lunedì 6 gennaio 2014

Genealogia benecomunista: ben peggio che premoderna

libroAndrea Di Porto: Res in usu publico e ’beni comuni’. Il nodo della tutela, Giap­pi­chelli, pp. XXVI-89, euro 10


L’albero genealogico dei beni comuni 
Tempi presenti. In un agile volumetto di cultura giuridica, Andrea Di Porto affronta anche il nodo della tutela, chiamando in causa il diritto romano per arrivare alle sentenze della Corte di Cassazione

Ugo Mattei, il Manifesto 16.12.2013 


Il dibat­tito giu­ri­dico sui beni comuni, aper­tosi in Ita­lia nell’ambito degli studi sulla pro­prietà pub­blica ini­ziati presso l’Accademia dei Lin­cei e sfo­ciati nel dise­gno di legge della cosid­detta Com­mis­sione Rodotà, si arric­chi­sce di un nuovo inte­res­san­tis­simo con­tri­buto. L’agile volu­metto di Andrea Di Porto — Res in usu publico e ’beni comuni’. Il nodo della tutela, Giap­pi­chelli, pp. XXVI-89, euro 10 — che qui si segnala, è opera di uno di quei rari espo­nenti della nostra nume­rosa pro­ge­nie di cat­te­dra­tici di diritto romano che sa cogliere quanto del diritto romano resta vivo ed inte­res­sante per i pro­blemi dell’oggi. Di Porto aveva già dimo­strato que­sta qua­lità con un pre­ce­dente lavoro mono­gra­fico dedi­cato al diritto mer­can­tile romano e inti­to­lato signi­fi­ca­ti­va­mente Lo schiavo mana­ger. 

È un libro di cul­tura giu­ri­dica acces­si­bile tut­ta­via al let­tore laico per­ché capace di rifug­gire da una visione tec­nica e for­ma­li­stica del diritto per abbrac­ciarne invece una atten­tis­sima all’interpretazione e ai nessi fra le norme for­mali e le grandi forze poli­ti­che e sociali che deter­mi­nano le tra­sfor­ma­zioni del nostro vivere insieme. Tale approc­cio, cul­tu­ral­mente ricco, che sta lon­tano dall’uso di ogni gergo ini­zia­tico, rende il diritto e la sua sto­ria acces­si­bile a tutti. Un atteg­gia­mento que­sto, che riflette la natura viva del diritto, sco­stan­dosi da quella visione — ad un tempo tec­no­cra­tica e for­ma­li­sta — che pur­troppo ancora pre­vale net­ta­mente nella nostra magi­stra­tura e pub­bli­ci­stica «poli­ti­cally cor­rect». Il for­ma­li­smo da lì si irra­dia in quella sorta di feti­ci­smo della lega­lità che, impa­dro­nen­dosi di ampi strati della popo­la­zione (testi­mo­nial di que­sta ten­denza, paiono Roberto Saviano e il pro­cu­ra­tore Caselli), porta a con­fon­dere sem­pre più spesso la lega­lità con l’ordine pub­blico e a far scom­pa­rire il grande tema della legittimità. 
Una sto­ria antica 

Quello che Di Porto offre, con il tono mode­stis­simo e som­messo che ne carat­te­rizza lo stile, è una prima vera genea­lo­gia tec­nica dei beni comuni nella nostra tra­di­zione giu­ri­dica, qual­cosa che man­cava nella let­te­ra­tura e che regala dimen­sione sto­rica e anche «un senso» alla bat­ta­glia poli­tica, qual­che volta sprez­zan­te­mente irrisa come «beni­co­mu­ni­sta», che l’autore rico­no­sce come «nobile» e nella quale chi si cimenta da giu­ri­sta non può certo dimen­ti­care la valenza pro­fes­sio­nale quan­to­meno tat­tica (che invece sfugge com­ple­ta­mente a diversi eco­no­mi­sti e filo­sofi che si affan­nano a denun­ciare la natura «ideo­lo­gica» del benicomunismo). 

In effetti, la genea­lo­gia poli­tica sui beni comuni, dalla Seconda sco­la­stica a Tom­maso Moro, da Rous­seau a Prou­d­hon, al Marx della cosid­detta accu­mu­la­zione ori­gi­na­ria, era a dispo­si­zione. Quella che ci pre­senta Di Porto non era ancora stata messa a fuoco: dalla Roma repub­bli­cana alla pan­det­ti­stica del secondo otto­cento, con Burns e il grande Vit­to­rio Scia­loja, pas­sando per altri «mostri sacri» della nostra cul­tura giu­ri­dica, Pasquale Sta­ni­slao Man­cini, Ludo­vico Mor­tara e Mariano D’Amelio, fino agli anni cin­quanta con gli studi di Fran­ce­sco Casa­vola e Mas­simo Severo Gian­nini, poi la messa a punto di Paolo Grossi negli anni set­tanta, per giun­gere appunto alla Com­mis­sione Rodotà (2007) e alle Sezioni Unite della Corte di Cas­sa­zione del 2011 con il suo attuale rico­no­sci­mento dei «beni comuni» nel novero delle cate­go­rie del nostro diritto positivo. 

