sabato 2 novembre 2013
Ancora su Karel Kosík
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APERTURA - Claudio Canal il manifesto 2013.11.01 - 11 CULTURA
SAGGI - Una raccolta di scritti del filosofo Karel Kosík per la casa editrice Mimesis
Protagonista centrale della Primavera di Praga, ha analizzato la «pseudoconcretezza» della globalizzazione
Se fossi un filosofo ventenne che prende in mano Dialettica del concreto
di un ignoto Karel Kosík potrei scambiarlo per un pensatore
radicalmente critico dell'attuale fase di dittatura del mercato.
Lapidario: «Nell'economia capitalistica, si verifica il reciproco
scambio di persone e cose, la personalizzazione delle cose e la
cosificazione delle persone». Dialettica del concreto ha invece
cinquant'anni (1963, in italiano 1965), ma non li dimostra. L'autore è
nato a Praga nel 1926 e nella città d'oro è morto dieci anni fa, ha
avuto l'opportunità di impastare pensiero e realtà commisurandosi
severamente con lo spirito del tempo della sua vita: si è opposto
giovanissimo al nazismo, finendo nel campo di concentramento di Terezín,
anticamera di Auschwitz e dolente officina di musiche, ha contrastato
creativamente il socialismo stalinista, subendone la dura repressione,
ed infine, dopo il 1989, si è sottratto all'infatuazione collettiva per
le virtù neoliberiste, venendo un'altra volta isolato da coloro che
invece le hanno idolatrate.
Come uno Sveik filosofo non è mai stato
al gioco che veniva imposto dai poteri e dagli apparati culturali, come
un Kafka sorridente il cui «sorriso enigmatico non è doloroso, tantomeno
lamentoso, ma sa cos'è il dolore».
Nella bella e importante raccolta
di scritti: Karel Kosík. Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia.
Saggi di pensiero critico 1964-2000 (a cura di Gabriella Fusi e
Francesco Tava, Mimesis, pp. 278, euro 24) una decina di splendide
pagine sono dedicate a Gregor Samsa - in realtà a Grete, la sorella -
l'uomo che cambia aspetto nella Metamorfosi kafkiana, e qui,
inevitabile, compare Milena Jesenská, l'amica di Kafka: «Il suo destino
consiste nel fatto che, in quella situazione senza uscita che fu il
breve periodo dall'autunno del 1938 all'autunno del 1939, lei si è
opposta contemporaneamente a tutte le tre forme del male allora
presenti: sia al male del nazismo tedesco, sia al male del bolscevismo
russo, sia al male della viltà europea di Monaco». Milena che nel campo
di concentramento di Ravensbrück non stava mai in fila, fuoriusciva
dall'ordine imposto, come ci racconta Margarete Buber Neumann. Kosík la
sentiva come sorella di destino, lui che aveva contribuito a riconoscere
l'importanza di Kafka, che i beccamorti del regime consideravano un
piccolo borghese decadente.
La manipolazione del potere
Kosík
era stato un protagonista della Primavera di Praga, che nella memoria e
nella narrazione mediatica è ricordata solo nel suo inverno: i carri
armati sovietici che cigolano in piazza Venceslao. Una primavera ancora
tutta da vivere, non solo a Praga. «La Primavera di Praga a suo tempo
dovette essere soffocata, oggi deve essere minimizzata o lasciata cadere
nel dimenticatoio: recava in se l'embrione di una alternativa storica».
Un marxismo sfigurato che per le vie della città appariva invincibile
nei volti prima attoniti poi brutali dei soldati sovietici che
spuntavano dalle torrette dei T65 e che in realtà annunciavano il
suicido differito di quel socialismo manipolatorio e burocratico. «Se
l'esperimento cecoslovacco dovesse riuscire - scriveva nel 1968 Kosík -
noi ci troveremmo di fronte alla prova pratica che il sistema della
manipolazione generale può essere superato, e in ambedue le forme
storiche oggi dominanti: tanto in quella dello stalinismo burocratico
quanto in quella del capitalismo democratico».
Embrione di una alternativa
La
costruzione dell'embrione di una alternativa storica è il compito che
Kosík assegna alla filosofia e al suo marxismo rivoluzionario e
umanistico: «La filosofia è la festosa iniziazione ai segreti della
realtà: perciò è, al tempo stesso, critica della mera apparenza, è
distruzione della pseudoconcretezza» che come un chiaroscuro di verità e
di inganno plasma le nostre vite, una pseudoconcretezza onnipervasiva
in cui siamo risucchiati, che assorbe tutte le nostre energie, smarriti
in una prassi di «cura» che ci impedisce di vederne il carattere
derivato, sociale, non fisso. «La cura è la mera attività dell'individuo
sociale isolato» che non riesce, accecato dalla pseudoconcretezza, a
vedere le cose come prodotti sociali, che siano l'automobile, lo Stato,
lo spread o il mercato.
In ceco, ricorda Kosík, la parola mercato
risulta dalla combinazione di tre lettere magiche Trh, a cui tutti
prestano una amabile attenzione, decantandone i vantaggi che
apporterebbe ai ricchi e ai poveri. «La caratteristica del tempo in cui
viviamo non è il mercato, bensì la globalizzazione capitalistica, il
dominio planetario del supercapitale. Chi confonde il mercato con il
capitalismo nega l'esistenza del supercapitalismo come potenza
planetaria. Per esso il mercato è soltanto uno strumento subordinato al
proprio funzionamento». C'è una lumpenborghesia che governa il mondo, il
latifondo planetario, reclutata fra i nuovi ricchi e che «unisce
l'imprenditorialità con la mafiosità, la truffaldinità con la
criminalità organizzata. La lumpenborghesia è un'enclave combattiva,
apertamente antidemocratica all'interno di una democrazia funzionante,
ma imperfetta e irresoluta». La distruzione della pseudoconcretezza,
dell'apparenza del reale, resta l'incompiuto dovere della filosofia.
Questo il tono delle meditazioni antidiluviane che Kosík venne
pubblicando a metà degli anni Novanta, con il dichiarato intento di
combattere il diluvio della voracità senza limiti inneggiata da Gordon
Gekko nel film «Wall Street» del 1987. Il film del nostro presente, che
attende la sua Primavera: «Ciò che libera, germoglia e matura
lentamente, sullo sfondo, e all'inizio si manifesta come esiguità
risibile. Ma la storia ci fornisce esempi di inizi in-significanti dai
quali sono derivati grandi avvenimenti. Per quanto possa sembrare
esiguo, importante è l'inizio».
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