma voglio
essere io a trascinarlo dietro a me piuttosto che sia lui a
trattenermi... Chi porta il pericolo su di un altro ha più spirito di
chi deve respingerlo, il terrore si moltiplica con la sorpresa e
l'inaspettato… purché non sorgano impedimenti, qui presto sentirete che
in Africa è scoppiata una guerra e che Annibale sta lasciando l'Italia».
Il Senato, «in un costume sopravvissuto fino ad oggi in molte parti del
mondo» (Mini), se la cava con un marchingegno, nominando Scipione
console in Sicilia, così che sia lui nella sua autonomia a prendersi la
responsabilità di attaccare Cartagine. E Scipione se la prende.
Scacciati
i cartaginesi dalla Spagna, sconfitto Asdrubale nella battaglia di
Becula (208 a.C.), si fa eleggere console (205 a.C.), mette insieme un
suo esercito personale il cui nerbo è composto da sopravvissuti di Canne
e sbarca in Africa (204 a.C.). Qui si allea con Massinissa e riesce a
spezzare l'alleanza di Cartagine con la Numidia. I cartaginesi provano a
trattare la pace con Roma, poi inviano (inutilmente) Magone in Italia a
soccorrere Annibale, infine nel 203 a.C. richiamano lo stesso Annibale
in patria. Il comandate non rientra in città, si accampa anzi a 120
chilometri, nei pressi del porto di Adrumeto. E mentre si prepara allo
scontro decisivo, capisce di essere spacciato. Strauss ipotizza che se,
come lo esortava a fare il Senato di Cartagine, avesse attaccato prima,
quando ancora Massinissa non si era ricongiunto a Scipione, forse... Ma
poi lui stesso ammette che Scipione non avrebbe accettato il confronto
militare fino a quando non si fosse congiunto alla cavalleria dei
numidi. Perciò a quel punto non c'era via d'uscita.
Prima della
battaglia di Zama (202 a.C.), Annibale a sorpresa chiede di incontrare
Scipione. «I resoconti di questo colloquio», scrive Liddell Hart,
«devono essere considerati importanti solo nelle loro linee generali e
pertanto — anche a causa delle lievi divergenze tra le varie fonti —
sarebbe più conveniente parafrasarli, ad eccezione di alcune delle frasi
più pregnanti». Il tema principale su cui si sofferma Annibale è
«l'incostanza della fortuna». Annibale sa che perderà e così si rivolge
al suo giovane interlocutore: «Quello che io fui al Trasimeno e a Canne,
quello sei tu oggi... Adesso sono qui in Africa, ridotto a dover
discutere con te, che sei romano, della salvezza mia e di quella dei
cartaginesi; proprio in considerazione di questo io ti consiglio di non
essere superbo». Dopodiché elenca condizioni di pace a tal punto
favorevoli a Cartagine che per Scipione è facile respingerle. Perché
allora aveva voluto quell'incontro? Secondo Strauss, Annibale aveva
intuito che anche Scipione aveva problemi con il suo governo e quello
era un modo di suggerirgli che «c'era tra loro molto in comune, che
erano avversari non nemici e potevano essere utili l'uno all'altro,
comunque fossero andate le cose... Il perdente poteva ottenere clemenza e
il vincitore avrebbe saputo di avere nel campo avverso un uomo che
rispettava». Dopodiché Zama fu una Canne capovolta: i cartaginesi
persero 20 mila uomini e altrettanti ne furono fatti prigionieri; i
morti di Scipione furono 1.500. La sua vittoria fu schiacciante.
Ma
Scipione, probabilmente anche a seguito del colloquio di cui si è
detto, si oppose a che Annibale fosse portato a Roma in catene. Anzi,
consentì che mantenesse ruoli pubblici nella sua città. E qui accade
qualcosa a cui Strauss dedica grande attenzione. Tornato al potere nel
196 a.C., Annibale ritenne che il compito più urgente fosse quello di
riordinare le finanze dissestate. Ci provò e ci riuscì. Ma, nota Werner
Huss, entrò in conflitto con il «ministro delle finanze», che
apparteneva al partito aristocratico. Propose anche una riforma molto
ardita, che ridimensionava il Consiglio dei Centoquattro, organo supremo
della politica cartaginese, e fu a quel punto che i suoi nemici
interni, «senza alcun ritegno», lo indicarono ai romani come se fosse
tornato ad essere pericoloso.
