Machiavelli si vendica all’Internet Café
A 500 anni dal suo capolavoro, è più vivo che mai: e nell’era della Rete come luogo della trasparenza saprebbe far vincere online primarie ed elezioni al suo Principe, e mantenerlo al potere con i Big Data
Gianni Riotta La Stampa 8 dicembre 2013
A mezzo millennio dalla notizia della stesura del Principe di Niccolò Machiavelli il mondo resta più «machiavellico» che mai, a onore di uno dei libri più geniali di teoria politica, classico perfetto della letteratura italiana. Un paese democratico per oltre due secoli, gli Stati Uniti, che ha inventato la Rete come luogo di trasparenza, finisce sul banco degli imputati per l’uso dei dati dell’intelligence Nsa, contro gli alleati. L’ex spia del Kgb Putin, in un paese semi libero, dove vengono assassinati i giornalisti indipendenti, accoglie come profugo politico la talpa Snowden, e indossa il laticlavio del diritto e della privacy. In Siria Bashar al Assad non fa la fine di Mubarak e Gheddafi perché fa strage dei sudditi: resta al potere a Damasco, personaggio sanguinario da pagine di Machiavelli, non attento a fede e coscienza ma al potere e alla sua cruda, crudele, natura.
Lo scontro tra Cina, Giappone e Stati Uniti sulle minuscole isolette Senkaku-Diaoyu è puro Machiavelli: come nelle analisi del segretario fiorentino, Pechino disegna la sua area di influenza, Tokyo la sfida, gli americani fanno levare in volo i B52, incrocia al largo la portaerei cinese. Chi «ha ragione», chi «torto», chi è nel «giusto» e chi no, l’«etica» da quale parte sta? Come avrebbe riso, tra i suoi uccelletti, il mantello sporco di fango, il vinaccio cattivo della bettola (antenato del Sangiovese?) Machiavelli di queste domande. Avrebbe spiegato agli avventori interessati, come provava a fare con i candidati Principi, con il Duca Valentino, che solo di forza si tratta, di potere, di politica, la coscienza privata; i dubbi morali, l’integrità etica individuale non c’entrano.
Per questo l’America, a un delicato passaggio esistenziale, celebra i 500 anni del Principe con impegno. Il filosofo e poi politico Michael Ignatieff, sulla rivista The Atlantic, elogia Machiavelli ricordando che l’esecuzione di Osama bin Laden decisa da Barack Obama, premio Nobel incongruo per la Pace, è «momento machiavelliano» per eccellenza, un gesto fuori della morale e del diritto internazionale: l’assassinio di un nemico e di innocenti attorno a lui, condannabile da tanti giuristi, ha una solo assoluzione, concessa da Machiavelli a Firenze. Obama – avrebbe detto il Segretario - ha fatto bene a difendere la Repubblica con ogni mezzo. Al massimo, obietta sarcastico Ignatieff, avrebbe sorriso dell’eccesso di dubbi di Obama, e, aggiungiamo noi, non avrebbe giustificato le esitazioni sulla Siria.
Mezzo millennio dopo, la Storia vendica Machiavelli. Vero che per il filosofo conservatore Leo Strauss fu «un maestro di malvagità», che il Papa lo mise all’Index Librorum Prohibitorum nel 1559 e che per gli inglesi era il «crudele Niccolò», ma un leader si cura di apparire più che di essere, e guarda allo Stato, alla repubblica e al potere, ieri come oggi. Lo scaffale del dibattito Usa è ricchissimo, da The garments of Court and Palace: Machiavelli and the World that he made di Philip Bobbitt a On Machiavelli, the search for glory di Alan Ryan, da Redeeming «The Prince»: The Meaning of Machiavelli’s Masterpiece di Maurizio Viroli a Niccolò Machiavelli: An Intellectual Biography di Corrado Vivanti. I due studiosi italiani ricordano con passione e saggezza come Machiavelli non sia «il gangster» della critica corriva, ma un patriota, un repubblicano che si batte per l’unificazione del paese, poi troppo a lungo rinviata come nazione, in cerca di una vera virtus politica profonda, non superficiale, capace di sacrifici, di scelte aspre.
