Risvolto
Tra
l'estate del 1914 e la fine del 1918 si svolse il primo grande
conflitto che coinvolse quasi tutte le più influenti potenze mondiali e
che, per le caratteristiche di guerra totale che assunse, rappresentò la
più feroce contesa armata mai combattuta fino a quel momento. Questo
volume raccoglie le prime pagine del "Corriere" relative a quegli anni:
dall'attentato di Sarajevo all'intervento italiano, dal coinvolgimento
delle nazioni extraeuropee alle sanguinose battaglie su fronti
contrapposti fino all'armistizio che sancì la risoluzione delle
ostilità. Un libro per tutti gli appassionati di storia e per tutti
coloro che, attraverso una selezione arricchita da commenti e
approfondimenti, desiderano comprendere il significato e la portata di
un momento imprescindibile della storia dell'umanità. Con un inserto
speciale a colori sulle più belle prime pagine della "Domenica del
Corriere" degli anni della guerra.
Il 1913, un anno formidabile cieco davanti alla Catastrofe
Perché è inutile cercare il colpevole della Grande guerra
di Paolo Mieli Corriere 14.10.13
Nel
marzo del 1913, il professor Jacques-Ambroise Monprofit riferì sul
«Figaro» di una sua visita agli ospedali militari della Grecia e della
Serbia. Aveva notato che «le ferite causate dai cannoni venduti dalla
Francia agli Stati balcanici, e da loro utilizzati, non soltanto erano
le più numerose, ma anche le più gravi, con fratture ossee, lacerazione
di tessuti, sfondamento di casse toraciche e crani frantumati». Le
sofferenze prodotte da quei cannoni erano così devastanti, che un
esperto di chirurgia militare, Antoine Depage, ne propose un embargo
internazionale. Ma la risposta unanime fu un no. Quel potenziale di
morte doveva servire da deterrente contro ogni ipotesi di guerra.
«Comprendiamo quale sia la generosa motivazione della proposta di
embargo», commentò un editorialista del «Figaro», «ma se dobbiamo
attenderci che un giorno saremo sovrastati numericamente sul campo di
battaglia, allora è bene che i nostri nemici sappiano che abbiamo simili
terribili armi con cui difenderci». Alla vigilia della Prima guerra
mondiale, scrive Cristopher Clark in I sonnambuli. Come l’Europa arrivò
alla Grande guerra (di imminente pubblicazione per i tipi di Laterza,
nella traduzione di David Scaffei), «è possibile trovare riflessioni
così disinvolte pressoché ovunque». Si può davvero dire che «i
protagonisti del 1914 erano dei sonnambuli, apparentemente vigili e però
non in grado di vedere, tormentati dagli incubi, ma ciechi di fronte
alla realtà dell’orrore che stavano per portare nel mondo». Sì, ciechi.
Eppure
questi sonnambuli avevano dato vita ad un universo di talenti
intrecciati l’uno con l’altro, un mondo unico, zeppo di coincidenze
straordinarie e per certi versi magico. È quel che ha provato a
dimostrare lo storico dell’arte Florian Illies in un altro magnifico
libro di imminente pubblicazione: 1913. L’estate del secolo (Marsilio).
