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ARCHEOLOGIA - Due mostre a Roma mettono in relazione due grandi «personalità»
Nel bimillenario della sua morte, l e Scuderie del Quirinale raccontano le gesta e la mitologia che spesso hanno offuscato la verità sull'imperatore romano. Al Bramante va in scena la regina d'Egitto, ultima erede politica di Alessandro Magno
APERTURA - Federico Gurgone il manifesto 2013.11.05 - 11 CULTURA
Divinità e potere a Roma
Augusto messo a nudo
Duecento capolavori alle Scuderie del Quirinale nel bimillenario della nascita dell’imperatore
di Silvia Ronchey La Stampa 18.10.13
Il
pudico principe, il dominus tutto decoro, il severo tristis per Ovidio
pater patriae, il pontifex massimo, in pubblico e nelle ipostasi
marmoree della sua autorappresentazione che fu tale in senso stretto se
sul letto di morte, come narra Svetonio, chiese agli astanti di
applaudire la sua «commedia» amava mostrarsi meticolosamente abbigliato,
quando non togato e capite velato come nelle statue di Palazzo Massimo o
di Ancona.
Fa una certa impressione vederlo completamente nudo. Ma è
così che audacemente e teatralmente si presenta, un Augusto messo a
nudo nell’illusionistico striptease della storia dell’arte, al pubblico
della grande mostra aperta fino al 9 febbraio alle Scuderie del
Quirinale, dove l’Augusto di Prima Porta il braccio alzato a chiedere
silenzio, i bei piedi eroicamente scalzi, le ginocchia scoperte dalla
gonna militare, la lorica istoriata di immagini di propaganda e appena
sfiorata dal paludamentum che ricade molle sul polso che regge le lancia
è per la prima volta affiancato al suo diretto modello marmoreo: il
Doriforo di Policleto.
La somiglianza con il candido nudo che è
epitome del Canone classico greco perfino nei tratti del viso è
straniante, l’intenzionalità della citazione certa. E ha ragioni
altrettanto radicate nella costruzione d’immagine del principato
augusteo, la cui esegesi al pubblico è al cuore del concept della
mostra, esplicitato dal suo ideatore Eugenio La Rocca nel secondo dei
saggi che firma nel catalogo Electa: La costruzione di una nuova
classicità.
Che il linguaggio artistico del saeculum Augustum non sia
classicistico, ma «neo-classico» in senso proprio è suggerito fin dalla
disposizione dei materiali, molti dei quali mai esposti e ora riuniti
per la prima volta, come i rilievi di Medinaceli-Budapest. L’itinerario
segue l’evolversi del pensiero politico del «divo» fino alla morte (14
d.C.) e all’apoteosi intesa, con un occhio all’ideologia e l’altro
all’antropologia del mondo antico, come creazione di un nuovo dio, cui è
dedicata una delle più emozionanti sezioni, con l’epifania dell’immenso
Augusto di Arles e con il saggio Morte e apoteosi di Annalisa Lo
Monaco.
«Io non vivo del passato. Per me il passato non è che una
pedana», dichiarava Mussolini nella Sala dell’Impero della mostra che
nel 1937 celebrò il bimillenario della nascita del princeps con
deliberata attualizzazione del riordino statale augusteo in quello
dell’«ordine nuovo» fascista, come illustra Andrea Giardina, Augusto tra
due bimillenari. Il primo imperatore, il maker stesso di quella
durevole entità che i bizantini chiameranno «l’animale imperiale», nel
ricreare il suo novus ordo si servì del passato ma non certo in funzione
restauratrice; un recupero «proattivo» che i suoi intellettuali
interpretarono in «un canone», secondo Alessandro Schiesaro, «dalla
straordinaria capacità di resistenza»: Virgilio e Orazio, Properzio e
Tibullo, Ovidio e Livio, ma anche i perduti Cornelio Gallo e Vario.
Così,
anche il linguaggio figurativo attinse alla classicità per
riattualizzarla e non per imitarla freddamente, nonostante il giudizio
tombale di Bianchi Bandinelli, ispiratore dei luoghi comuni
novecenteschi sul classicismo augusteo che la mostra di Eugenio La Rocca
mira a dissipare per sempre.
La legittimazione di ogni princeps, dal
Medioevo all’età contemporanea, passerà sempre dal rinvio a Roma e al
suo principe: per i duci e cesari novecenteschi come per altri meno cupi
ascesi al ruolo imperiale dopo un percorso di cesarismo: Federico II,
Lorenzo il Magnifico, più di tutti Napoleone.
Se nell’età napoleonica
la creazione del Neoclassico segue la scoperta della scrittura e degli
arredi pompeiani, il cortocircuito si enfatizza se si considera che i
più belli sono augustei. La mostra ne presenta di straordinari, dal
lussuoso braciere bronzeo con satiri itifallici, scoperto nei praedia di
Iulia Felix durante gli sterri borbonici di Pompei e noto già dal
Settecento, agli sgabelli della domus del Graticcio di Ercolano,
testimonianze di una vita quotidiana raffinatissima. Napoleone si ispirò
a Augusto, e la costruzione anche qui di una nuova classicità conferma
che nessuno «stile impero» è mai restauratore, né è mai ideologicamente
solo reazionario, ma in un qualche, non necessariamente gradevole modo
anche rivoluzionario.