Al mezzo millennio Niccolò è più vivo che mai. Il nostro gli apparirebbe il suo mondo, si troverebbe a proprio agio nello studiarne violenze, ipocrisie, scontri di forza e personalità, interessi. Solo il web, solo la grande Rete di dibattito diretto, trasparenza, confronto, analisi, informazione, dove i Principi sono oggetto di critica e censura, lo sorprenderebbe. Difficilissimo per il nuovo Principe aggirarla, inutile provare a censurarla con i Metadata, i controlli. Quanto si sarebbe accanito a studiare il web, Machiavelli, con che gusto avrebbe applicato il suo genio a piegare anche Internet alla ferrea filosofia del potere e della Repubblica. Ma ecco che, con un lampo negli occhi, avrebbe riconosciuto la realtà che mezzo secolo fa non aveva davanti. Se il suo genio di analisi del potere ha visto il futuro dal passato nel Principe, la sua personale visione politica fu invece frustrata, sino al carcere, ai tormenti, alla fine della carriera da politici meno interessati di lui alla storia e avidi di affari. Ecco che allora Niccolò Machiavelli nel web si sarebbe tuffato per realizzare i suoi piani, ritessere le sue trame, cercare il suo Principe, fargli vincere online primarie ed elezioni, portarlo al governo. E da lì, con i Big Data, tenerlo al potere. Tornando tra noi, Machiavelli vedrebbe solo la Rete a contrastare il disegno di potere scritto mezzo millennio or sono. Ma con quanta bravura e delizia la girerebbe a proprio favore in poche serate di lavoro, dopo una giornata non già alla bettola, ma in un Internet café.
Leggere “Il Principe” a Teheran
Studiato anche nell’Iran che scopre realismo e soft power
di Roberto Toscano La Stampa 8.12.13
Anche in Iran si celebra il quinto centenario del Principe di Niccolò Machiavelli. Grazie a un’iniziativa dell’ambasciatore italiano, Luca Giansanti, l’opera e la figura del pensatore fiorentino sono state – a fine novembre – al centro di due giornate di intenso dibattito (la prima, pubblica, nella sede del Centro per la Grande enciclopedia islamica, la seconda in formato seminariale presso l’ambasciata d’Italia) alle quali hanno partecipato studiosi dei due Paesi.
In Iran Machiavelli è letto e conosciuto, e non solo in ambito accademico, quello degli italianisti e degli studiosi di filosofia politica. Le due giornate machiavelliane di Teheran, pur nel rigore storico e concettuale degli interventi, hanno invece confermato che – come è vero di tutti i grandi pensatori – Machiavelli continua dopo mezzo millennio a trasmettere, e non solo agli esperti, elementi di analisi e riflessione validi per il nostro tempo.
Ma come si legge Machiavelli a Teheran? Quali indicazioni risultano oggi particolarmente rilevanti per la politica iraniana?
Sembrerebbe quasi ovvio che qualcuno cogliesse, nel momento in cui si discute di Machiavelli in Iran, un parallelo tra il Principe e l’ayatollah Khomeini. Un parallelo non forzato, se si pensa che Khomeini ha fondato una repubblica, per quanto islamica, e ha dimostrato di essere sia «volpe» (dissimulando fino a dopo il rientro a Teheran la sua intenzione di gestire direttamente il potere) sia «leone» (con la sua estrema durezza nell’eliminazione degli avversari). Anzi, Khomeini, leader religioso e politico nello stesso tempo, ci appare come una combinazione di Savonarola e Cesare Valentino.
Ma oggi a Teheran a nessuno verrebbe in mente di tracciare un simile parallelo, e non solo perché la figura di Khomeini rimane off limits rispetto a qualsiasi analisi critica. La ragione più profonda è che gli iraniani hanno oggi ben altre priorità che non la costruzione di una repubblica o la presa del potere attraverso l’eliminazione degli avversari.
Al primo posto, in assoluto, troviamo il realismo, un aspetto del pensiero di Machiavelli su cui si sono soffermati tutti gli interventi dei partecipanti iraniani. Interventi in cui si parlava, anche con grande competenza storica, della Firenze del Cinquecento, ma si pensava alla Teheran di oggi. La svolta di Rohani, infatti, si spiega soprattutto in chiave di realismo. Realismo degli elettori, che hanno deciso con una maggioranza di oltre il 50 per cento di accantonare le loro preferenze ultime (riformiste o conservatrici) per convergere su quanto di meglio offriva, o permetteva, il nezam, il sistema. E realismo di Rohani e del suo team diplomatico nello sbloccare con intelligente flessibilità un negoziato nucleare paralizzato fino al 2005 soprattutto dall’intransigenza americana, ma dopo quella data, con il passaggio da Khatami ad Ahmadinejad, anche da un atteggiamento di provocazione non solo sul tema nucleare (pensiamo al negazionismo della Shoah), in una sorta di mussoliniano «molti nemici, molto onore». A Ginevra gli iraniani sono invece passati, permettendo al presidente Obama di dare prova di altrettanta flessibilità, dalla contrapposizione frontale, con i rischi di un conflitto, alla disponibilità ad accettare regole e limiti pur nella difesa dei propri diritti.
