venerdì 17 gennaio 2014
Reti digitali e General Intellect
Quelle banche dati che ci obbligano ad essere intelligenti
di Michel Serres Repubblica 17.1.14
Da
quando siamo uomini, abitiamo in uno spazio polarizzato attorno a
luoghi diconcentrazione, case, villaggi e tesori diversi; in
particolare, il luogo stesso in cui vivo e al quale riferisco il mio
indirizzo. Viviamo in questo spazio perché costruire lo forma, abitare
lo consolida e pensare consiste nel riprodurlo.
Lo spazio
immagazzina, l’individuo pensa: stesso processo. Non saremmo potuti
sopravvivere senza queste concentrazioni che condizionavano la vita,
l’individuo, il collettivo, le pratiche e la teoria; non ci smettevamo,
instancabilmente, di inventarne di nuove sotto tutti i rapporti. Ed ecco
che i computer portano a compimento questo segmento dell’ominizzazione.
Perché se queste macchine possono essere definite universali, meritano
tale titolo sotto la rubrica, appunto, della concentrazione. Che bisogno
abbiamo di riunire libri, segni, beni, studenti, case o mestieri dal
momento che il computer lo fa? Il problema generale
dell’immagazzinamento che cercavamo di risolvere e sul quale lavoravamo
follemente fin dalla nostra origine ha trovato soluzione, non solo reale
ma virtuale: ogni questione di questo tipo trova molteplici risposte
possibili, secondo le sue condizioni e costrizioni. Le reti rendono
desueta la concentrazione attuale, voglio dire un ammasso qualsiasi qui e
ora.La rapidità delle comunicazioni concentra virtualmente ovunque, ad
libitum, tutto o parte del connesso disponibile. Al contrario delle
antiche tecnologie, le nuove macchine sostituiscono con trasmissioni
rapide la funzione del conservare. Non immagazziniamo più cose, bensì
relazioni.
Le reti sostituiscono la concentrazione con la
distribuzione. Da quando disponiamo, su una postazione portatile o sul
telefonino, di tutti i possibili accessi ai beni o alle persone, abbiamo
meno bisogno di costellazioni espresse. Perché anfiteatri, classi,
riunioni e colloqui in un dato luogo, e perché una sede sociale, dal
momento che lezioni e colloqui possono tenersi a distanza? Gli esempi
culminano in quello dell’indirizzo. In tutto il corso della storia è
stato riferito a un luogo, di abitazione o di lavoro, mentre oggi
l’indirizzo di posta elettronica o il numero di telefono cellulare non
indicano più un determinato luogo: un codice o una cifra, pura e
semplice, basta. Quando tutti i punti del mondo godono di una sorta di
equivalenza, la coppia qui e ora entra in crisi. Heidegger, filosofo
oggi assai letto nel mondo, nel chiamare esserci l’esistenza umana,
designa un modo di abitare o di pensare in via di estinzione. Il
concetto teologico di ubiquità – la capacità divina di essere ovunque –
descrive meglio le nostre possibilità rispetto al funebre qui giace.
Un
altro modo di interpretare il gesto di immagazzinare: depositare
informazione su pergamena, carta stampata o supporto elettronico
significa costruire una memoria. I nostri antenati assomigliavano agli
attori di oggi che sono in grado di recitare a memoria migliaia di versi
o di sostenere altrettante repliche. Simili eroismi superano ormai la
nostra capacità. Man mano che costruiamo memorie performanti, perdiamo
la nostra, quella che i filosofi chiamavano una facoltà. Possiamo
davvero dire: perdere? Niente affatto, perché il corpo deposita, a poco a
poco, quell’antica facoltà nei supporti mutevoli; cervicale e
soggettiva, essa si oggettivizza e si collettivizza. Una stele di
pietra, un rotolo di papiro, una pagina di carta: ecco memorie
materiali, in grado di dare sollievo alla nostra memoria corporea. Era
vero per le biblioteche, lo è ancora di più per la rete, memoria globale
ed enciclopedia collettiva dell’umanità.