Lo è per esempio nell’esaltata celebrazione
augustea della «pace», nella visionaria celebrazione della vita rurale,
nella delirante nostalgia per la fertilità dei campi e degli animali,
pacificati come gli istinti umani, per un’età dell’oro che torna
contrapposta alla tetra stagione delle guerre civili. Un momento
ipnotico che si riflette nelle Georgiche di Virgilio come nei capolavori
delle Scuderie: nel gruppo dei Niobidi, i cui frammenti sono per la
prima volta riuniti, e secondo la loro disposizione nell’obliquo del
frontone, o nei tre grandi rilievi Grimani di Palestrina, giustamente
comparati, nell’economia compositiva oltre che nel soggetto, ai versi
virgiliani: «Il rilievo della cinghialessa, uno dei momenti più
emozionanti dell’arte antica, non è classicismo ma invenzione suprema»
(La Rocca).
Lo stile di Augusto
Il mito dell’imperatore che inventò la comunicazione attraverso l’arte
di Edoardo Sassi Corriere 18.10.13
Indietro
nel tempo, venti secoli fa, il tramonto della Repubblica Romana e la
nascita dell’Impero: una nuova epoca storica. E, va da sé, anche un
nuovo gusto. Protagonista assoluto di quella stagione il figlio adottivo
e pronipote di Cesare, colui che dopo la morte diverrà il divus
Augustus, l’Augusto divinizzato, l’uomo che da mortale, durante i
quattro decenni del suo lungo principato, aveva esteso i confini di Roma
fino alla massima espansione, oltre l’intero bacino del Mediterraneo.
A
raccontare da oggi Augusto, la sua epoca, le sue contraddizioni, i suoi
successi, una mostra di impianto rigorosamente scientifico ma anche di
impatto spettacolare, allestita a Roma presso le Scuderie del Quirinale e
inaugurata ieri dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Nata
da un progetto dell’archeologo Eugenio La Rocca — e da lui curata con
Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco, Cécile Giroire, Daniel
Roger — la rassegna resterà aperta al pubblico fino al 9 febbraio 2014,
anno in cui ricorrerà il bimillenario della morte del princeps ,
deceduto a Nola il 19 agosto dell’anno 14 dopo Cristo. Una mostra che
dunque inaugura di fatto, sia pure in anticipo di qualche mese, le tante
celebrazioni per questa ricorrenza ufficiale e che interrompe così un
lungo «silenzio» espositivo sull’imperatore che durava dal lontano 1937.
All’epoca, a un anno dalla proclamazione di tutt’altro impero, fu
infatti il regime fascista a voler celebrare con la massima visibilità
un altro bimillenario, quello della nascita del divus . E proprio una
certa fascistizzazione del mito Ottaviano Augusto, con il suo corredo di
magniloquente retorica, deve aver pesato in questi settantasei anni di
assenza di Augusto dall’agenda espositiva italiana. All’epoca, alla
colossale «Mostra augustea della Romanità» fu riservato l’intero Palazzo
delle Esposizioni, e sventramenti furono effettuati, sempre a Roma, per
creare l’attuale piazza intitolata all’imperatore, isolandone
contestualmente il Mausoleo.
Oggi, in tutt’altro clima
storico-politico e senza forzature ideologiche, c’è la voglia di
ripercorrere le tappe folgoranti di una biografia, di una carriera
politica e di un’intera stagione con una selezione di grande pregio che
annovera oltre duecento opere, tra le quali non pochi capolavori.
Un’antologia non facile da mettere insieme e alla quale hanno infatti
lavorato in tanti, sia italiani, sia francesi (la mostra è organizzata
in collaborazione con il Louvre e dopo Roma sarà al Grand Palais di
Parigi dal 19 marzo al 13 luglio 2014); sia lo Stato (Soprintendenza
archeologica di Roma), sia il Comune (Assessorato alla Cultura, Azienda
speciale Palaexpo, Musei Capitolini, Sovraintendenza).
Escluse
volutamente la pittura e l’architettura per motivi logistici e perché
entrambe ampiamente rappresentate a Roma tra collezioni museali e luoghi
fisici (tanti, dall’Ara Pacis al Teatro Marcello, i monumenti
«augustei» e le pitture parietali in situ), la mostra alle Scuderie si
incentra, come spiegano i curatori, «sulla scultura, sui bronzi, sulle
terrecotte, le monete, le gemme, i cammei, i gioielli e sulle arti
cosiddette minori, con una scelta critica basata su opere che rivelano
nel modo più idoneo il sistema di comunicazione adottato da Augusto e
dalla sua corte, e che presentano una qualità artistica superiore alla
media».