Si è molto parlato, soprattutto in occasione della partecipazione del presidente Rohani all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, di quella che la stampa americana ha definito la charm offensive del nuovo governo iraniano, e qualcuno non ha mancato di metterne in evidenza gli aspetti di «marketing politico», senza parlare della interpretazione più estrema che ne ha dato il primo ministro israeliano Netanyahu (Rohani come «lupo travestito da agnello»). La realtà è invece più consistente e meno strumentale. Lo hanno confermato, nelle giornate su Machiavelli a Teheran, quegli interventi in cui gli studiosi iraniani hanno fatto riferimento al concetto di «fama», un concetto che Machiavelli ha valorizzato nel Principe sottolineando l’importanza, in politica, non solo di realizzare fatti concreti, ma di proiettare un’immagine positiva e convincente. L’Iran, in altri termini, sembra oggi avere scoperto il soft power.
Ma il realismo, nell’Iran attuale, non si applica soltanto alla politica estera, bensì all’altra componente fondamentale della proposta politica del nuovo governo, l’economia – un settore dove l’ideologia populista e la prassi demagogica di Ahmadinejad hanno prodotto danni anche più gravi e profondi che non le sanzioni. Molti interventi hanno messo in rilievo l’importanza, nel pensiero di Machiavelli, del fine di perseguire il «bene comune» inteso nella sua concretezza, rispetto al quale il potere o le ideologie possono soltanto avere un ruolo strumentale.
Realismo contro ideologia, «fama» contro sterile provocazione, accento sul bene comune, regole come alternativa al conflitto: ecco come si legge Machiavelli a Teheran in questa fase di rinnovamento politico.
Ma messer Niccolò non si definirebbe “machiavellico”
di Massimiliano Panarari La Stampa 8.12.13
Se Marx si dichiarava non marxista, ci sono ragionevoli motivi per ritenere che anche Niccolò Machiavelli avrebbe avuto parecchio da ridire sulla qualifica di «machiavellico». Mentre il concetto di machiavellismo è dilagato, tra usi e (soprattutto) abusi, nella scienza e, ancor più, nella pratica della politica, fino a designare il suo dark side e a sovrapporsi, di recente, perfino alle «arti oscure» dello spin doctoring e della manipolazione comunicativa.
Come tutti i grandi autori seminali, Machiavelli si offre a molte ermeneutiche possibili, e il suo essere stato uno dei maestri del realismo politico (e della dissimulazione) ha portato a una semplicistica equazione tra la «categoria» di machiavellismo e la riprovevole triade immoralità, opportunismo e cinismo. A sostenerlo è stata una tradizione di lunga data, da Tommaso Campanella all’Antimachiavelli di Federico di Prussia («riveduto e corretto» da Voltaire), sino al soprannome spregiativo, «le Florentin», affibbiato in tale ottica a François Mitterrand. Il Principe e lo slogan «il fine giustifica i mezzi» (frase da lui mai scritta, per la verità) sono così diventati pilastri della Realpolitik e della legittimazione dell’uomo forte – e solo – al comando, da Benito Mussolini a Bettino Craxi e Silvio Berlusconi (tutti e tre, non a caso, prefatori di altrettante riedizioni dell’opus magnum del pensatore rinascimentale).
Negli Usa, tra gli affezionati della versione realista del nostro troviamo James McGregor Burns, autore di una delle più note biografie di Franklin Delano Roosevelt, machiavellicamente intitolata The Lion and the Fox (1956), e, ai giorni nostri, lo stratega obamiano David Axelrod e il politologo di Harvard Joseph Nye jr, che fa del Segretario fiorentino il teorico del primato dell’hard power.
Alla tesi di Machiavelli cattivo maestro si oppone, invece, il filone della «interpretazione obliqua del machiavellismo», secondo cui egli, indirizzandosi ai principi, parlava ai popoli per metterli in guardia dalla violenza della tirannide, nel quale troviamo, in assortita compagnia, figure del calibro di Spinoza, Rousseau, Alfieri e Foscolo. E non manca neppure il Machiavelli pop, che compare come personaggio nel celebre videogioco Assassin’s Creed. Machiavellismo neo-ludico...
