Il nuovo ordine mondiale nell’eccezione di Israele
Il saggio “Terra, ritorno, anarchia” di Donatella Di Cesare
di Roberto Esposito Repubblica 3.2.14
Il libro di Donatella Di Cesare, Israele. Terra, ritorno, anarchia, edito da Bollati Boringhieri, non è solo un saggio teologico-politico su Israele. È una intensa riflessione filosofica, dall’angolo di visuale dell’eccezione ebraica, sul rapporto tra popolo, nazionalità e Stato nell’epoca della globalizzazione. Lo ‘stato’ — nel senso del modo di essere, oltre che dell’organismo politico — di Israele non può essere omologato agli altri Stati sovrani, uniti tra loro dal nomos del terra. E ciò non soltanto per la ferita irrimarginabile inferta dalla Shoah, ma per una storia radicata in un rapporto con la trascendenza che sporge dall’orizzonte immanente della politica moderna. Tale eccedenza è testimoniata dal destino ambivalente del sionismo — realizzato nelle sue intenzioni, eppure in perenne contraddizione con se stesso, in continua “in crisi”, come già nel 1943 scriveva Hannah Arendt (La crisi del sionismo, ora tradotto in Politica ebraica per Cronopio).
Fondato alla fine dell’Ottocento da Theodor Herzl in una prospettiva che affidava
l’emancipazione ebraica alla creazione di uno Stato nazionale non diverso dagli altri, esso ricercava nell’appropriazione di una terra la garanzia dell’esistenza politica. In tal modo gli ebrei pagavano il prezzo di rinunciare alla propria specificità senza ottenere un’inclusione paritaria nel concerto delle nazioni. Come annotava profeticamente Joseph Roth, essi «erano sempre stati uomini in esilio. Ora diventarono una nazione in esilio». Con quella opzione gli ebrei acquisivano il diritto indispensabile alla propria sopravvivenza, ma smarrivano nello stesso tempo un elemento decisivo della loro identità differenziale.
Gershom Scholem e Martin Buber ne delineavano il profilo proprio nel contrasto con quella bipolarità tra individuo e Stato che, nel paradigma di sovranità, caratterizza la politica moderna. Se il primo già negli anni Trenta dubitava che la questione ebraica potesse trovare definitiva soluzione in Palestina, il secondo negava che Sion fosse riducibile alla figura degli altri organismi nazionali. Certo, come afferma l’autrice, la costruzione dello Stato era la via necessaria, ma non la meta ultima. In questo senso ella riconosce in tutta la sua tensione quella “tragicità del sionismo” di cui parla Shmuel Trigano nel suo Il terremoto di Israele. Filosofia della storia ebraica
(Guida). Il ritorno alla terra non può cancellare la diaspora. Il destino di Israele non è lo Stato, ma qualcosa che, attraverso di esso, si pone al contempo anche al suo esterno. Come sostiene Lévinas, la stella di David brilla nel punto di tensione tra identità e alterità, spazio e tempo, terra e cielo. Solo restando fedele all’attesa, Israele può corrispondere alla promessa di cui è esito e testimonianza.
La forza, e la passione, di questo sguardo sta nel riconoscere in tale condizione una frattura e una risorsa. Una frattura rispetto al destino degli altri Stati nazionali e una risorsa nel momento in cui esso è messo radicalmente in discussione dalla globalizzazione. Il fatto di non essere uno Stato come gli altri conferisce a Israele la possibilità di sperimentare una nuova modalità politica, non basata sulla difesa identitaria di confini bloccati, ma sul principio della continua alterazione. Certo, va detto che tra quanto sostiene la Di Cesare, lungo una linea di pensiero letteralmente anarchica, e la realtà della politica effettuale di Israele, vi è più di una differenza, se non anche un contrasto. Ma ella stessa rivendica la possibilità e la necessità, da parte del pensiero, di spingersi aldilà del dato storico verso il non-luogo dell’utopia. Sia il discorso sulla nuova comunità, come alternativa alla sovranità dello Stato, sia quello su una categoria di pace non derivata in negativo dalla guerra, ne costituiscono esempio. Essi valgono, si può dire, non nonostante, ma in ragione della loro inattualità.
Israele, la vera pace viene prima della guerra
di Furio Colombo il Fatto 24.2.14
Un libro breve e importante di Donatella Di Cesare cambia le carte in tavola sulla infinita e confusa “conversazione su Israele". L’autrice si domanda se il vasto, impetuoso fiume della storia, della vita, del Libro del popolo ebraico possano confluire nel contenitore dello Stato nazione, se la grande diaspora che si sparge nei secoli e nei luoghi possa diventare “lo Stato Ebraico”. E anche: “L’invenzione di una nuova politica richiede un ripensamento della pace. Ma quale parola è più abusata e logora, quale più irrisa e contestata?”. Il piccolo, intenso, libro (Donatella Di Cesare, Israele, terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri) è un saggio fondamentale, in questi anni, sul rapporto fra Europa politica, cultura occidentale, diaspora ebraica, Shoah e Stato di Israele. “Pur essendo ufficialmente riconosciuto, il nuovo cittadino del nuovo stato si guarda intorno e scopre di essere isolato”. Attraverso le voci di Sholem, Levinas, Buber (forse l’autore che fa più luce in questo libro) si accende un teso dialogo sul ritorno a Sion, “quel grande evento della Storia di cui non si riesce ancora a cogliere la portata”. Di Cesare nota due problemi. Il primo è che il dramma non è la sovrapposizione di popoli , ma il fatto che ognuno è stato agito da potere, governi e politica come materiali della storia degli altri (e contro gli altri). Il secondo è il giudizio di Annah Aarendt: “Il sionismo non deve essere inteso come un nazionalismo. Il popolo ebraico non può essere confinato nei limiti di una nazione”. In altre parole, Arendt rivendica la situazione apolide degli ebrei che hanno rifiutato un ruolo di appartenenza e obbedienza e di conseguenza non lo eserciteranno sugli altri. “Israele porta il dono della estraneità” concorda Di Cesare con Arendt. L’idea è che un’epoca nuova sarebbe sul punto di rivelarsi, in cui non è lo stato-nazione il contenitore ma è la convivenza fra comunità, perchè ogni stato-nazione è fondato sul vuoto. Domanda l'autrice: si può ridurre a nazione la vocazione profetica di Israele? E ricorda che la legislazione della Torà affronta il problema dello “straniero residente” e comanda: “Non angustiare lo straniero”. Ecco il carattere di questo libro. Cerca esclusivamente dentro la legge, la storia, la scrittura, la pratica dell’ebraismo. Lo fa al punto da tornare ai grandi utopisti come Gustav Landauer che hanno preceduto il socialismo scientifico di Marx e Engels, e anzi ne sono stati tenaci avversari. Ma vede qualcosa che non era mai stato visto. La Shoah, dice Di Cesare, divide per sempre e cambia il concetto di guerra. Nasce la libera caccia con mezzi ed efficacia militare alle popolazioni inermi e non combattenti, la caccia ai popoli, che un tempo erano vittime occasionali benchè immancabili e numerose. Dopo la Shoah le “vittime innocenti” sono il senso stesso della guerra. Allora si rovescia anche la definizione della pace, che non può essere la conclusione logica e attesa e civile della guerra, che in queste condizioni non può finire. La pace deve venire prima. Prima che la guerra ci sia. E in luogo della guerra.
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