Il percorso si apre con la colossale Statua marmorea di
Augusto, oltre due metri di altezza, ritrovata nel teatro antico di
Arles (il torso rinvenuto nel 1750, la testa nel 1834). Al suo fianco
una scultura raffigurante la moglie Livia, del tipo orante. A seguire
una pressoché ininterrotta sequela di meraviglie tra marmi, ori,
argenti, vetri, tripodi, anelli, torsi, crateri o ritratti, provenienti
da alcuni tra i maggiori musei del mondo (British, Metropolitan e Louvre
alcuni dei prestatori stranieri).
Tra i picchi dell’esposizione, il
confronto ravvicinato tra il Doriforo di Pompei (Napoli, Museo
Archeologico Nazionale) e la celeberrima Statua di Augusto cosiddetta da
Prima Porta, prestata dai Musei Vaticani, scultura in marmo ritrovata
sulla via Flaminia nella villa di Livia e che fece da prototipo alle
onnipresenti effigi dell’imperatore. Altro prototipo famoso esposto, la
Statua togata con capo velato, ritrovata nel 1910 nelle fondamenta di
una casa in via Labicana.
E al tipo Prima Porta appartiene inoltre
la splendida testa bronzea da Meroe, Sudan, oggi a Londra, ritrovata
volutamente sepolta sotto il pavimento di accesso a un tempio della
capitale nubiana e per questo perfettamente conservata. Quel
seppellimento aveva lo scopo di far calpestare, simbolicamente, l’odiato
Augusto da chiunque entrasse nell’edificio destinato a celebrare le
vittorie dei sovrani meroiti.
«Cerebrale e politico. Ma l’inquieto Cesare suscita più passioni»
Fu uno stratega, non un condottiero
di Roberta Scorranese Corriere 18.10.13
Andrea
Giardina, uno dei più fini conoscitori della Roma antica, introduce la
figura di Augusto citando Karl Marx: «Secondo il filosofo, nell’era del
capitalismo, il concetto di soddisfazione è volgare. Forse è per questo
che, ancora oggi, Cesare è più popolare di Ottaviano: Cesare era un
insoddisfatto, in fondo un perdente, uno che è morto assassinato.
Augusto no: troppo preciso e astuto per essere anche coinvolgente. Ecco
perché su di lui sono stati realizzati pochissimi film, pochi spettacoli
teatrali, molte statue celebrative ma poche tele a effetto drammatico.
Diciamo che la modernità si identifica con i personaggi sofferenti, in
un impeto che mescola cattolicesimo e romanticismo».
Già, a
differenza del padre adottivo, Augusto è morto nel suo letto e non
assassinato; è ricordato per la finezza politica più che per il coraggio
militare; non ha mai vestito i panni del «dittatore democratico», bensì
ha dato vita all’Impero romano. «Augusto è entrato nell’agone politico
poco più che adolescente (19 anni, ndr ) — dice Giardina, che nel
catalogo della mostra ha curato un saggio sul personaggio — ma ha
immediatamente dimostrato un grande talento politico, riuscendo a
barcamenarsi tra Antonio e Bruto. Aveva ricevuto un’educazione regolare,
conosceva la retorica e almeno il latino e il greco. Ma era un
cerebrale, un ragionatore».
Machiavellico, più che istintivo. E così
la sua fortuna, nell’età moderna, è stata altalenante. «La Rivoluzione
Francese e quella Americana non lo hanno amato — continua lo storico —
preferendogli Bruto o Catone l’Uticense, i martiri vittime del potere.
Poi, nella seconda metà dell’Ottocento, Augusto ricomparve, anche come
modello artistico». Ritratto o scolpito quasi sempre con la toga, nella
veste canonica del cittadino romano, in un fermo equilibrio intriso di
valori patriottici, non poteva non diventare un «faro» per Benito
Mussolini, il quale, nel 1937, colse l’occasione di celebrare il
bimillenario della nascita dello stratega, al fine di identificarsi con
lui. Eppure, per Giardina «la dimensione guerriera di Augusto aveva
molte incrinature. Nonostante il fatto che, sotto di lui, l’impero
romano fu notevolmente accresciuto, e anche se nelle Res gestae il
principe enfatizzava i propri successi militari, ciò non significava che
egli potesse essere considerato un grande condottiero» .
È sempre
stato più un simbolo astratto che non un’immagine concreta dell’uomo
«nel fango e nella polvere». Però che lungimiranza politica: vissuto a
cavallo tra il mondo pre-cristiano e quello cristiano, unificò l’Impero,
divise le province, unificò il fisco imperiale, riorganizzò
l’amministrazione di Roma. I limiti? Per Giardina, Augusto non ha saputo
«anticipare quell’osmosi sociale verticale che arriverà dopo l’addio
alla schiavitù, né intercettare cambiamenti sociali», come quelli nati
dall’allargamento della cittadinanza romana. Quel che oggi resta, è
(anche) un patrimonio d’arte e memorie non ancora del tutto scandagliato
.
