giovedì 9 gennaio 2014
Il decennale della morte di Norberto Bobbio
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Avvenire
Bobbio, non c'è politica senza cultura
Ricerca e verifica accurata dei fatti e argomentazioni rigorose come ingredienti chiave delle scelte pubbliche
di Mario Ricciardi Il Sole 24 Ore Domenica 12.1.14
Norberto Bobbio se ne è andato in silenzio, con discrezione, come era
nel suo stile, il 9 gennaio del 2004. Che fosse anziano e di salute
cagionevole era noto. Forse meno conosciuta, se non alle persone intime,
era la stanchezza che da alcuni anni lo aveva assalito, evoluzione di
un'indole incline alla malinconia. Lo stesso Bobbio ne aveva parlato con
la consueta lucidità a un corrispondente alcuni anni prima: «la mia
vita ormai è vissuta al rallentatore. Lente nei movimenti le gambe e le
mani. Lenti tutti i movimenti del corpo. Deboli gli occhi e quindi lenta
la lettura. Faticoso anche il solo alzarmi per prendere un libro.
Sempre più rapido invece questo processo di indebolimento. Da qualche
tempo provo in maniera sempre più penosa la fatica di vivere, che, del
resto, conosco, in forma leggera, naturalmente, sin dall'infanzia. Non
viaggio più». Non che viaggiare fosse una passione per Bobbio.
Scherzando, si descriveva come un provinciale. Bogianen, come si dice
nella sua Torino. Uno che sta nel suo buco, che non si muove. Certo un
buco confortevole, nel centro di quella che un concittadino della stessa
generazione paragonava a una guarnigione, ma che mostrava ancora il suo
volto di piccola capitale di un regno subalpino preservando con
caparbietà e orgoglio la dignità che altre ex capitali della penisola
faticavano a difendere. Pochi passi separavano via Sacchi, dove Bobbio
abitava, dalla Facoltà di Scienze Politiche, dove si era trasferito
lasciando l'insegnamento di filosofia del diritto per prendere quello di
filosofia politica. Ma in mezzo c'era un mondo. Quello delle idee e dei
pensatori che lo avevano accompagnato per anni: Locke, Hobbes, Kant,
Hegel, Marx, Cattaneo, Kelsen, Weber e tanti altri, noti e meno noti,
cui Bobbio si dedicava con pazienza e rigore, sezionandone le opere per
esibirne l'anatomia a generazioni di studenti. Quello dei tanti
corrispondenti, da Hart a Oppenheim fino a Scarpelli, con cui tesseva un
fitto dialogo epistolare. In molti, tra chi ne frequentava le lezioni,
sono diventati a loro volta professori. Non solo nelle "sue" materie, ma
in tante altre. Perché quella di Bobbio era una "scuola" nell'unico
senso rispettabile che questa espressione può avere quando si usa a
proposito dell'accademia: un posto dove si impara. Si apprende come si
ragiona, che bisogna aver rispetto dei fatti, della verità e degli
interlocutori.
Sotto questo profilo Bobbio era un esempio. Nel 1996, lo stesso anno in
cui scrisse la lettera a Danilo Zolo da cui ho ripreso la descrizione
della sua «fatica di vivere», lo studioso torinese era al lavoro su un
libro – fortemente voluto da Carmine Donzelli, che alcuni anni prima di
Bobbio aveva pubblicato il fortunatissimo Destra e sinistra (1994) – che
raccoglieva alcuni suoi scritti del periodo immediatamente seguente
alla fine della seconda guerra mondiale, accompagnati da un commento
retrospettivo dell'autore. Ritornando agli anni del fascismo, Bobbio
scriveva: «non è difficile ricostruire lo stato d'animo di chi, come me e
tutti gli appartenenti alla mia generazione, era arrivato agli anni
della maturità senza aver mai votato, e avendo cercato, se mai, di
sottrarsi a quelle forme di partecipazione forzata che erano le adunate e
le altre messe in scena che non riuscivamo più a prendere sul serio».
In effetti, colpisce, in questi scritti del dopoguerra l'insistenza
sull'eccesso di politica che molti vedevano nell'esperienza recente del
regime fascista, cui c'era chi reagiva rivendicando l'apoliticismo come
valore e la separazione tra tecnica e politica. Una chimera che, nel
1945, Bobbio liquidava con parole che oggi appaiono profetiche: «tecnica
apolitica vuol dire in fin dei conti tecnica pronta a servire qualsiasi
padrone, purché questi lasci lavorare e, s'intende, assicuri al lavoro
più o meno onesti compensi; tecnica apolitica vuol dire soprattutto che
la tecnica è forza bruta, strumento, e come tale si piega al volere e
agli interessi del primo che vi ponga le mani. Chi si rifugia, come in
un asilo di purità, nel proprio lavoro, pretende di essere riuscito a
liberarsi dalla politica, e invece tutto quello che fa in questo senso
altro non è che un tirocinio alla politica che gli altri gli imporranno,
e quindi alla fine fa della cattiva politica». Dietro l'illusione della
tecnica apolitica, Bobbio vedeva all'opera il politico incompetente che
non è in condizione di prendere buone decisioni perché è privo delle
conoscenze necessarie. Non ha idea di come procurarsele, e non se ne
cura perché è soltanto un politicante. Un tema, come si vede, di
schiacciante attualità nel dibattito in corso sulla riforma del
parlamento. Proprio al compito di rendere la politica consapevole
dell'importanza della conoscenza accurata dei fatti e del rigore
nell'argomentazione Bobbio avrebbe dedicato una parte consistente delle
sue energie nei decenni del dopoguerra, fino alla crisi della prima
repubblica. Così, ad esempio, scriveva nei primi anni cinquanta, in
polemica con i comunisti che proponevano una "politica culturale",
difendendo una "politica della cultura" che fosse: «oltre che la difesa
della libertà, anche la difesa della verità. Non vi è cultura senza
libertà, ma non vi è neppure cultura senza spirito di verità. (…) Le più
comuni offese alla verità consistono nelle falsificazioni di fatti o
nelle storture di ragionamenti». C'è da chiedersi quanto, dello
scoramento che Bobbio confessava alla fine degli anni novanta, fosse
dovuto alla sensazione di aver combattuto questa battaglia invano.
Del rispetto per i fatti e per la verità, Bobbio è stato un esempio
anche se lo riguardavano, dolorosamente, da vicino. Fu così, quando, nel
1992, emerse una lettera in cui si rivolgeva direttamente a Mussolini
per evitare le conseguenze cui sarebbe probabilmente andato incontro per
via delle sue frequentazioni nell'ambiente dell'antifascismo torinese.
Bobbio non fece nulla per sottrarsi alle critiche virulente di cui fu
oggetto: «non voglio aver l'aria di mendicare giustificazioni. Ci sono
pur stati coloro che non hanno fatto compromessi». Vale la pena di
notare che nessuno, tra quelli che compromessi non fecero – nemmeno tra
gli avversari comunisti – si unì al coro delle critiche. Forse perché
l'esperienza diretta di una dittatura affina la sensibilità delle
persone, e le spinge a diffidare dei moralisti che rifiutano di vedere
le sfumature.
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