Secoli fa cantastorie,
aedi, gli apostoli di Gesù, gli interlocutori di un dialogo di Platone,
anche uno studente della Sorbona medievale, potevano ripetere a distanza
di anni, senza omettere una sillaba, i discorsi di un maestro o di un
oratore uditi da giovani. Al riparo dagli errori di copisti troppo
interventisti, la tradizione orale tracciava una via più sicura rispetto
alla trasmissione scritta. I nostri predecessori coltivavano dunque la
loro memoria e disponevano di sottili strategie mnemotecniche. Man mano
che prendevamo note o leggevamo stampati, non tanto abbiamo perso quella
facoltà quanto l’abbiamo depositata nei libri e nelle pagine. Così come
la ruota fu ispirata dal corpo, dalle caviglie e dalle rotule in
rotazione nella marcia, allo stesso modo l’immagazzinamento
dell’informazione prese le mosse da funzioni cognitive antiche. Al
contrario degli animali, bloccati in un organismo senza “secrezione” di
questo tipo, noi non cessiamo di riversare le nostre prestazioni
corporee in strumenti prodotti a partireda esse. Perdiamo la memoria
perché ne costruiamo di multiple.
Ci uniamo qui ai piagnoni antichi e
moderni, i cui discorsi e testi deplorano la perdita dell’oralità,
della memoria, della concettualizzazione e di tante altre cose preziose
per i nostri avi. In realtà la perdita della memoria, nell’epoca che
seguì quella in cui si declamavano a mente i poemi di Omero, liberò le
funzioni cognitive dal carico impietoso di milioni di versi; apparve
allora, nella sua semplicità astratta, la geometria, figlia della
Scrittura. Allo stesso modo nel Rinascimento una perdita ancora più
importante sollevò i saggi dallo schiacciante obbligo della
documentazione, che allora si chiamava dossografia, e li riportò
bruscamente alla nuda osservazione che fece nascere le scienze
sperimentali, figlie della stampa. A bilancio, i vantaggi prevalgono in
maniera preponderante sui pregiudizi, poiché in tali circostanze
nacquero due altri mondi, che permisero di comprendere questo. Sapere
consiste allora non più nel ricordare, ma nell’oggettivare la memoria,
nel depositarla negli oggetti, nel farla scivolare dal corpo agli
artefatti, lasciando la testa libera per mille scoperte. Ho impiegato
molto a capire che cosa volesse dire Rabelais, quando i professori mi
obbligavano a dissertare sulla celebre frase:Preferite una testa ben
fatta a una testa piena. Prima di poter allineare i libri nella loro
libreria, Montaigne e i suoi antenati dotti dovevano imparare a memoria
l’Iliade e Plutarco, l’Eneide e Tacito, se volevano averli a
disposizione per meditare. L’autore degli Essais li cita ormai
ricordandosi solo del loro posto sugli scaffali per consultarli: quanta
economia! All’improvviso la pedagogia, che quel Rinascimento auspica,
vuoterà la testa un tempo piena, e ne modellerà la forma senza
preoccuparsi del contenuto, ormai inutile in quanto disponibile nei
libri. Liberata della memoria, una “testa ben fatta” si volgerà ai fatti
del mondo e della società per osservarli. Rabelais, in quella frase, in
realtà, loda l’invenzione della stampa e ne trae lezioni educative.
Decisamente, bisogna riscrivere Pantagruel o gliEssais.Come vecchi
cadenti, i bambini di oggi non ricordano neppure la trasmissione vista
ieri sera in televisione. Quale scienza immensa promuoverà quest’altra
perdita di memoria? Questo sapere recente si può già apprenderlo o
almeno visitarlo sulla rete, come il nuovo oblio l’ha già modellato. Sì,
l’enciclopedia, la cui rete mondiale gronda informazioni singolari, ha
appena cambiato paradigma, sotto l’effetto della nuova liberazione. Il
nostro apparato cognitivo si libera anche di tutti i possibili ricordi
per lasciare spazio all’invenzione. Eccoci dunque consegnati, nudi, a un
destino temibile: liberi da ogni citazione, liberati dallo schiacciante
obbligo delle note a piè di pagina, eccoci ridotti a diventare
intelligenti!
Come nel Rinascimento, giungono una nuova scienza e una
nuova cultura, i cui grandi racconti producono un’altra cognizione che
li riproduce a loro volta arricchiti. Questo cambiamento d’intelletto ha
avuto luogo più volte nella storia, ad esempio quando arrivarono i
modelli astratti della geometria o gli esperimenti in fisica, quando
appunto cambiavano le tecnologie. Così la storia della filosofia e la
storia stessa, tributarie della storia della conoscenza, seguono quella
dei supporti.
Sull’ultimo numero di Vita e Pensiero appare la versione integrale del testo qui anticipato
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