«la Naumachia che Augusto aveva fatto realizzare a forma di
ellisse lì vicino, tra le odierne chiese di San Cosimato e San Francesco
a Ripa»
Sulle sue tracce, dal miglio aureo al mausoleodi Lauretta Colonnelli Corriere 18.10.13
Passeggiando
nella capitale tra i resti monumentali e qualche sorpresa sotterranea
Tutte le strade portano a Roma, recita un proverbio nato dall’efficiente
sistema viario dell’antica Urbe. In realtà tutte le strade partivano da
Roma, da una colonna marmorea rivestita di bronzo, che fu posta nel
Foro da Augusto, divenuto «curator viarum» nel 20 a. C. La colonna si
chiamava «miliarium aureum», pietra miliare aurea, e da questa si
misuravano in miglia tutte le distanze dell’Impero. La base della
colonna, decorata con palmette, è visibile ancora oggi davanti al tempio
di Saturno, ai piedi del Campidoglio.
Si potrebbe partire da qui
per una passeggiata alla ricerca dei monumenti che ricordano il primo
imperatore romano. Non lontano dal miliario ci sono i resti del suo
Foro, collocato ortogonalmente rispetto a quello di Cesare e
riconoscibile dalle colonne del tempio di Marte Ultore che vi era
inserito. Su via dei Fori imperiali si incontra la sua statua loricata,
copia novecentesca in bronzo di quella marmorea ritrovata il 20 aprile
1863 nella villa della moglie Livia a Prima Porta e conservata ai Musei
Vaticani. Gli storici hanno sempre detto che la lorica (la corazza dei
legionari) fosse in pelle. L’archeologo sperimentale Silvano Mattesini
sostiene che fosse cucita in undici strati sovrapposti di lino, come
quella di Alessandro Magno, detta «linothorax». Lo dimostrerebbero i
laccetti che si vedono sotto il braccio destro della statua, usati per
stringere la lorica fino a renderla aderentissima, come si faceva con i
corsetti femminili nel Settecento. La statua di Augusto come pontefice
massimo, conservata al museo di Palazzo Massimo, risale invece agli anni
immediatamente successivi al 12 a. C., quando l’imperatore assunse la
più alta carica sacerdotale.
Ma il cuore della Roma augustea si
trovava in Campo Marzio, nell’area oggi compresa tra il Parlamento e il
Tevere, in prossimità del «pomerium», il confine sacro della città. Qui
il 30 gennaio del 9 a. C. fu inaugurata l’Ara Pacis, concepita per
celebrare la pace augustea, dopo le imprese compiute a nord delle Alpi e
in Spagna. L’imperatore fece costruire contemporaneamente l’«horologium
solarium», la più antica meridiana di Roma. Tracciata su un pavimento
in lastre di travertino, misurava 160 metri per 75. Lo gnomone era
costituito dall’obelisco di Heliapolis (ora in piazza Montecitorio) che
Augusto aveva trafugato dall’Egitto con lo scopo, come scrive Plinio, di
«captare l’ombra del sole e quindi stabilire la durata dei giorni e
delle notti». Il 23 settembre, compleanno di Augusto, l’ombra veniva
proiettata sull’Ara. Un lembo dei resti della meridiana, è visibile nel
cortiletto al numero 48 di via di Campo Marzio. Sepolta ben presto sotto
i detriti alluvionali, l’Ara Pacis fu dimenticata per un millennio,
finché i suoi resti cominciarono a tornare alla luce. Nel 1938 venne
finalmente ricomposta, trecento metri a nord dalla collocazione
originaria, accanto al Mausoleo che Augusto aveva fatto costruire nel 29
a. C. e che Strabone descrisse con ammirazione, come «un grande tumulo
presso il fiume, su alta base di pietra bianca, coperto fino alla
sommità di alberi sempre verdi; sul vertice è il simulacro bronzeo di
Augusto e sotto il tumulo sono le sepolture di lui, dei parenti e dei
familiari». Nel 1936, dopo le demolizioni attuate nella zona per
costruire l’attuale piazza, il mirabile Mausoleo prese quell’aspetto di
«dente cariato» che si vede ancora oggi (la definizione è di Antonio
Cederna). Fu l’ultima trasformazione delle tante subite nei secoli:
fortilizio nel medioevo, anfiteatro per spettacoli e corride alla fine
del Settecento, sala per concerti con il nome di Auditorium Augusteo per
l’orchestra di Santa Cecilia ai primi del Novecento.
Un’altra
curiosa traccia della Roma augustea si trova a Trastevere, nei
sotterranei di un palazzone costruito nel dopoguerra al numero 9 di via
della VII Coorte. Qui si conservano i resti della caserma del corpo dei
vigili del fuoco istituito nel 6 d. C. dall’imperatore. Sono svaporati i
circa cento graffiti ritrovati nel 1866 sulle pareti: raccontavano la
vita difficile dei pompieri, in una città fatta in gran parte di legno.
«Sono stanco, datemi il cambio», lasciò scritto uno di loro.
Affrontavano il fuoco con pompe a sifone, pertiche, corde, scale,
recipienti per l’acqua. Forse l’attingevano dalla Naumachia che otto
anni prima Augusto aveva fatto realizzare a forma di ellisse lì vicino,
tra le odierne chiese di San Cosimato e San Francesco a Ripa, e che era
alimentata dal lago di Martignano, attraverso l’acquedotto
dell’imperatore, uno degli undici dell’epoca. Trastevere è uno dei 22
rioni di Roma che derivano dalle 14 «regiones» in cui Augusto aveva
diviso la città .