Che cosa ha avuto di particolare quell’anno, l’ultimo prima dello
scoppio della guerra? L’Europa si è riempita di personalità
ineguagliabili. Nel gennaio del 1913 è probabile che l’esiliato Josif
Stalin e Adolf Hitler si siano sfiorati mentre passeggiavano (era una
loro abitudine) nel parco viennese di Schönbrunn. Sempre a Vienna, in
febbraio, Stalin e Lev Trotzkij si incontrano per la prima volta,
proprio nel momento in cui a Barcellona nasce Jaime Ramon Mercader,
l’uomo che ucciderà Trotzkij per conto di Stalin. In quegli stessi
giorni Vladimir Lenin scrive a Maksim Gorkij: «Una guerra fra Austria e
Russia potrebbe essere molto utile alla rivoluzione in Europa; solo è
difficile immaginare che Francesco Giuseppe e lo zar Nicola vogliano
farci questo piacere». Il 1913 è l’anno in cui a Monaco Oswald Spengler,
suggestionato dal naufragio del Titanic avvenuto nel 1912, inizia a
scrivere Il tramonto dell’Occidente . L’anno in cui Pablo Picasso e
Georges Braque passano al «cubismo sintetico». In cui si avrà la
definitiva rottura tra Sigmund Freud e Carl Gustav Jung («Le propongo di
cessare completamente i nostri rapporti privati; io non ci perdo nulla,
perché ormai da lungo tempo ero legato a lei soltanto dal filo sottile
delle delusioni», scriveva in gennaio il maestro all’allievo).
È la
stagione in cui, oltre a Freud, a Vienna davano eccezionale prova di sé
Arthur Schnitzler, Egon Schiele, Gustav Klimt, Adolf Loos, Karl Kraus,
Otto Wagner, Hugo von Hofmannsthal, Ludwig Wittgenstein, Georg Trakl,
Arnold Schönberg, Oscar Kokoschka. Tra loro si stabilisce una rete di
curiose interrelazioni. Che ingloba Robert Musil, a cui un medico
diagnostica «chiari segni di nevrastenia» («Ma quella che nel 1913
diventa malattia mentale», annota nel proprio diario l’autore de I
turbamenti del giovane Törless parlando di Dante Alighieri, «nel
Duecento potrebbe essere stata considerata una semplice manifestazione
di eccentricità»). La rete si estende anche fuori da Vienna. A Praga un
altro «nevrastenico» eccellente, Franz Kafka («Voglio curarmi mediante
il lavoro», scrive all’amico Max Brod), e Albert Einstein, che ha
lasciato la città alla fine del ‘12; a Berna Hermann Hesse; in
Inghilterra Virginia Woolf, che nel pieno di una depressione porta a
termine La crociera (fino al 1929 ne venderà solo 479 copie). In
Germania Thomas Mann, a Parigi Rainer Maria Rilke. Marcel Proust
pubblica il primo volume della Ricerca del tempo perduto («La vita è
troppo breve e Proust troppo lungo», lo stronca Anatole France). E
ancora a Berlino George Grosz, a Monaco Vasilij Kandinskij che stringe
amicizia con Paul Klee, nella capitale francese Robert Delaunay,
Frantisek Kupka e Marcel Duchamp, in Russia Kazimir Malevic, in Olanda
Piet Mondrian.
Il 1913 è l’anno in cui Albert Schweitzer vende tutti
i suoi beni e si trasferisce in Africa. Walter Gropius pubblica i
Progressi della moderna architettura industriale . Igor Stravinskij
festeggia la prima de Le sacre du printemps . Max Weber conia
l’espressione «disincantamento del mondo». Edmund Husserl dà alle stampe
I dee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica .
Ludwig Mies van der Rohe apre il suo studio di architettura a Berlino.
Di nuovo a Parigi André Gide, Igor Stravinskij e Jean Cocteau assistono
assieme alle prove del balletto di Nizinskij su coreografie di Djagilev e
musica di Claude Debussy: litigano con gli artisti perché definiscono
lo spartito «esile» e il costume del ballerino «effeminato e ridicolo».
Alla prima assiste Gabriele d’Annunzio, giunto in Francia per fuggire
dai creditori italiani. Giorgio de Chirico dipinge Piazza d’Italia .
Franz Wedekind si rifugia a Roma dopo il divieto di mettere in scena
Lulù («Ma se ci si vuole divertire, meglio andare a Parigi», scrive alla
moglie Tilly).
Verso la fine dell’anno tutto si fa più cupo. Carl
Schmitt prende nota di una intenzione suicida: «A nessuno importa
niente, a nessuno importa di me, a me non importa di nessuno», scrive.
