Emanuele Macaluso: Comunisti e riformisti. Togliatti e la via italiana al socialismo, Feltrinelli
Quando Togliatti torna in Italia nel 1944 si tratta di impostare una nuova strategia per il Partito comunista italiano: lo attendono le sfide della Resistenza e della Liberazione e, forse altrettanto difficili, quelle della Costituente e delle prime elezioni. Ancora oggi il dibattito tra gli storici è vivo: il Pci fu nell'Italia del dopoguerra una forza che voleva rovesciare il sistema, che si adeguava al sistema pur opponendolo o che accettava fino in fondo la sua appartenenza a esso? Per molti, che ricordano bene il famoso fattore "K" di Alberto Ronchey, non ci sono dubbi sul fatto che il Pci non poteva né avrebbe mai potuto essere un partito di governo pienamente integrato nel tessuto istituzionale italiano. Emanuele Macaluso non intende, tuttavia, accettare senza discussione luoghi comuni sulla strategia di Togliatti e del Pci e con questo libro sottopone la questione a un'analisi che incrocia la ricostruzione storica con la consapevolezza di ciò che è venuto dopo è dopo la caduta del Muro di Berlino, dopo la dissoluzione del Pci, dopo che un ex dirigente comunista è diventato capo di governo - fino all'attuale crisi della sinistra. Con una idea di fondo, che non mancherà di far discutere: la cosiddetta "doppiezza" di Togliatti era il frutto di un'attenta strategia politica, che resta viva e coerente fino a Berlinguer e che avrebbe potuto portare all'unità della sinistra, anziché alla sua frammentazione.
Togliatti e la lunga battaglia contro i massimalisti
L’affondo su Zagrebelsky Nel suo lavoro Macaluso approfondisce il tema della spinta modernizzatrice del Pci, in polemica con la «fobia antitogliattiana» di certa storiografia
«La Costituzione fu opera dei social comunisti e della Dc. Togliatti svolse un ruolo determinante»di Michele Prospero l’Unità 13.10.13
Emanuele Macaluso mette insieme in questo suo libro dedicato a Togliatti (Comunisti e riformisti, Feltrinelli pagg. 138, euro 14,00) le sue due caratteristiche che lo rendono apprezzabile come acuto saggista politico: una ricca documentazione sul dibattito interno al Pci e una forte passione ideale che lo induce ad una battaglia culturale esplicita, non reticente.
La rilettura di alcuni testi classici di Togliatti, e la consultazione dei verbali delle direzioni del Pci, lo confermano nella sua ipotesi di fondo: c’è stato un ossimoro fecondo, cioè un «comunismo riformista» che ha svolto una grande opera nel consolidamento democratico dell’Italia. Le qualità ermeneutiche di Macaluso hanno buon gioco nel rintuzzare «la fobia antitogliattiana» che pervade una certa storiografia socialista, incapace di cogliere il nucleo fertile di un realismo politico come quello del Migliore e la spinta modernizzatrice del Pci, formazione democratica e tutt’altro che antisistema.
Il bilancio che Macaluso trae della esperienza comunista nella storia repubblicana è nitido: «La doppiezza non era del Pci, ma piuttosto nel Pci». E il Togliatti più innovativo, che non merita l’oblio, è per lui quello in azione nel triennio magico 1944-1947 e quello che aggiorna le sue mappe concettuali nel corso del biennio che precede la morte. E cioè il leader che progetta l’innesto di Costituzione, pace religiosa e strategia dei diritti, che disegna un ponte tra l’idea di trasformazione degli assetti di potere e la cultura di governo.
Su queste basi solide il Pci, con sensibilità interne diverse e anche tra loro configgenti in merito al ruolo di governo, che è stato sciolto con grande ritardo, ha contenuto le spinte più radicali e svolto una delicata funzione di integrazione delle masse nello Stato.
L’«OLTRISMO» OCCHETTIANO
I guai devastanti della sinistra, e i germi della dissoluzione della repubblica, cominciano proprio quando il Pci con Occhetto archivia il formidabile canone politico togliattiano (e berlingueriano, essendo il compromesso storico nel solco del partito nuovo) e insegue un «oltre» abbagliato dalle generiche sirene della completa discontinuità rispetto alla tradizione. A Enrico Morando, che lo accusa di continuismo, Macaluso rammenta con un giusto puntiglio: «Le teste che pensano al nuovo, anzi al nuovissimo, trovano il vecchio, anzi il vecchissimo».
È proprio così. Come surrogato di una identità non più ridefinita in nome dell’ebbrezza del nuovo, compare infatti un «massimalismo giustizialista» che scambia le procure per i palazzi d’Inverno finalmente conquistati alla sacra causa.
Nella «epoca dei rottamatori» e dei «masanielli in toga», figure che proprio non ama, Macaluso rivendica il ruolo, i simboli, i soggetti di una grande tradizione. Nel Pantheon della repubblica «piaccia o meno, c’è il Partito comunista italiano e c’è Palmiro Togliatti». Per questo il libro si conclude con un duro affondo contro i giustizialisti che si appropriano in maniera maldestra della difesa della Costituzione per consumare una sorta di vendetta postuma degli azionisti sul movimento del social-comunismo italiano.