AugustoIl primo imperatore che trasformò Roma in una città di marmo
Alle
Scuderie del Quirinale da oggi sculture e oggetti provenienti da tutto
il mondo ricostruiscono la storia e la personalità di Ottaviano a
duemila anni dalla morte
di Claudio Strinati Repubblica 18.10.13
ROMA Duemila
anni fa moriva l’imperatore che si celebrava come princeps di una nuova
età dell’oro, e oggi Roma ricorda Augusto con una grande mostra alle
Scuderie del Quirinale progettata da Eugenio La Rocca (e realizzata da
un comitato scientifico composto da La Rocca stesso, Claudio Parisi
Presicce, attuale Sovrintendente capitolino, Annalisa Lo Monaco, Cécile
Giroire, Daniel Roger). Rispetto alla mostra tenutasi aBerlino del 1988
nel Gropius-Bau questa romana si basa sulla più aggiornata conoscenza
degli studi e mette al centro il tema della produzione artistica senza
la pretesa di sviscerare ogni aspetto del mondo augusteo, tramite uno
sforzo organizzativo eccezionale che ha impegnato le maestranze delle
Scuderie, sotto la direzione di Mario De Simoni coadiuvato da Matteo
Lafranconi, in un allestimento che ha richiesto mesi di lavoro, degno
veramente di ogni lode.
L’esposizione appare quale vera e propria
epopea di cui offre subito una sintetica immagine la superba scultura
dell’Augusto di Arles, opera gigantesca da confrontare con l’Augusto di
Prima Porta, altro titano pure presente. Qui alle Scuderie il grande
argomento è quello della visione della classicità e dei caratteri
peculiari dell’arte nell’età augustea. Ottaviano Augusto, attraverso
l’arte e la letteratura, tese a dimostrare come con il suo avvento fosse
ritornata la mitica “età dell’oro”. Ovunque, all’epoca, appare il suo
ritratto nei diversi momenti del lunghissimo comando. Oggi ne restano
poco più di duecento raggruppabili, come ben si vede in mostra, in tre
tipologie fondamentali: ora viene paragonato ad Apollo, ora è un nudo in
armi, ora è togato e velato, custode della pace, rinnovatore della
grande tradizione antica. La sua effigie è monumentale o visibile su
gemme, cammei, monete. La sua presenza investe di sé ogni manifestazione
artistica di cui la mostra offre vasta documentazione, anche sepittura e
architettura appaiono solo da proiezioni di suggestive immagini che
accompagnano il visitatore.
Come fu formulato in arte il principio
del ritorno dell’età dell’oro, della consacrazione di una fase sociale
di pace, prosperità, ordine e bellezza? Trasgressivo, ironico,
spiritoso, prudente ma portato alla battuta aspra e volgare, Augusto
padre della patria volle che la produzione artistica del suo tempo
ambisse a presentarsi come sintesi universale incentrata, appunto,
sull’idea del ritorno alle origini riscontrate negli atti di governo e
nella politica generale, nell’amministrazione e nella gestione delle
risorse, quale si vede nell’Ara Pacis, eretta in suo onore a partire dal
13 a. C. L’imperatore vuole creare uno spazio estetico necessario per
definire un potere assoluto e ambiguo, pacificatore e insieme
ipocritamente attento a utilizzare costantemente lo strumento del
ricatto e del pettegolezzo per comprare qualunque cosa, dal potere
militare, alla legittimità della discendenza da Giulio Cesare, alla
subdola forza della diffamazione, mescolando vizi privati e pubbliche
virtù tali da costringere il Senato a acclamarlo e proteggerlo. Dice lo
storico Svetonio che Augusto in tarda età avrebbe affermato di aver
preso Roma quando era una città di mattoni e di averla trasformata in
una città di marmo. La verifica storica, attuabile anche nel percorso
della nostra mostra, gli dà ragione. C’è, peraltro, una miriade di
autentici capolavori che permettono di avere chiara la visione di
un’arte che è tale perché così la vuole il potere costituito ma che
parla con un linguaggio autonomo che di quel potere è largamente in
grado di prescindere.
I principi della Riconciliazione e della Rinascita sono chiaramente espressi nell’Ara
Pacis
ma risultano altrettanto chiaramente espressi in tutta l’arte augustea.
Dal Louvre (che ha collaborato in modo determinante a questa mostra che
vi verrà poi esposta dopo la sede romana) è giunto anche l’unico
frammento dell’Ara
Pacis portato via da Roma e di cui, nella
ricostruzione attuale nell’edificio di Meier, si vede un calco. È un
frammento stupendo, paragonato in mostra a un altro pezzo sublime che
dice molto sulla scultura romana del tempo la Tellus proveniente da
Cartagine e che è in chiaro rapporto con il riquadro detto la Saturnia
Tellus dell’Ara Pacis.