Walther Rathenau dedica il suo libro Meccanica dello spirito alle «nuove
generazioni». Il 20 novembre Kafka annota nel suo diario: «Al
cinematografo. Ho pianto». Il 15 dicembre Ezra Pound scrive a un James
Joyce pressoché sconosciuto e povero in canna per chiedergli qualcosa da
pubblicare: «Egregio signore, stando a quanto mi dice Yeats, potrei
quasi pensare che io e lei siamo accomunati da qualche avversione», gli
dice. Poche settimane dopo Joyce gli invia Ritratto dell’artista da
giovane e Gente di Dublino . Il 31 dicembre Arthur Schnitzler confida al
proprio taccuino di aver finito di dettare la novella Follia , di aver
letto un libro di Ricarda Huch sulla guerra in Germania (quella del
1870) e di aver trascorso una «giornata molto nervosa».
Il ritratto
che Florian Illies traccia dell’ultimo anno di pace è davvero fuori dal
comune. Decine, centinaia di storie offrono il quadro di un concentrato
di geni (e qui ne abbiamo tralasciati moltissimi) probabilmente unico
nella storia dell’umanità. Geni che si affacciarono al 1914 con qualche
presentimento di quel che stava per accadere. Anche se tutti loro lo
percepivano come qualcosa di individuale che atteneva alla sfera della
melanconia, di un qualche turbamento del proprio sistema nervoso. Così
come i loro governanti. Tanto che, quando poi scoppiò la guerra, le
classi dirigenti fecero fatica ad accorgersi di quel che stava davvero
accadendo. Qualcuno, come il corrispondente del «Times» Henry Wickham
Steed, dirà poi — ricorda Christopher Clark — d’aver avvertito lo
scricchiolio. In una lettera, del 1954, Wickham Steed scriverà al
direttore del «Times Literary Supplement» che quando nel 1913 aveva
lasciato l’Impero austro-ungarico, aveva «sentito» che «stava scappando
da un edificio destinato alla fine» (ma nel 1913 aveva scritto
tutt’altro e cioè che «in dieci anni di osservazione e di esperienza»
non aveva percepito «nessuna ragione sufficiente» per cui la monarchia
asburgica «non dovesse mantenere il suo legittimo posto nella comunità
europea»).
All’epoca dello scoppio della guerra dunque il livello di
consapevolezza fu assai scarso. Tant’è che, nota Clark, in Francia la
notizia di Sarajevo venne di fatto scalzata dalle prime pagine dei
giornali dallo «scandalo Caillaux». In marzo madame Caillaux, moglie
dell’ex primo ministro Joseph Caillaux, era entrata nell’ufficio del
direttore del «Figaro», Gaston Calmette, e gli aveva sparato sei colpi.
Il movente del delitto era, a detta della sparatrice, la campagna che il
quotidiano aveva condotto contro suo marito, pubblicando fra l’altro le
lettere d’amore che la signora aveva scritto al futuro coniuge quando
lui era ancora sposato con la prima moglie. Il processo avrebbe dovuto
aprirsi il 20 luglio «e l’interesse del pubblico per questa vicenda, che
univa uno scandalo a sfondo sessuale e un crime passionnel commesso da
una donna molto in vista nella vita pubblica francese, fu naturalmente
immenso». Ancora il 29 luglio, l’importante «Le Temps» dedicò
all’assoluzione di madame Caillaux (decretata in base alla tesi secondo
cui «la provocazione era un elemento tale da giustificare il delitto»)
un rilievo doppio rispetto a quello riservato alla crisi che di lì a
qualche giorno avrebbe trascinato in guerra l’intera Europa.