Uno storico decritta tre lettere di Vettori al Segretario fiorentino
“Altro che profeta del cinismo La sua vera colpa fu l’idealismo”
di Alberto Mattioli La Stampa 8.12.13
«Avevo spesso pensato che Machiavelli fosse “machiavellico” in teoria ma ingenuo nella pratica politica. La mia scoperta lo conferma». Parola di Marcello Simonetta, storico del Rinascimento con cattedra a Parigi e autore del bestseller L’enigma Montefeltro, nel quale rileggeva la congiura dei Pazzi dopo aver decrittato alcune lettere in cifra. Prossimamente uscirà da Bompiani il suo Volpi e Leoni. I misteri dei Medici. E ancora una volta la sorpresa è crittografica. Simonetta ha decifrato tre lettere di Francesco Vettori a Machiavelli, due conservate alla British Library e una all’Archivio di Stato di Firenze. «Vettori era il grande amico e corrispondente dello scrittore, destinatario della celebre lettera del 10 dicembre 1513 in cui è annunciata la composizione del Principe. Ma, a differenza di Machiavelli, Vettori era una specie di gattone politico che dopo ogni rivolgimento politico fiorentino cadeva sempre in piedi».
Siamo nell’agosto 1526 quando Machiavelli, dopo tredici anni di oblìo, rientra finalmente nelle grazie di papa Clemente VII Medici e dunque nel grande giro politico. È incaricato di riorganizzare la milizia fiorentina, quindi ha l’occasione di realizzare finalmente i suoi progetti di riforma militare. «Ma dalle lettere del Vettori, che risponde a quelle di Machiavelli andate perdute, si capisce che non c’è nessuna possibilità di mettere in pratica la teoria. Il Papa scrive Vettori è “sbigottito” perché 400 senesi hanno sbaragliato i suoi 5 mila mercenari. La “fortuna” dell’Imperatore Carlo V, i cui lanzichenecchi stanno calando su Roma, potrebbe certo “mutare”, ma a Roma non ci sono i “danari” e dunque “bisogna misurare a punto”, cioè andar cauti con le spese e non fare castelli in aria. Insomma, fra Vettori e Machiavelli il più machiavellico è Vettori».
Secondo Simonetta, i veri politici fiorentini consideravano Machiavelli un uomo di pensiero, non d’azione: «Personaggi come Vettori, Guicciardini o Acciaiuoli non lo prendevano molto sul serio come politico. Da Amboise, Acciaiuoli, ambasciatore in Francia, scrive a Guicciadini che il tentativo di «disciplinare le fanterie» del Machiavelli gli pare «come la Repubblica di Platone». Un’eco ironica al famoso capitolo 15 del Principe sulla «verità effettuale contrapposta alle utopie». Che paradosso. La colpa vera di Machiavelli non era il cinismo: era l’idealismo.
«Il Principe» in esilio
Cinquecento anni fa Machiavelli scrive la più famosa delle sue lettere Il
filosofo inaugura una stagione in cui la politica ha saputo
interpretare, indirizzare e governare processi e conflitti economici e
sociali Quanto siamo lontani da lui oggi?di Luca Baccelli l’Unità 10.12.13
CINQUECENTO ANNI FA, IL 10 DICEMBRE 1513, NICCOLÒ MACHIAVELLI SCRIVE LA
PIÙ FAMOSA DELLE SUE LETTERE. Racconta a Francesco Vettori la sua
condizione di esiliato che passa le giornate a seguire il suo podere e a
«ingaglioffarsi» all’osteria e le serate a leggere i classici e parlare
con loro». E soprattutto annuncia di aver completato Il principe e la
sua intenzione di donarlo a Giuliano de’ Medici, nella speranza che i
nuovi signori di Firenze gli affidino un qualche incarico, «dovessino
cominciare a farmi voltolare un sasso».