Questi pezzi memorabili permettono di
orientare tutta la visita, a condizione di comprendere il loro
“classicismo” che non è imitazione a Roma del modello greco, ma è una
rinnovata e vivente sintesi di arcaico e moderno, di idealizzazione e
naturalismo secondo un principio di verità e intimità che Augusto, vero
Giano bifronte distruttore e insieme salvatore dei valori repubblicani,
porta nel dibattito culturale romano facendone un prototipo di
riferimento per i secoli a venire. Quello che veramente colpisce è la
raffinatezza e la delicatezza estrema di certa produzione artistica come
nei formidabili argenti provenienti dal tesoro di Boscoreale o le
incredibili ceramiche sigillate aretine prestate in parte dal Louvre,
per non parlare di alcuni arredi della casa come una serie di vetri che
documentano la eleganza e la preziosità di questa arte, imperiale ma
sobria e discreta. Sorprende, nella visita alla mostra, l’afflato del
sentimento che si vede in numerosissime opere che tutto sembrano meno
che apoteosi servili del potere. Lo si percepisce bene, ad esempio, nei
tre rilievi marmorei Grimani (due da Vienna e uno da Palestrina) forse
parti di un ninfeo con le rappresentazioni di una pecora, una leonessa e
una cinghialessa che nutrono i figli, immagini di tale sublime bellezza
e di tale potenza espressiva da potersi paragonare alla poesia
virgiliana o ovidiana. Tra queste opere ragguardevoli vanno almeno
ricordate le bellissime lastre di terracotta Campana (dalla antica
collezione di provenienza) anche queste in buona parte dal Louvre, o il
fenomenale Tripode con un braciere, in bronzo, da Napoli.
Quando il potere fu racchiuso in un solo nome
Il significato del titolo attribuito al sovrano dal 27 a.C.
di Maurizio Bettini Repubblica 18.10.13
Il
titolo che Ottaviano assunse nel 27 a.C., Augustus, lo stesso con cui
continuiamo a chiamarlo, non ha dato nome soltanto a un mese, Agosto, o a
quel Ferragosto, Feriae Augusti, che ancor oggi celebriamo con tanta
dedizione. Lo ha dato a un’intera epoca, l’età augustea appunto, uno dei
momenti più alti, e insieme più problematici, della civiltà romana.
“Età augustea” vuol dire infatti Virgilio e Orazio, Ara Pacis e Teatro
di Marcello – un fiore meraviglioso nato però dal sangue, e destinato
comunque a trasferire in occidente il seme dell’impero e del potere
assoluto. Ma se età augustea significa tutto questo, che cosa vuol dire a
sua volta Augusto? O meglio, che cosa significa augustus?
Svetonio
racconta che Ottaviano da giovane portava il cognomen di Thurinus, e che
Antonio, per denigrarlo, usava chiamarlo così nelle sue lettere. In
seguito egli assunse il nome di Gaius Caesar e infine, per suggerimento
del senatore Munazio Planco, quello di Augustus. L’imperatore stesso,
nel catalogo monumentale delle sue imprese, leRes gestae, ricorda con
orgoglio il momento in cui questo titolo gli fu attribuito, in cambio
della generosità con cui aveva rifiutato i poteri straordinari e
restituito la res publica al popolo. Lo storico Cassio Dione, però,
racconta la storia in modo diverso.
Secondo lui Ottaviano,
desiderando esser chiamato con un appellativo speciale, avrebbe dapprima
scelto quello di Romulus, in questo modo identificandosi direttamente
con il fondatore della Città. Poi però, temendo che tale decisione
lasciasse adito al sospetto di aspirare al “regno” – un’ipotesi
inaccettabile per i Romani – ripiegò su Augustus. Il che non significava
peraltro abbassare le proprie ambizioni, al contrario.
Questo titolo
infatti veniva generalmente attribuito alle divinità, come Giove,
Apollo o Esculapio. Ovidio, in uno dei suoi non rari momenti di
imbarazzante adulazione, non esiterà a mettere in evidenza il valore
divino, sovrumano, che questo appellativo implicava. Se infatti Pompeo
fu detto “grande” (Magnus) – scriveva neiFasti – e Fabio addirittura
“grandissimo” (Maximus), essi furono comunque celebrati con onori umani:
«ma Augusto ha in comune il proprio nome con Giove». Al di là
dell’adulazione ovidiana, però, bisogna dire che Ottaviano, come in
molti altri casi, anche quando si trattò di scegliersi un titolo d’onore
sapeva bene quello che faceva.