«Non
riuscirò mai a capire come sia potuto accadere», disse al marito la
scrittrice Rebecca West 22 anni dopo, mentre si trovavano sul balcone
del municipio di Sarajevo. Non perché non sapesse individuare le cause
dello scoppio del conflitto, ma perché ce n’erano «troppe». Un po’ come
quello che ha rischiato di accadere ai giorni nostri (e forse rischia
ancora) con la crisi finanziaria europea. «È singolare», scrive Clark,
«che gli attori della crisi dell’Eurozona, come quelli del 1914, siano
stati consapevoli dell’esistenza di un possibile esito dalle conseguenze
catastrofiche (la fine dell’euro); tutti i principali protagonisti
speravano che ciò non sarebbe accaduto, ma oltre a questo comune
interesse, ne avevano anche molti altri particolari, fra loro
contrastanti, e in un sistema in cui esistono molteplici interrelazioni,
le conseguenze di qualsiasi azione di un elemento dipendono dalle
reazioni degli altri, che sono difficili da valutare in anticipo, data
la scarsa chiarezza dei processi decisionali». Così «nel corso di tutto
il processo, i soggetti politici dell’Eurozona hanno sfruttato la
possibilità di una catastrofe generale come strumento su cui far leva
per assicurarsi i propri specifici benefici». Oggi come allora.
A un
secolo dallo scoppio della Prima guerra mondiale, fioriscono
parallelismi, al punto che si può quasi dire che, alla fine del 2013 più
che mai, quegli uomini del 1914 appaiono come «nostri contemporanei».
Ma è sempre stato così? No. Si può affermare, secondo Clark, che il
luglio del 1914 «è meno distante da noi – meno illeggibile – di quanto
non lo fosse negli anni Ottanta». Dopo la fine della guerra fredda, un
sistema globale di stabilità bipolare ha lasciato il posto ad una più
complessa e imprevedibile varietà di forze, ivi compresi imperi in
declino e potenze in ascesa, una situazione che invita al confronto tra
l’epoca attuale e quella di cento anni fa. Si tratta di semplici
somiglianze, niente di più.
Un esempio: dopo l’assassinio
dell’arciduca Francesco Ferdinando, gli amici della Serbia non
concessero a Vienna il diritto di inserire nelle sue richieste a
Belgrado uno strumento per controllare e far rispettare l’adempimento
degli obblighi previsti. Le pretese in tal senso furono respinte in
quanto «inconciliabili con la sovranità serba». Come è accaduto, secondo
l’autore, con il dibattito svoltosi nel Consiglio di sicurezza dell’Onu
nell’ottobre 2011 su una proposta — caldeggiata dagli Stati membri
della Nato — di imporre sanzioni alla Siria di Assad per prevenire
ulteriori massacri degli oppositori al regime di Damasco. E di morti
all’epoca il despota siriano ne aveva già provocati quasi trentamila
(adesso sono oltre centodiecimila). Ma il rappresentante della Russia
sostenne che quella proposta rispecchiava un inappropriato «approccio
aggressivo» tipico delle potenze occidentali, mentre secondo l’emissario
cinese alle Nazioni Unite le sanzioni erano inaccettabili in quanto non
potevano conciliarsi con la «sovranità» siriana.
Ancora. 95 anni fa,
il fatto che una Jugoslavia a predominio serbo fosse tra gli Stati
vincitori della guerra, sembrò implicitamente scagionare l’atto
dell’uomo che il 28 giugno premette il grilletto contro l’arciduca
austriaco e sua moglie. In un’epoca in cui l’idea nazionale era ancora
viva e densa di promesse, «si manifestò un’istintiva simpatia per il
nazionalismo degli slavi del Sud e un sentimento di segno opposto nei
confronti del multinazionale Impero asburgico» Le guerre jugoslave degli
anni Novanta hanno modificato quest’ottica, ricordandoci tutto il
potenziale di pericolosità contenuto nei nazionalismi balcanici. Adesso
le cose stanno in modo diverso. Dopo «eventi come quello di Srebrenica e
l’assedio di Sarajevo, è diventato più difficile pensare alla Serbia
come a una semplice pedina o vittima della politica delle grandi
potenze, e di conseguenza è diventato più facile concepire il
nazionalismo serbo come un’autonoma forza storica». Dall’odierna
prospettiva dell’Unione Europea, scrive Clark, siamo portati a guardare
«con maggior simpatia — o almeno con minor disprezzo — di un tempo»
all’ormai scomparso mosaico imperiale dell’Austria-Ungheria asburgica.