In realtà stava solo diventando un
uomo politico di grande peso. È quello che Barry Strauss definisce il
«paradosso di Annibale»: nel momento stesso «in cui si spegnevano i suoi
sogni di gloria militare, si svelava la sua capacità politica». «Quando
aveva stabilito un rapporto con Scipione, aveva fatto probabilmente
l'unica cosa che poteva fare per salvarsi dall'esilio e dalla morte... A
quel punto cominciò a reinventarsi come statista e riformatore, facendo
per Cartagine quel che Cesare avrebbe fatto per Roma, e anche di più».
Ma, scrive Huss, i romani — nonostante Publio Cornelio Scipione Africano
si battesse in sua difesa e gli desse fiducia — inviarono a Cartagine
una missione per fare chiarezza su questa nuova situazione (anche se lo
scopo ufficiale degli emissari era quello di dirimere una vertenza sui
confini tra Cartagine e Massinissa). Ovvio, afferma Strauss, «dopo
Annibale, Roma non si sarebbe più fidata davvero di Cartagine e avrebbe
finito col vendicarsi di Canne in un modo tale da far sembrare quel
massacro una lotta a cuscinate».
Annibale capì l'antifona e fuggì a
Efeso, alla corte di Antioco. Era l'anno 195 a.C. e da quel momento
avrebbe girovagato, ma non avrebbe mai più rimesso piede a Cartagine.
Dopo la sua fuga, i romani gli diedero la caccia e nel 183 a.C., quando
stava per essere catturato, Annibale si uccise, a Libissa nei pressi di
Istanbul, il luogo in cui — come si è detto all'inizio — lo avrebbe
celebrato Ataturk. Quanto a Cartagine, divenuta anche per merito di
Annibale di nuovo fiorente e prospera, cinquant'anni dopo (146 a.C.) i
romani, che non se ne fidavano, l'avrebbero rasa al suolo in maniera
definitiva. E trascorsi cento anni, nel 46 a.C. Giulio Cesare l'avrebbe
rifondata come colonia romana, popolata da abitanti che provenivano
dall'Italia. Ma da quel momento per Cartagine fu tutta un'altra storia.
Secondo
Strauss gran parte della responsabilità per il fallimento dell'impresa
di Annibale ricade sul governo cartaginese, che nel 215 a.C. aveva
rifiutato di inviargli i rinforzi richiesti. Ma anche lui, dopo la
sconfitta di Asdrubale in Spagna nel 207 a.C., avrebbe dovuto capire che
la sua avventura in Italia non aveva più alcuna possibilità di successo
e non doveva restare lontano dall'Africa altri quattro anni. Nessuno
come lui seppe tenere in pugno i propri soldati che, a differenza di
quelli di Cesare e di Alessandro, mai si ammutinarono. Il suo principale
difetto era che «non sapeva, al contrario di Cesare, immaginare il
futuro». Poi, per paradossale che possa apparire, tutta la sua vita e in
particolare la parte conclusiva dimostra che, a differenza di
Alessandro, «fu un ottimo amministratore, ma non un buon conquistatore».
I conquistatori, afferma Strauss, «continuano ad andare avanti finché
loro e i loro uomini cadono esausti o morti; gli uomini di Stato sanno
quando è il momento di fermarsi». Ma è difficile possedere entrambe le
doti. Ha scritto Winston Churchill: «Quelli che sanno vincere una
guerra, raramente sanno stabilire una buona pace, e quelli che hanno
saputo fare una buona pace, non avrebbero mai vinto la guerra». Annibale
avrebbe potuto essere l'unica eccezione nella storia.
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