L’aggettivo augustus, infatti,
affondava le proprie radici in una delle configurazioni linguistiche e
culturali più antiche, e più rilevanti, della civiltà romana. Si tratta
di una famiglia di parole che si rifà al verbo augeo “accrescere” nel
senso, anche sacrale, di portare a compimento con successo una
determinata azione; e vanta termini come augurium, ossia l’esplicita
approvazione che gli dèi concedevano a un’impresa; augur, il nome che
designa colui che aveva il compito di prendere gli
auspicia,ossia di
consultare la divinità riguardo all’azione da intraprendere (cosa che a
Roma si faceva regolarmente prima di qualsiasi decisione importante); e
ancora il termine auctor, colui che dà inizio e porta al successo un
certo processo, e insieme ad esso auctoritas, ossia la condizione di
“autorità” detenuta da qualcuno nel senso della sua capacità di portare
felicemente a conclusione, ancora una volta, una certa azione: la più
nobile, come si vede, e la più giustificabile forma di autorità che ci
si possa augurare. Assumendo il titolo di Augustus, dunque, se Ottaviano
ascendeva in qualche modo al mondo degli dèi, come sosteneva Ovidio,
accedeva anche al più laico, ma non meno importante universo costituito
dal “successo” delle proprie iniziative e dalla auctoritas che ne sta
all’origine. Due qualità fondamentali per chi vuole governare un impero.
Alle Scuderie del Quirinale: Augusto. La vera storia
Un elegante, discutibile, bugiardo elenco delle imprese dell’imperatore Non era un buon combattente e per di più era di fragile costituzione fisica «Res gestae divi Augusti» è un’iscrizione piegata alle esigenze politiche contrastante con la realtà dei fatti Il testo comincia con quello che può essere definito un «colpo di Stato» Insuperabile uomo politico e abile mistificatore, ma era fuggito davanti a Bruto
di Luca Canali l’Unità 23.11.13
È
DAVVERO UN PECCATO CHE SIANO ANDATE PERDUTE LE MEMORIE DI SILLA, IL
GRANDE E SPIETATO CONDOTTIERO ARISTOCRATICO CHE SI OPPOSE con successo
all’altrettanto grande e spietato condottiero «popolare» Caio Mario che
respinse i Cimbri e Teutoni e fondò l’esercito professionale romano. Ma
anche quelle di Lutazio Càtulo, potente generale e fine intellettuale
intorno al quale si formò un gruppo di scrittori definibili come
preneoterici, cioè anticipatori del gruppo dei neòteroi (poetae novi) di
cui Catullo fu il più originale e brillante esponente.
Per fortuna
ci restano, oltre ai Commentarii di Cesare (De bello gallico, civile, e
l’intero corpus caesarianum), anche la splendida e lunghissima
iscrizione Res gestae divi Augusti, un elegante anche se discutibile e
talvolta bugiardo elenco delle imprese di Ottaviano Augusto imperatore,
assolutamente spregiudicate nel dar conto del suo operato: un testo
piegato alle esigenze politiche contrastanti, a volte sfacciatamente,
con la realtà dei fatti; ma tutto ciò fatto con mirabile sinteticità e
assoluta eleganza «attica» e «analogista», di evidente derivazione
cesariana. La storia narrata in tale iscrizione, comincia con la
descrizione di quello che potremmo definire un vero e proprio «colpo di
stato».
Di essa fatta incidere nel bronzo davanti all’Ara pacis
augustae e in alcune importanti città dell’impero, Apollonia, Ankara e
Antiochia, leggiamo l'inizio.
Annos undeviginti natus exercitum
privato consilio et privata impensa comparavi, per quem rem publicam a
dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi: «All’età di
diciannove anni, con decisione personale e spesa personale, arruolai un
esercito, per cui mezzo restituii a libertà la repubblica oppressa dalla
dominazione d’una fazione».
Questa fazione, secondo ciò che pensava
Ottaviano, era quasi certamente il gruppo guidato da Marco Antonio, capo
del partito dei populares. Ma Antonio era un fervente cesariano, e
anche magister equitum «capo della cavalleria», combattente indomabile,
anche se uomo vizioso, frequentatore di bettole, prostitute e giocolieri
di strada. E allora? Ma contro Antonio, il puer (così Cicerone
designava quell’intraprendente e quasi ancora adolescente erede di
Cesare), aspirava illegalmente alla «successione», e al supremo potere.
Ma nella costituzione dello Stato romano non si poteva «succedere» per
diritto di adozione. Ottaviano lo sapeva e quindi compì coscientemente,
appunto, un colpo di stato. Riuscì arbitrariamente a farsi eleggere (a
venti anni!) senatore proprio dall’ordine dei senatori; ottenne inoltre
un comando militare (imperium) accanto ai consoli Irzio e Pausa; ottenne
anche la propretura, poi partì con il suo esercito «personale» accanto a
quello regolare guidato dai due consoli. Egli va così, pur essendo
pronipote di Cesare e suo figlio adottivo, alla guerra di Modena dove
Antonio combatte per subentrare a Decimo Bruto (uno degli uccisori di
Cesare!) nel governatorato della Gallia Cisalpina. Dunque Ottaviano, con
la sua spregiudicatezza, si schiera contro il cesariano Antonio, per
difendere Decimo Bruto, che addirittura aveva partecipato al massacro di
Cesare! Antonio è sconfitto. Ma i due consoli, Irzio e Pausa, muoiono
in battaglia. E Ottaviano, tornato a Roma si fa eleggere console insieme
ad un arrendevole collega, Q. Pedio; per ottenere ciò aveva mandato un
reparto di suoi agguerriti soldati a imporre al Senato la propria
elezione.