Altra
possibile analogia, tra allora e oggi, sta nell’«indebolimento
complessivo della politica». Di fatto, secondo Clark, non si può neanche
dire con certezza che il termine «politica» sia sempre appropriato in
relazione al contesto pre-1914, «dato il carattere approssimativo e
ambiguo di molti degli obblighi in essere». È assai discutibile che nel
biennio che precedette il 1914, Russia e Germania avessero un’autentica
politica balcanica: ci troviamo in presenza di una molteplicità di
iniziative, di scenari e di atteggiamenti, in base ai quali «risulta
talvolta difficile scorgere un chiaro orientamento complessivo».
All’interno dei rispettivi esecutivi statali, «la variabilità dei
rapporti di potere faceva anche sì che coloro i quali formulavano la
linea politica operassero sotto una notevole pressione interna,
proveniente non tanto dalla stampa, dall’opinione pubblica, da gruppi di
interesse industriale o finanziario, quanto dagli avversari interni
alle loro stesse élites o ai governi».
Infine, oggi «è forse più
facile vedere che non è opportuno liquidare l’uccisione di Sarajevo come
un semplice incidente non in grado di condizionare gli eventi».
L’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 ha mostrato come un
unico, simbolico evento — per quanto profondamente intrecciato a
processi storici più vasti — «possa modificare irrevocabilmente le
dinamiche politiche, rendendo obsolete le vecchie opzioni e conferendo
alle nuove un’imprevedibile urgenza». Rimettere Sarajevo e i Balcani al
centro della vicenda non significa demonizzare i serbi, né i loro
statisti e neppure sottrarsi all’obbligo di comprendere le forze che
operarono su quei politici, ufficiali e attivisti serbi che con il loro
comportamento e le loro decisioni contribuirono a determinare le
conseguenze di quello sparo iniziale.
In questo senso va accantonato
una volta per tutte il concetto di colpa e di responsabilità per
l’inizio della guerra. Tutte le fonti documentarie sono zeppe di
attribuzioni di colpa («Era un mondo in cui le intenzioni aggressive
venivano sempre addebitate all’avversario, e quelle difensive attribuite
a se stessi», scrive Clark) e il giudizio enunciato dall’articolo 231
del trattato di Versailles contribuì a far sì che la questione della
«colpa della guerra» rimanesse in primo piano. Oggi, continua Clark, non
ha senso alcuno avvicinarsi a un libro sulla Grande guerra come si fa
con un giallo di Agatha Christie, cioè confidando che nelle ultime
pagine si conoscerà il colpevole. Una delle tante ragioni di demerito
del trattato di pace di Versailles fu quella di aver individuato,
all’articolo 231 appunto, negli sconfitti i responsabili della guerra.
Lo scenario balcanico da cui scaturì il conflitto «non fu il risultato
di una politica né di un piano o di un complotto maturato costantemente
nel corso del tempo», né vi fu alcuna relazione di necessità fra le
posizioni adottate nel 1912 e nel 1913 e l’entrata in guerra l’anno
successivo.