Di Porto ci rac­conta una sto­ria che sol­tanto appa­ren­te­mente si riduce alle rifles­sioni raf­fi­na­tis­sime di alcuni «prin­cipi del foro» dell’antica Roma (Ulpiano, Mar­ciano e Cice­rone fra gli altri) come di oggi. Al nostro è ben chiaro che il con­te­sto poli­tico deter­mina il rap­porto fra il popolo e i beni neces­sari per la sua vita e la sua ripro­du­zione. Egli tratta così il rap­porto fra beni comuni, loro accesso e tutela e la strut­tu­ra­zione impe­riale del potere ai tempi di Roma. Pari­menti, riper­corre la dimen­sione poli­tica degli albori dell’ Ita­lia libe­rale, i rap­porti fra costru­zione dello Stato nuovo e il potere del suo popolo. 

L’angolo di osser­va­zione che l’autore pre­di­lige, «il taglio» come egli lo chiama, non poteva certo limi­tarsi alla defi­ni­zione sostan­ziale dei «beni comuni», nozione per natura ambi­gua che può esser com­presa sol­tanto nei suoi diversi con­te­sti poli­tici e cul­tu­rali. La geneao­lo­gia diviene pos­si­bile per­ché Di Porto, da giu­ri­sta attento al lato pra­tico delle que­stioni, pre­di­lige il momento dei rimedi, dell’accesso (alla) e della tutela. Egli quindi fa coin­ci­dere, in un certo senso, i beni comuni con la loro «tutela dif­fusa» (un’espressione già ado­prata da Scia­loja negli anni ottanta del secolo XIX) opzione che ave­vamo per­corso pure nella Com­mis­sione Rodotà, e che recen­te­mente Set­tis ha por­tato agli onori del dibat­tito politico-culturale con il suo libro Azione popo­lare. Cit­ta­dini per il bene comune. 

Fatta que­sta mossa, cioè uti­liz­zando quello che i giu­ri­sti chia­mano un approc­cio rime­diale, all’autore risulta age­vole spie­gare sia il lungo silen­zio della roma­ni­stica sull’ isti­tuto dell’azione popo­lare ossia della legit­ti­ma­zione del qui­vis de populo (cit­ta­dino) a difen­dere le res in usu publico (cui Di Porto ricon­duce la nozione di beni comuni ancor più che nelle mar­cia­nee res com­mu­nes omnium) per la quasi inte­rezza del secolo scorso. 

Allo stesso modo, egli spiega il grande inte­resse su que­sto isti­tuto dei giu­ri­sti ita­liani e tede­schi che scris­sero sul finire del dician­no­ve­simo o nella pri­mis­sima parte del ven­te­simo, in par­ti­co­lare in Ger­ma­nia lo Jeh­ring dello Scopo del diritto e da noi il gio­vane Vit­to­rio Scia­loja, desti­nato a diven­tare il pro­ta­go­ni­sta asso­luto della cul­tura giu­ri­dica del suo tempo. 
Gerar­chie e assolutismi 

Gli è che l’azione popo­lare e la tutela diretta dei beni comuni costi­tui­scono un prin­ci­pio anta­go­ni­sta rispetto alla strut­tu­ra­zione dello «Stato appa­rato» e gerar­chico e della stessa idea di per­sona giu­ri­dica (pub­blica e pri­vata che sia). Così come la por­tata dell’azione declinò quando la Roma impe­riale isti­tuì appo­site magi­stra­ture depu­tate alla tutela delle res publi­cae, lo stesso non poteva che avve­nire quando lo Stato libe­rale (il costi­tu­zio­na­li­smo libe­rale) sposò quell’assolutismo giu­ri­dico che ancora domina indi­stur­bato l’attuale discorso sulla lega­lità costituita. 

È una con­trap­po­si­zione, quella fra lo stato moderno e il suo popolo (che pure la nostra Costi­tu­zione vor­rebbe sovrano) da cui era immune la Roma repub­bli­cana e sulla quale Di Porto cede la parola al più cele­bre espo­nente della c.d. giu­ri­spru­denza degli inte­ressi tede­sca, Rudolf Von Jeh­ring che la defi­ni­sce: «la cupa con­ce­zione dello Stato pro­dotta dall’assolutismo moderno e dallo Stato di poli­zia nei popoli dell’ Europa moderna» per aggiun­gere, in pre­mo­ni­zione della fase attuale: «Dovremo ancora sof­frire a lungo delle con­se­guenze di ciò… la nostra scienza moderna prende in con­si­de­ra­zione la per­sona giu­ri­dica, come se que­sto ente sol­tanto pen­sato, che non può né godere né sen­tire, avesse un’esistenza autonoma». 