C’è poi una «correzione» nel piano di Ottaviano. Si
rappacifica con Antonio, e con Lepido, forma così il secondo
triunvirato. I nuovi triunviri dichiarano feroci proscrizioni, durante
le quali viene ucciso Cicerone, uomo ormai di centro – destra, per aver
egli ingiuriato (nella II filippica) Fulvia, moglie di Antonio.
Intanto
gli uccisori di Cesare, minacciati dalla folla e dai veterani di
Cesare, fuggono in Grecia dove arruolano anche loro un esercito, guidato
da Bruto e Cassio. Ottaviano e Antonio partono a inseguirli, dopo
averli accusati di star preparando un attacco al governo di Roma. E a
Roma, contro di essi, certamente dietro pressioni di Ottaviano, viene
dichiarato lo stato di emergenza con la formula del cosiddetto senatus
consultus ultimus: Videant consules ne res publica quid detrimentum
capiat («Si adoperino i consoli affinchè la Repubblica non subisca alcun
danno»).
Vi furono violenti scontri presso Filippi: Ottaviano contro
Bruto, Antonio contro Cassio. Ottaviano perde e si mette in salvo
fuggendo. Antonio invece vince contro Cassio, poi vince anche contro
Bruto. Questa è la storia; ma Ottaviano, al termine del secondo capitolo
delle sue Res gestae scrive: (Bruto e Cassio) bellum inferentes rei
publicae vici bis acie. «Poiché Bruto e Cassio intendevano far guerra
allo Stato, li vinsi due volte in campo aperto». Una menzogna. Egli non
era un buon combattente, e per di più era di fragile costituzione
fisica. E come si è detto, era fuggito davanti a Bruto; era Antonio che
aveva battuto prima Bruto, poi Cassio «in campo aperto».
Ottaviano ha
così dimostrato quello che è: un mediocre combattente, anche se un
insuperabile uomo politico, e un abile mistificatore.
La situazione
si ripeterà ad Azio (nel combattimento terra – mare contro Antonio e
Cleopatra). La flotta egiziana sarà messa in fuga da Agrippa, il fedele
amico di Ottaviano, che durante la battaglia giace ammalato nella sua
cuccetta su un’agile nave liburnica.
Certo, le Res gestae non
potevano dilungarsi in dettagli, forse ritenuti secondari, ma nello
stesso tempo non avrebbero dovuto essere menzognere, come in realtà sono
almeno in parte.
Riprendendo a leggere questa bellissima ma
inattendibile iscrizione, troviamo una diversa e falsa versione dello
svolgimento dei fatti prima di Filippi: Qui parentem meum trucidaverunt,
eos in exilium expuli iudiciis legitimis ultus eorum facinus: «quelli
che trucidarono il mio padre adottivo, li cacciai in esilio vendicandomi
del loro crimine». In realtà Bruto e Cassio erano fuggiti e non erano
mai stati mandati in esilio.
La battaglia di Filippi era stata in realtà una serie di scontri che si erano conclusi nel modo contraddittorio che si è detto.
Subito
dopo il suicidio di Antonio e Cleopatra, sconfitti ad Azio dalla flotta
leggera guidata da Agrippa, fu la straordinaria capacità politica di
Ottaviano, insieme alla sua abilità manovriera, a determinare la
progressiva concentrazione delle magistrature tradizionali, dal
consolato alla pretura, alla tribunicia potestas, al proconsolato
infinitus magnus per il governo di tutte le provinciae, il pontificatus
magnus, tutte sulla propria persona, insieme al comando di circa
cinquanta legioni (da lui stesso ridotte poi a venticinque). In tal modo
egli potè essere considerato e proclamato (nel 37 a.C.) Augusto, come
creatore con l’aiuto dei figli di sua moglie Livia, Tiberio e Druso,
ottimi generali in terra germanica del sempre più vasto impero romano,
al vertice del quale la sua indiscutibile abilità, alla testa d’una
vasta ed esperta burocrazia, egli costituì la sua ormai indiscussa
auctoritas di princeps, puritano nell’indirizzo della sua riforma morale
delle classi e dello Stato, pur continuando, in privato, ad esercitare
il proprio commaturato libertinaggio, trasmesso purtroppo alla figlia
Giulia maggiore, e alla nipote Giulia minore. Ma infine anche lui,
l’intoccabile Augusto, tra profondi dispiaceri cui dovette aggiungere
l’esilio delle due Giulie per la loro scostumatezza, la morte
precocissima dei due nipoti Gaio e Giulio, seguita da quella
dell’amatissimo e prezioso amico Agrippa, oltre che del secondo
figliastro Druso, ma forse soprattutto, la terribile sconfitta di
Teutoburgo che gli distrusse tre legioni rendendolo quasi folle,
incontrò la morte settantasettenne, nell’agosto del 14 d.C. quasi
recitando questa sua penultima battuta: Se ho ben recitato il mimo della
vita, applaudite. E l’ultima battuta rivolta alla moglie Livia,
collaboratrice e forse complice in molte sue discutibili iniziative, e
persino di qualche segreto crimine all’interno del Palazzo: «Livia
ricorda la nostra vita in comune e il nostro affetto».
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