Lo scenario balcanico — «che di fatto era uno scenario
serbo» — non spinse l’Europa verso la guerra che poi sarebbe
effettivamente scoppiata nel 1914: «Esso piuttosto fornì il quadro
concettuale all’interno del quale la crisi venne interpretata una volta
che si aprì». Ed è nel contesto di quel quadro concettuale che poté
accadere che la Russia e la Francia legassero, «in modo estremamente
asimmetrico», la sorte di due fra le maggiori potenze mondiali ai
destini di uno Stato turbolento e a tratti violento quale era appunto la
Serbia. La ricerca della colpa «predispone chi indaga a interpretare a
priori le decisioni dei responsabili politici come fossero pianificate
in anticipo e mosse da un intento coerente». Bisogna mostrare che chi ha
causato la guerra aveva la consapevole volontà di farlo. Nella sua
forma estrema, questo modo di procedere genera racconti influenzati
dall’idea del complotto, nei quali una ristretta cerchia di individui
potenti, «come i cattivi dei film di spionaggio», controlla gli eventi
da dietro le quinte, seguendo il copione di un piano perverso. Si può
capire «la soddisfazione morale che tali ricostruzioni possono
comportare», e ovviamente a lume di logica non è impossibile che
nell’estate del 1914 la guerra sia scaturita da un processo del genere,
solo che, a seguito di un vaglio accurato, va detto nel modo più netto
che tale interpretazione «non è sostenuta da elementi di fatto».
Eppure
gran parte dell’immensa mole di ricostruzioni dell’antefatto,
svolgimento e conseguenze della Prima guerra mondiale deve fare i conti
con la nozione di «colpa», con la ragion politica più che con la libera
ricerca storica. Soprattutto tra le due guerre, allorché la Germania
pubblicò un’opera in quaranta volumi, che comprendeva 15.889 documenti
suddivisi in trecento aree tematiche, al solo scopo di confutare la tesi
colpevolista del trattato di Versailles. La Francia, per parte sua,
fece lo stesso e il ministro degli Esteri Jean-Louis Barthou, nel 1934,
ammise che la pubblicazione di documenti predisposta dal governo di
Parigi aveva un «carattere essenzialmente politico». A Vienna il
condirettore della collana che pubblicò i documenti austriaci, Ludwig
Bittner, nel 1926 spiegò che si era proceduto in tal senso prima che
qualche organismo internazionale li obbligasse a farlo «in circostanze
meno favorevoli». Anche a Vienna dunque la spinta fu interamente
politica. Così come in Russia. Le prime raccolte di documenti di parte
sovietica furono almeno parzialmente motivate dal desiderio di
ricondurre allo zar, e al «suo amico Raymond Poincaré» (il presidente
francese), la responsabilità di aver iniziato la guerra «sperando con
ciò di delegittimare le richieste francesi di rimborso dei prestiti
prebellici». La Gran Bretagna invece annunciò che avrebbe pubblicato
tutto, anche ciò che fosse politicamente sconveniente, ma presto si poté
constatare che «la raccolta documentaria data alle stampe presentava
tendenziose omissioni, tanto da offrire un quadro non del tutto
equilibrato del ruolo che gli inglesi avevano avuto negli eventi che
precedettero lo scoppio della guerra». Un immenso caos che, già nel
1929, lo storico militare tedesco Bernhard Schwertfeger definì «guerra
mondiale dei documenti».
Per non parlare poi dei macroscopici casi
di reticenza. Nelle Considerazioni sul conflitto pubblicate nel 1919, il
cancelliere tedesco Theobald von Bethmann Hollweg non dice pressoché
nulla sui comportamenti suoi e dei suoi colleghi nel luglio del 1914, il
mese decisivo che precedette lo scoppio della guerra vera e propria. Le
memorie del ministro degli Esteri russo, Sergej Sazonov, in alcuni
punti sono ad ogni evidenza mendaci. I dieci volumi delle memorie di
Poincaré «sono attenti più alla propaganda» che a rivelare notizie di
una qualche sostanza. E si riscontrano «sorprendenti discrepanze» fra i
«ricordi» dell’ex presidente in merito agli eventi e le note che
all’epoca aveva scritto nel suo diario. «Vaghe» vengono giudicate da
Clark le «pur piacevoli» rimembranze di sir Edward Grey, già ministro
degli Esteri britannico. Ci sono poi gli infiniti casi che stanno lì a
dimostrare i riaggiustamenti delle memoria. Nessuno ricordava di aver
fatto degli sbagli.