A tale con­trap­po­si­zione fra Stato, per­so­na­lità giu­ri­dica e comu­nità popo­lare si rime­dia, per dirla con Scia­loja «destando la coscienza giu­ri­dica del cit­ta­dino» ren­dendo «più stret­ta­mente giu­ri­di­che le nostre leggi». A ciò ser­vi­vano le «azioni popo­lari» e a ciò mirano anche oggi le bat­ta­glie per i beni comuni. Con ciò si spiega pure l’emergere dell’interesse per ciò che può fare diret­ta­mente la comu­nità popo­lare tanto nella fase di strut­tu­ra­zione dello Stato ita­liano sovrano nazio­nale quanto nell’odierno tri­ste declino di que­sto fetic­cio nelle mani di una classe diri­gente inca­pace e col­lusa (ancora con Scia­loja: «l’inerzia o all’ingiustizia di un pub­blico fun­zio­na­rio, il quale troppe volte rap­pre­senta non lo Stato ma la mag­gio­ranza che lo governa»). 

In effetti, chi legga one­sta­mente la sto­ria ita­liana degli ultimi anni non può che rico­no­scere come la rie­mer­sione dei beni comuni dall’oblio in cui la con­trap­po­si­zione moderna fra pub­blico e pri­vato li aveva rin­chiusi sia stato l’esito di una for­tu­nata siner­gia fra rifles­sione giu­ri­dica e prassi di movi­mento, pro­prio a seguito dell’arrogarsi da parte dei governi della pro­prietà di ciò che appar­tiene al popolo nell’ambito delle pri­va­tiz­za­zione. Mai infatti il tema sarebbe rie­merso nella sua attuale impor­tanza senza la sua con­scia poli­ti­ciz­za­zione attra­verso il refe­ren­dum sull’acqua bene comune. Una siner­gia fra cul­tura giu­ri­dica e movi­menti popo­lari nata prima di tutto nella crisi di legit­ti­mità della stessa rap­pre­sen­tanza poli­tica costi­tu­zio­nale, la quale ben si è guar­data dall’avvicinarsi con serietà alla mate­ria dei beni comuni, pre­fe­rendo cer­care di tra­sfor­mare in «moda» una bat­ta­glia poli­tica che sa inci­dere pro­prio in virtù della sua capa­cità di uti­liz­zare le cate­go­rie del giu­ri­dico, anche quelle momen­ta­nea­mente più recessive. 
Sen­tenze per il popolo 

Il libro di Di Porto offre mate­riali inte­res­san­tis­simi di come il diritto dei giu­ri­sti, quando capace di riflet­tere biso­gni reali del popolo, abbia saputo scar­di­nare anche le bar­riere lega­li­sti­che più chia­ra­mente codi­fi­cate. E così l’autore trac­cia un filo dalla cele­bre sen­tenza che asse­gna Villa Bor­ghese al popolo romano nono­stante il ten­ta­tivo del Prin­cipe di chiu­derne i can­celli, alla stessa sorte capi­tata a Villa Lante della Rovere, a nume­ro­sis­sime sen­tenze minori che, incu­ranti della svolta auto­ri­ta­ria e asso­lu­ti­stica del Codice Civile del 1942 (vigente) man­ten­gono «accesa la fiam­mella» di un diritto pub­blico d’uso e di accesso, accom­pa­gnato da azione dif­fusa, negli inter­stizi pro­ce­du­rali del nostro diritto positivo. 

Di Porto mostra come tale diritto, pro­dotto dai fatti e dai biso­gni col­let­tivi, si pre­senti alto e cul­tu­ral­mente prov­ve­du­tis­simo nelle fasi in cui il modello asso­lu­ti­stico (del pub­blico o del pri­vato) si mani­fe­sta debole o ten­ten­nante, men­tre la fiam­mella sia sotto tono (ma non spenta) nelle fasi in cui l’assolutismo trova la forza poli­tica di imporsi in tutta la sua arro­ganza. La Cas­sa­zione del 2011 che, nono­stante l’inerzia di ben due Par­la­menti isti­tuiti con legge elet­to­rale inco­sti­tu­zio­nale dal 2008 ad oggi, ha rece­pito (e miglio­rato in senso col­let­ti­vi­stico, come nota pure Di Porto) la defi­ni­zione di beni comuni della Com­mis­sione Rodotà, fa ben spe­rare sulla nostra fase. Altra giu­ri­spru­denza di merito (quella pisana sul Colo­ri­fi­cio libe­rato, quella sulla Val Susa che nega accesso alla Corte Costi­tu­zio­nale) ci con­se­gna segnali oppo­sti. Oggi in Ita­lia le isti­tu­zioni poli­ti­che costi­tuite dello Stato appa­rato non rispet­tano la volontà del popolo sovrano espressa nelle forme rituali e gene­rano anta­go­ni­smo poli­tico. Una dia­let­tica viva fra que­sto e il diritto colto, alla stre­gua di para­me­tri di legit­ti­mità e biso­gno, è più che mai auspi­ca­bile. Il coro teo­rico che si sforza di depo­ten­ziare la valenza costi­tuente dei beni comuni, ridu­cen­doli al più all’ideologia libe­rale, dovrebbe riflet­tere sulla sua auten­tica col­lo­ca­zione nella genea­lo­gia che Di Porto ci offre.

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