L’AFFONDO SU ZAGREBELSKY
Con uno sferzante affondo, Macaluso ricorda a Gustavo Zagrebelsky, segnalato quale esponente che meglio incarna nel dibattito pubblico odierno i valori dell’antico azionismo, che con la sua difesa intransigente della Carta (contro il mulino a vento di suoi presunti nemici annidati tra i Custodi) sta compiendo una sorta di appropriazione indebita poiché «la Costituzione fu essenzialmente opera dei social comunisti e della Dc. Togliatti svolse un ruolo determinante».
Per uscire dalla crisi italiana, per combattere la spirale del declino di un mondo che riduce tutto alla forma della merce, anche la vita delle persone, Macaluso osserva che «serve un gran-
de partito, con una comune base politico-culturale, una comune visione della società». L’innovazione politico-culturale, necessaria dopo l’usura delle culture che nel Novecento pensavano nei termini di una imminente transizione al socialismo, non può portare alla rimozione delle categorie politiche della sinistra, tutte quante rimosse come arnesi di una officina in disuso.
Macaluso ricorda che la Spd, anche dopo Bad Godesberg, svolge i suoi congressi «con tanti drappi rossi, con tante foto di Marx». L’innovazione politica, di sicuro necessaria dopo le repliche tracciate nella storia del Novecento, non può autorizzare la totale rimozione di un pensiero critico. Solo con una identità ben definita si può sconfiggere il massimalismo di oggi, che ha le maschere inquietanti dell’antipolitica, del nuovismo e del giustizialismo.
Ancora una volta ascoltando Togliatti
di Mario Pirani Repubblica 16.10.13
LA STORIA del Pci e del suo principale leader, Palmiro Togliatti, ha dato spunto a numerosissime pubblicazioni, saggi, studi di varia dimensione e natura. Tra tutte una collocazione particolare spetta alle memorie che seguitano ad uscire dei pochi superstiti ancora in vita della generazione dei “vecchi compagni”, di quanti gettarono le basi del movimento di resistenza, di coloro che vissero la militanza antifascista, la lotta contro la dittatura o la tragedia dello stalinismo. Poche tra loro si assomigliano, soprattutto quando i fatti sono soverchiati dal confronto non di rado segnato dal sangue che per decenni accese e stravolse il dibattito ideologico, simile a un fiume carsico destinato a tornare e ritornare. Molti hanno voluto raccontare la storia del “proprio Pci”, quasi come una testimonianza di verità, la cui versione, peraltro, raramente collima con quella del compagno di vicissitudini, parte intrinseca del più drammatico certame politico del secolo scorso, intriso di verità che si contraddicono, di menzogne che si smentiscono, di interpretazioni che sorprendono. Di qui l’interesse per il saggio, appena pubblicato da Feltrinelli, Comunisti e riformisti. Togliatti e la via italiana al socialismo dato alle stampe da Emanuele Macaluso, figura di primo piano dell’apparato comunista, da annoverarsi, almeno in quest’ultimo scorcio biografico, tra gli esponenti della stagione amendoliana. Naturalmente né voglio né posso riassumere uno scritto così ricco di spunti e di interrogativi di cui mi limiterò a citare i più pregnanti. Partiamo da un quesito di fondo: il Pci era un partito antisistema o del sistema? Nel porci questo tema cruciale – sul fattore K – ancora ci chiediamo se esso fu strumentale, cioè utile a tenere il Pci fuori dell’area di governo (conventio ad escludendum), oppure ebbe un duplice fondamento, visto che il legame con l’Urss non si risolse in una irreversibile rottura. In definitiva la Dc e i suoi alleati intendevano espellere inmodo definitivo i comunisti dalla dialettica democratica? E la direzione del Pci voleva in ultima istanza districarsi così da non trovarsi imbrigliata in un coinvolgimento pieno con il blocco catto-centrista che ne avrebbe sterilizzato l’autonomia politica e di classe?
Tra i molteplici snodi che Macaluso ripercorre si ritrova con insistenza quello della “doppiezza” il cui significato e valore sono comprovati dal suo reiterato riproporsi sotto qualsiasi direzione: non solo di Togliatti ma anche di Longo, Natta, Occhetto e Berlinguer. Molti sono gli esempi offerti. Nelle Memorie di Pietro Secchia, diffuse dopo la sua condanna politica, si ricorda il suo giudizio sugli scioperi e il ruolo della Cgil: “Se volgo lo sguardo ai miei atteggiamenti in seno alla direzione del partito sono senza dubbio molte le occasioni in cui, di fronte a certi avvenimenti, io ho proposto lotte più forti, scioperi più vasti, generali, e molte sono state le occasioni in cui Di Vittorio ed altri erano decisamente contrari a lotte più impegnative…”. Non si contestava, afferma Macaluso, la via democratica, ma nei fatti quale era lo sbocco di quella strategia? Al che Secchia risponde: “Anche se in avvenire dovessimo essere impegnati in una lotta diversa da quella legalitaria, in una lotta violenta contro i gruppi reazionari, essa dovrà essere condotta con ampie azioni di massa unitarie, con la più ampia alleanza delle forze democratiche”.
Una formulazione equivoca, controbatte Macaluso, perché non si capisce se la lotta diversa da quella legalitaria era di carattere difensivo o tale da provocare reazioni del nemico e imporre una nostra difesa. Può sembrare un discorso lontano ma, finora, l’attualità è alimentata dal permanente ricorrere alle categorie della “doppiezza”. Di qui la tesi alla base del libro sul contrasto destinato a riprodursi non tra estremisti e moderati di sinistra ma tra riformisti e massimalisti. Avversari di ieri, oggi e domani.
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