Quando alla fine degli anni Venti lo storico
americano Bernadotte Everly Schmitt venne in Europa per parlare con i
protagonisti dei fatti di 15 anni prima, Grey fu l’unico che ammise di
aver commesso qualche errore, pur se di importanza secondaria. Ma lo
storico ebbe l’impressione che le parole di Grey «riflettevano una
concessione all’autodenigrazione che rientrava nel tipico stile di chi
in Inghilterra occupa posizioni di rilievo, piuttosto che una sincera
ammissione di responsabilità». Schmitt rintracciò poi l’ex ministro
delle Finanze russo Pëtr Bark, che faceva il banchiere a Londra e non
ricordava quasi nulla (ma fortunatamente aveva tenuto qualche prezioso
appunto su quei delicatissimi giorni).
C’erano infine problemi di
evidente manipolazione postuma. Quando nell’autunno del 1937 lo studioso
Luciano Magrini si recò a Belgrado, per intervistare i sopravvissuti
tra quanti avevano partecipato al complotto che aveva portato Gavrilo
Princip a premere il grilletto, «dovette constatare che alcuni testimoni
riferivano di questioni delle quali non potevano avere conoscenza,
altri tacevano o alteravano quello che sapevano e altri ancora
aggiungevano fronzoli ai loro racconti o si preoccupavano di cercare
giustificazioni a proprio vantaggio». Peggio. Molti contatti importanti
tra i principali protagonisti erano a voce e non hanno lasciato traccia,
sicché possono essere ricostruiti soltanto ricorrendo a fonti indirette
o a testimonianze successive. Le organizzazioni serbe collegate con
l’attentato di Sarajevo avevano un carattere rigorosamente segreto e non
lasciavano quasi nessuna documentazione scritta.
Gli assassini di
Sarajevo, scrive Clark, «fecero ogni sforzo possibile per occultare le
tracce di un loro collegamento con Belgrado… Molti dei sopravvissuti tra
i partecipanti si rifiutarono di parlare del loro coinvolgimento, altri
esagerarono o ridimensionarono il ruolo che avevano svolto, oppure
nascosero gli indizi con fumose speculazioni, generando un vero e
proprio caos di testimonianze discordanti». Il complotto stesso non
lasciò alcuna documentazione: «Praticamente tutti coloro che vi presero
parte erano abituati a muoversi in un contesto ossessionato dalla
segretezza; la collusione tra lo Stato serbo e le reti implicate nella
congiura era volutamente occulta e informale, di fatto non c’erano
tracce scritte». La storiografia sulla cospirazione «ha quindi dovuto
districarsi fra un’incerta mescolanza di ricordi risalenti al
dopoguerra, deposizioni e dichiarazioni giurate rilasciate sotto
minaccia, affermazioni presumibilmente basate su fonti poi distrutte e
brandelli di prove documentarie, nella maggior parte dei casi riferite
solo indirettamente alla pianificazione e all’attuazione del complotto».
Risultato: la letteratura sulle cause della Prima guerra mondiale —
vent’anni fa si stimavano 25 mila tra volumi e saggi su questo tema —
oggi non aiuta a capire. O, comunque, aiuta meno di quanto ci si
aspetterebbe. Oltretutto ha assunto proporzioni talmente vaste che
nessun singolo storico («neppure un’immaginaria figura di studioso in
grado di padroneggiare tutte le lingue richieste») può sperare di
poterla leggere per intera nell’arco di una vita.