Machiavelli ha passato gli anni dal 1498 al 1512 al servizio della
repubblica di Firenze, ha svolto incarichi diplomatici di grande
responsabilità e organizzato la milizia popolare. Caduto in disgrazia,
si rivolge ai signori che lo hanno fatto incarcerare, torturare e poi
esiliare rivendicando la sua competenza nell’«arte dello stato». Secondo
molti si presenterebbe così come un puro tecnico della politica,
disponibile a mettere la sua professionalità al servizio dei governanti
di turno. È per questo scopo che avrebbe scritto un libretto che rientra
nel genere letterario rinascimentale dei «consigli ai principi», avendo
cura di introdurre strabilianti novità per attirare su di sé
l’attenzione. Questa sorta di abiura, oltre che inutile per i destini
personali di Machiavelli, si rivelerà temporanea: di lì a qualche anno
Machiavelli tornerà a frequentare gli ambienti repubblicani, in
particolare il circolo degli Orti Oricellari ai cui esponenti dedicherà i
Discorsi.
Ma se Il principe è un esercizio letterario per ingraziarsi i Medici e
ottenere un incarico, come spiegare l’impatto che questo libretto e poi
le grandi opere teoriche e storiche hanno avuto sul pensiero politico
occidentale? Lo stesso Machiavelli ci offre un indizio. Non voglio,
scrive nella lettera dedicatoria, venire considerato presuntuoso perché,
essendo «di basso ed infimo stato» mi metto a «discorrere e regolare e’
governi de’ principi». Per disegnare le pianure bisogna salire sui
rilievi, e per disegnare le montagne guardarle dalla pianura;
«similmente, a conoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere
principe, e a conoscere bene quella de’ principi, bisogna essere
populare». È una dichiarazione di appartenenza, e sul bisogno che il
principe, in particolare il «principe nuovo», il fondatore di un nuovo
Stato, ha del popolo il testo ritornerà più volte.
NICCOLÒ E ANTONIO
Machiavelli, come è noto, dichiara «più conveniente andare drieto alla
verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa». Fonda il
realismo politico, e questo, secondo molti, significherebbe che la
teoria politica deve essere «avalutativa», limitarsi a descrivere
oggettivamente la realtà. Eppure Il principe si conclude con
un’esortazione ai Medici a impegnarsi per la liberazione dell’Italia dal
dominio straniero. Machiavelli adotta toni epici, evoca Ciro e Teseo e i
miracoli che accompagnano la liberazione degli Ebrei guidata dal
«principe nuovo» Mosè. Gli interpreti hanno discusso a lungo
sull’effettivo significato dell’esortazione finale e molti hanno
sostenuto che è un’aggiunta estrinseca.
Antonio Gramsci, recluso nel carcere di Turi, non aveva molti strumenti
filologici a disposizione e viveva un isolamento assai più drammatico di
quello sofferto da Machiavelli. In comune c’era la percezione di una
triplice crisi: dell’Italia, di Firenze, personale per Machiavelli.
Personale, dell’Italia, del movimento operaio, nel caso di Gramsci. Egli
scrive che mentre «la trattazione è condotta con rigore logico, con
distacco scientifico», nell’invocazione finale di un principe nuovo che
nella realtà storica non esisteva Machiavelli «si fa popolo, si confonde
con il popolo».
Machiavelli prende le distanze dalla tradizione giusnaturalistica, per
non dire dall’idea di un fondamento divino del potere, e introduce nuove
categorie per una situazione nuova. Il suo realismo non è l’esclusione
di principi e valori dalla politica; è la capacità creativa di
individuare gli spazi di possibilità offerti dalla fortuna nel corso
delle cose governato dalla necessità. Gramsci lo interpreta come una
forma di educazione politica dei subalterni, perché chi appartiene ai
gruppi dirigenti tradizionali il realismo politico lo acquisisce
automaticamente.
Machiavelli critica l’immaginazione astratta degli stati che «non si
sono mai visti né conosciuti essere in vero» ma risponde alla crisi con
un sovrappiù di innovazione creativa. Inaugura così la politica moderna,
la lunga stagione in cui la politica è stata capace di interpretare,
indirizzare e governare i processi e i conflitti economici e sociali.
Quanto siamo lontani da Machiavelli? È possibile oggi una tale
immaginazione o la decadenza della politica è senza alternative, le
decisioni vere si prendono altrove, sullo sfondo di una universale
corruzione? Gramsci, da parte sua, insisteva sulla necessità
dell’intervento politico consapevole per dare forma e indirizzo ai
movimenti della società, per definire la volontà collettiva. E, come è
noto, affidava questo compito al partito politico, incarnazione moderna
del principe machiavelliano, «intellettuale collettivo». Ma qui,
davvero, viviamo in un’altra epoca.
