giovedì 5 dicembre 2013
Nuove edizioni italiane per Hoffmann
Lo scrittore e il fantasma
I deliri di Hoffmann che ispirarono Freud
di Franco Marcoaldi Repubblica 4.12.13
«Non
vi è niente di più strano e di più folle della vita reale e il poeta in
fondo può solo limitarsi a coglierla, come nell’oscuro riflesso di uno
specchio opaco». Così il narratore si rivolge al lettore mentre gli sta
narrando la terribile vicenda di Nathanael, il protagonista della
novella di E. T. A. Hoffmann,
L’uomo della sabbia, su cui Freud
concentrerà la sua attenzione per elaborare la teoria del “perturbante”:
quel sentimento angoscioso che ci prende di fronte a una situazione che
percepiamo al medesimo tempo come estranea e familiare.
Sin da
bambino, Nathanael ha dovuto convivere con immagini sinistre, con la
visione di personaggi luciferini che hanno irrimediabilmente alterato la
sua psiche. Anche se l’amata Claire, donna ironica e ragionevole,
contraddice quel suo teatro fantasmatico e affaccia un’ipotesi per certi
versi ancora più inquietante: quelle apparizioni atroci che lo turbano
non sono esterne, ma albergano nella sua anima. Ed è contro quel
diabolico nemico interiore che noi uomini dobbiamo lottare strenuamente
con la forza della ragione, se non vogliamoinoltrarci in un cammino
rovinoso.
L’uomo della sabbia apre la celebre raccolta dei Notturni
(1816-1817), facendo da coda ideale al non meno famoso romanzo Gli
elisir del diavolo, scritto negli anni immediatamente precedenti
(1815-1816): volumi, entrambi, che escono ora in una splendida edizione
della casa editrice L’Orma per le sapienti cure di Matteo Galli e Luca
Crescenzi.
È l’ennesimo miracolo della piccola editoria italiana di
qualità, che a fronte di una drammatica crisi economica e dell’ulteriore
calo dei lettori, continua a perseguire ambiziosissimi progetti: in
questo caso la pubblicazione – sotto la direzione dello stesso Matteo
Galli – dell’opera omnia di Hoffmann, autore tanto geniale quanto
inafferrabile.
Nato a Königsberg nel 1776 e morto di tabe dorsale nel
1822, il Nostro vive la sua breve esistenza a rotta di collo:
magistrato in svariate città tedesche e polacche nel pieno dell’epoca
napoleonica, compositore, capocomico, disegnatore, direttore di teatro e
d’orchestra, grande consumatore di alcol e facile agli innamoramenti,
appassionato studioso della neonata psichiatria, critico teatrale,
Hoffmann esordisce in letteratura relativamente tardi, a trentatré anni.
Ma da lì in avanti è un fiume in piena. E il tumulto della scrittura
sembra riflettere il tumulto della vita: anche sulla pagina scritta,
infatti, le diverse esperienze, conoscenze e influenze convivono
simultaneamente.
Di primo acchito si dovrebbe parlare di lui come di
un romantico a tutto tondo, ma si farebbe torto a quel persistente
razionalismo scettico presente nel suo pensiero (come dimostra la
postura di Claire). Il notturno, l’inesplicabile e il fantastico
rappresentano per certo il suo mood preponderante, ma la dimensione
onirica e spettrale – come indicano le parole del narratore de L’uomo
della sabbia– può trovare linfa vitale anche nella realtà più ordinaria.
Se
poi dalle novelle si passa ai romanzi, la questione si complica
ulteriormente: difficile, se non impossibile, rintracciare un’unica
matrice. Perché se è vero cheGli elisir del diavolo prende le mosse
dalla tradizione del romanzo gotico, dalla tentazione in cui cade il
monaco Medardus che beve, e non dovrebbe, l’inebriante elisir conservato
tra le preziose reliquie di Sant’Antonio a lui affidate, da lì in
avanti succede di tutto: tra “sante allucinazioni”, amori febbrili e
loschi omicidi.
Così, le iniziali pagine devozionali lasciano il
campo a espliciti rimandi al romanzo libertino, con il diavolo intento a
confondere tra loro perdizioni erotiche e ascensioni mistiche, mentre
acuminate riflessioni sulla dissociazione psichica si intrecciano con
altrettanto accurate disamine sull’arte; e continui rinvii al romanzo
d’avventura preludono al finale, che ritorna «sull’aspirazione alle cose
sante e ultraterrene». Senza dimenticare mai il basso continuo su cui
giustamente insiste Luca Crescenzi: quel timbro ironico e carnascialesco
che ci rammenta come tutto, al fondo, si riduca a una folle recita. Del
resto, che cosa fa il cappuccino Medardus, se non cambiare
ininterrottamente maschera e dunque identità? All’inizio era un monaco e
poi lo ritroviamo nei panni di un conte, di un uomo di mondo «dedito
unicamente alle scienze e alle arti», di un oscuro nobile polacco. Come
gli rammenta Belcampo – l’esuberante parrucchiere che lo invita ad
abbandonarsi festosamente alla follia, «vera signora degli intelletti su
questa Terra» – il contrassegno della modernità è l’eclettismo, la
simultaneità delle forme, l’ininterrotta metamorfosi. Con tutti i rischi
che ne conseguono, perché il diavolo ha campo libero una volta che si è
smarrito il baricentro esistenziale: «il mio io era diviso in cento
parti. Ciascuna aveva, nel suo affaccendarsi, una propria coscienza
della vita, e la testa inviava invano ordini alle membra che, come
vassalli infedeli, non intendevano riunirsi sotto il suo comando».
A
tratti il lettore può anche rimanere frastornato di fronte ai mille fili
di un racconto che – nella geometrica perfezione del congegno narrativo
– rovescia di continuo punti di vista, tempi e prospettive. Tanto più
visto che, accanto alle mille, successive metamorfosi di Medardus, ci
sono da mettere in conto anche quelle dei suoi sosia, alter ego,
Doppelgänger.
Attraverso i quali si manifestano il Nemico, il
diavolo, ilrevenant,che accompagnano l’uomo nel suo sfiancante viaggio
sulle montagne russe: tra realtà e allucinazione, terra e cielo, peccato
e virtù, spirito e carne, Bene e Male.
Così, giunti alla fine, non
si fa fatica a capire perché, davanti a questo picaro dell’anima,
l’imperturbabile Goethe storcesse il naso. Mentre, per contro, in
Medardus e più in generale nell’opera notturna di Hoffmann, emergono in
piena evidenza i tanti motivi di fascinazione da parte di Baudelaire,
Gogol’, Dostoevskij. Frugando con straordinario acume nei meandri della
psiche, l’autore degli Elisir del diavolo prefigura addirittura le
inquietudini di quell’età dell’ansia che culmina nel Novecento. E
leggendo le memorie di Medardus, che davanti al proprio io «divenuto un
crudele giocattolo di un caso capriccioso, e confusosi con l’immagine di
altri, nuotava senza requie nel mare degli avvenimenti», viene alla
mente Musil quando parla dell’io come di un “delirio dei molti”. O
l’eteronimo Pessoa, abitato –comenoto – da “una sola moltitudine”.
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