Nel nuovo
approccio alla Prima guerra mondiale, quello successivo alla prolungata
stagione della ricerca della colpa, viene da domandarsi, scrive Clark,
se «discutendo della situazione internazionale o delle minacce esterne, i
protagonisti dell’alta politica di quei tempi avessero davanti agli
occhi qualcosa di reale o proiettassero le proprie personali paure e i
propri desideri sui loro avversari, o facessero entrambe le cose
insieme». E così tutti i più interessanti contributi recenti hanno
sostenuto che la guerra, lungi dall’essere inevitabile, era di fatto
«improbabile».
Perlomeno finché non esplose davvero, il conflitto
non fu la conseguenza di un deterioramento in atto da lungo tempo, bensì
di «traumi di breve termine che scossero il sistema internazionale». Il
che spiega tanti fraintendimenti della prima ora. Come quello che
capitò alla legazione russa di Belgrado, l’unica nella capitale serba a
non esporre la bandiera a mezz’asta il giorno del funerale dell’arciduca
ucciso da Princip. Anzi, si era diffusa la voce che la sera successiva
all’attentato l’ambasciatore Nikolaj Hartwig avesse dato un ricevimento
nella legazione russa, dalla quale si sarebbero sentite provenire
«acclamazioni e risate». Hartwig chiese un incontro con l’ambasciatore
austriaco Wladimir Giesl, che glielo concesse e si disse soddisfatto dei
suoi chiarimenti. Solo che alla fine della cordiale chiacchierata, alle
nove e venti di sera, il diplomatico russo ebbe un colpo apoplettico e
morì. La baronessa Giesl fece immediatamente la sue condoglianze alla
figlia di Hartwig, Ludmilla, che però le respinse, dicendosi
indifferente a quelle «parole austriache». Nonostante fossero evidenti
le cause del tutto naturali della morte del rappresentante russo, furono
compiute indagini come se si trattasse di un assassinio. La stampa
locale si impossessò della vicenda e descrisse i Giesl come dei «moderni
Borgia», la Russia consentì a che, come richiesto dalla famiglia,
Hartwig fosse seppellito in Serbia, e a lui furono riservati funerali di
Stato di una «pomposità senza precedenti».
L’Europa si avviava in
quei giorni a passi rapidi verso la notte. «La luce si è spenta»,
scrisse in una lettera di fine luglio il primo ministro britannico
Herbert Asquith. I giornali inglesi (ad eccezione del «Times», che
perorò la causa di un intervento britannico nell’imminente conflitto)
furono indifferenti alla crisi che si era prodotta dopo l’uccisione di
Francesco Ferdinando e della moglie Sofia. «Tanto poco Belgrado si
preoccupa di Manchester, altrettanto poco Manchester si preoccupa di
Belgrado», sentenziò il «Guardian». Il cui direttore, Alfred George
Gardiner, vergò il 1° agosto un editoriale dal titolo «Perché non
dobbiamo combattere». Stesso atteggiamento da parte dello «Yorkshire
Post», che non vedeva «ragione per cui la Gran Bretagna dovesse
occuparsi del conflitto». E così anche il «Cambridge Daily News», che
definì «trascurabile» l’interesse inglese nell’intera vicenda. Di
«dovere dell’Inghilterra» parlò l’«Oxford Chronicle», ma questo
imperativo era quello di «mantenere localizzata la disputa e di badare
bene a tenersene fuori».
Asquith, come si evince dalla lettera di
cui si è detto, era preoccupato soprattutto perché un tentativo di
trovare un accordo sull’Ulster era fallito a causa della complessa
geografia confessionale delle contee di Tyrone e Fermanagh. Poi
accennava del tutto marginalmente alla crisi che si profilava in Europa,
specificando: «Fortunatamente non sembra vi sia ragione per cui dovremo
essere qualcosa di più che spettatori». E la «luce spenta»?
L’offuscarsi del bagliore era riconducibile, per Asquith, al fatto che
una sua giovane amica, Venetia Stanley, un’elegante e intelligente donna
di mondo, quel giorno aveva lasciato Londra per trasferirsi nella casa
di campagna ad Anglesey.
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