Perché la politica è vita (e viceversa)
Machiavelli e la lezione del “Principe” cinque secoli dopo
di Roberto Esposito Repubblica 10.12.13
L’elemento che forse più colpisce il lettore moderno di Machiavelli è la
relazione indissolubile che egli istituisce tra politica e vita. Ad
essa si può guardare da entrambi i versanti. Da una parte la vita ha
sempre una connotazione in senso lato politica. Non esiste zona della
vita umana sottratta alla necessità della politica. Senza di essa né gli
individui né i gruppi resisterebbero al turbine di accidenti che
ininterrottamente li percuote. Ma la relazione tra vita e politica non
si ferma qui – alla protezione che la politica fornisce alla vita. Essa
va guardata anche dall’altro lato: se è vero che la politica è
necessaria alla vita, la vita è a sua volta la materia stessa della
politica.
Quando Machiavelli parla del “vivere libero” o sostiene che «una
repubblica ha maggior vita» del principato, bisogna prendere queste
espressioni nel loro significato più intensamente letterale: esistono
dei regimi politici più di altri ca-paci di restare vivi perché fin
dall’inizio commisti con la vita, con i suoi bisogni, i suoi impulsi, i
suoi desideri. Tra potere e vita non si dà mai distanza assoluta, scarto
radicale. Come non esiste vita priva di una qualche configurazione
politica, così non esiste un potere talmente assoluto da rapportarsi
alla vita solamente dall’alto e dall’esterno. Per quanto isolato o
puntuale, ogni potere affonda le proprie radici in un mondo istintivo e
naturale non diverso, nella sua consistenza, da quello animale.
Per fornirne una esemplificazione testuale, si prendano le famose
paginedel VII capitolo delPrincipe, dedicato alle vicende di Cesare
Borgia. Esso si apre, come diversi altri brani machiavelliani, su una
doppia possibilità alternativa – quella tra coloro che acquistano il
dominio di un dato territorio per virtù e coloro che lo acquisiscono per
fortuna. Machiavelli, come è caratteristico del suo metodo, tende a
intrecciare tra loro le due tipologie. Il caso di Cesare Borgia,
infatti, per quanto riconducibile all’ambito della fortuna per il ruolo
giocato dal padre, il papa Alessandro VI, vede il Valentino mettere in
campo una straordinaria virtù politica, naturalmente nel senso laico e
spregiudicato che Machiavelli conferiva a questa parola. Cesare fece
tutto ciò che dipendeva da lui per fondare e consolidare il proprio
potere – un insieme di decisioni politiche, di opzioni strategiche, di
azioni energiche quanto delittuose. E tuttavia ciò non gli bastò. Giunto
all’apice del successo, egli è colpito, e distrutto, da quella stessa
contingenza che ne aveva favorito la crescita impetuosa.
Ma l’elemento che in questo caso appare ancora più nuovo, rispetto a
ricostruzioni più classiche, è il fatto chegli eventi che mutano
catastroficamente i rapporti di forza a sfavore del Valentino si
riferiscano soprattutto alla sfera della vita biologica e del suo
rovescio mortale. A far perdere Cesare Borgia, nonostante la sua
straordinaria virtù politica, è prima la morte del padre e poi la sua
stessa malattia. In tutta la seconda parte del capitolo Machiavelli
insiste con la massima intensità su questo scenario “biopolitico”: la
«brevità della vita di Alessandro e la malattia» del Valentino occupano
interamente la scena, imponendosi su tutti gli altri elementi del
quadro.
Ciò che Machiavelli sottolinea è l’intreccio – appunto sfortunato – tra i
due accadimenti. Se papa non fosse morto mentre il figlio si ammalava; o
se Cesare fosse stato in buona salute alla morte del padre, si sarebbe
potuto salvare. Ciò che lo condanna è la simultaneità dei due fatti.
L’uno viene a caricare di un peso insostenibile l’altro. La vita – e la
morte – dell’uno determina la vita e la morte dell’altro. Mai, prima di
Machiavelli, questi termini – vita, morte, salute, malattia – erano
penetrati con tanta forza nel lessico della politica. Mai prima di
allora la politica era stata saldata con un nodo altrettanto stretto
alla biologia. Perciò tutto il lessico di Machiavelli è pervaso da
metafore, termini, immagini biologiche e mediche. Non solo il destino
degli uomini politici, ma anche quello degli Stati è legato alle
vicende, agli umori e alle peripeziedel corpo.
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